La giurisprudenza di legittimità in materia di reati stradali: vecchie questioni e nuove soluzioni

07 Giugno 2022

Il presente contributo ripercorre, alla luce della recente giurisprudenza di legittimità, le seguenti questioni in materia di reati stradali: l'eccezione difensiva sulla prova del buon funzionamento dell'etilometro, l'attenuante di cui al settimo comma degli artt. 589-bis e 590-bis c.p., omicidio o lesioni stradali e guida in stato d'alterazione, il punto sul principio di affidamento.
L'eccezione difensiva sulla prova del buon funzionamento dell'etilometro

E' noto che, in base all'orientamento a lungo consolidato della Corte di legittimità in tema di contestazioni sulla regolarità dell'etilometro in riferimento a reati di guida in stato di ebbrezza, allorquando l'alcoltest risulti positivo, costituiva onere della difesa dell'imputato fornire una prova contraria a detto accertamento quale, ad esempio, la sussistenza di vizi dello strumento utilizzato, oppure l'utilizzo di una errata metodologia nell'esecuzione dell'aspirazione, non potendosi essa limitare a richiedere il deposito della documentazione attestante la regolarità dell'etilometro e non essendo sufficiente la mera allegazione di difettosità o assenza di omologazione dell'apparecchio (Cass. pen., sez. IV, n. 12265/2015, Travagli, non massimata; Cass. pen., sez. IV, n. 42084/2011, Salamone, Rv. 251117; Cass. pen., sez. IV, n. 17463/2011, Neri, Rv. 250324; Cass. pen., sez. IV, n. 8591/2008, Letteriello, non massimata; Cass. pen., sez. IV, n. 45070/2004, Gervasoni, Rv. 230489).

Coerentemente con detto orientamento, si affermava che l'art. 379, commi 6, 7 e 8 d.P.R. 16 dicembre 1992 n. 495 (regolamento di esecuzione ed attuazione del codice della strada) si limita ad indicare le verifiche alle quali gli etilometri devono essere sottoposti per poter essere omologati ed adoperati, ma non prevede nessun divieto la cui violazione determini espressamente l'inutilizzabilità delle prove acquisite (Cass. pen., sez. IV, n. 12403/2019, Ben Hassen Adel, non massimata; Cass. pen., sez. IV, n. 17463/2011, Rv. 250324; Cass. pen., sez. IV, n. 44833/2010, Di Mauro, non massimata; Cass. pen., sez. IV, n.23526/2008, Bennardo, Rv. 240846).

Successivamente, tuttavia, alcune decisioni della Corte regolatrice si sono discostate da tale orientamento.

Ciò a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 113/2015, che ha dichiarato la parziale illegittimità dell'art. 45 comma 6 d.lgs. n. 285/1992, nella parte in cui non prevedeva che tutte le apparecchiature impiegate nell'accertamento delle violazioni dei limiti di velocità (c.d. autovelox) fossero sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura, così esonerando, secondo l'interpretazione datane dal diritto vivente, gli utilizzatori dall'obbligo di verifica periodica di funzionamento e taratura delle apparecchiature; e della ordinanza della Cass. civ., sez. VI, n. 1921/2019, Rv. 652384, che ha applicato il medesimo principio al caso dell'etilometro.

La Corte di legittimità, con le sentenze n. 25132/2019, Picardi, n. 17494/2019, Scalera, e n. 38618/2019, Bertossi, tutte n.m., ha ritenuto di disattendere il tradizionale indirizzo fin qui seguito e di aderire a quello opposto, in base al quale spetta all'accusa l'onus probandi in ordine al buon funzionamento dell'apparecchio e ai controlli su di esso eseguiti. Tale più recente orientamento è basato, sotto il profilo processuale, sul principio di carattere generale secondo cui l'accusa deve provare i fatti costitutivi del fatto reato, mentre spetta all'imputato dimostrare quelli estintivi o modificativi di una determinata situazione, rilevanti per il diritto. La parte che allega un fatto (nella specie: superamento del tasso alcolemico), affermandolo come storicamente avvenuto, deve introdurre nel processo elementi di prova idonei a dimostrarne la veridicità. L'onere della prova dell'imputato di dimostrare il contrario può sorgere solo in conseguenza del reale ed effettivo accertamento da parte del pubblico ministero del regolare funzionamento e dell'espletamento delle dovute verifiche dell'etilometro. In conclusione, secondo quest'ultimo indirizzo, allorquando l'alcoltest risulti positivo, costituisce onere della pubblica accusa fornire la prova del regolare funzionamento dell'etilometro, della sua omologazione e della sua sottoposizione a revisione.

In un recente caso (Cass. pen., sez. IV, n. 3201/2019, Santini) si è tuttavia cercato di approfondire alcuni aspetti particolari.

Si è in primo luogo richiamata la pronunzia della Corte costituzionale (Corte cost., n. 113/2015) con cui è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 45, comma 6, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), «nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell'accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura».

Nella stessa pronunzia, che perviene alla cennata declaratoria di incostituzionalità dell'art. 45 comma 6 del Codice della Strada per lesione del principio di ragionevolezza, si afferma fra l'altro (§ 6.2.): «É vero infatti che la tutela di questi ultimi viene in qualche modo compressa per effetto della parziale inversione dell'onere della prova, dal momento che é il ricorrente contro l'applicazione della sanzione a dover eventualmente dimostrare – onere di difficile assolvimento a causa della irripetibilità dell'accertamento – il cattivo funzionamento dell'apparecchiatura. Tuttavia, detta limitazione trova una ragionevole spiegazione nel carattere di affidabilità che l'omologazione e la taratura dell'autovelox conferiscono alle prestazioni di quest'ultimo».

Nel prosieguo, la sentenza della Consulta precisa che «il bilanciamento realizzato dall'art. 142 C.d.S. ha per oggetto, da un lato, interessi pubblici e privati estremamente rilevanti quali la sicurezza della circolazione, la garanzia dell'ordine pubblico, la preservazione dell'integrità fisica degli individui, la conservazione dei beni e, dall'altro, valori altrettanto importanti quali la certezza dei rapporti giuridici ed il diritto di difesa del sanzionato. Detto bilanciamento si concreta attraverso una sorta di presunzione, fondata sull'affidabilità dell'omologazione e della taratura dell'autovelox, che consente di non ritenere pregiudicata oltre un limite ragionevole la certezza della rilevazione e dei sottesi rapporti giuridici. Proprio la custodia e la conservazione di tale affidabilità costituisce il punto di estrema tensione entro il quale la certezza dei rapporti giuridici e il diritto di difesa del sanzionato non perdono la loro ineliminabile ragion d'essere».

«Il ragionevole affidamento che deriva dalla custodia e dalla permanenza della funzionalità delle apparecchiature, garantita quest'ultima da verifiche periodiche conformi alle relative specifiche tecniche, degrada tuttavia in assoluta incertezza quando queste ultime non vengono effettuate».

A ben vedere, dunque, ad essere considerato distonico rispetto al principio di ragionevolezza non era il criterio dell'inversione dell'onus probandi, ma il principio dell'affidamento del cittadino nel regolare funzionamento degli strumenti di controllo e nelle operazioni di manutenzione che ne assicurano il funzionamento: ciò che giustificava, secondo il Giudice delle leggi, la ridetta inversione dell'onere della prova.

Quanto invece all'ordinanza della Cassazione civile (Cass. civ., sez. IV, n. 1921/2019), essa ha invero affermato il principio in base al quale il verbale dell'accertamento effettuato mediante etilometro deve contenere, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata, l'attestazione della verifica che l'apparecchio da adoperare per l'esecuzione del cd. "alcooltest" é stato preventivamente sottoposto alla prescritta ed aggiornata omologazione ed alla indispensabile corretta calibratura; l'onere della prova del completo espletamento di tali attività strumentali grava, nel giudizio di opposizione, sulla p.a. poiché concerne il fatto costitutivo della pretesa sanzionatoria (Rv. 652384).

Nondimeno, l'affermazione di tale principio va, da un lato, calata nella specificità del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa; e, dall'altro, verificata alla stregua dei relativi corollari.

Ed invero, il richiamato provvedimento afferma nella parte motiva che «il giudizio di opposizione a sanzione amministrativa si configura come un giudizio rivolto all'accertamento del fondamento della pretesa sanzionatoria ed il suo oggetto é delimitato, quanto alla posizione dell'opponente, dalla causa petendi fatta valere con l'opposizione e, quanto alla posizione della p.a., dal divieto di dedurre, a sostegno della propria pretesa, motivi diversi da quelli enunciati nell'ordinanza-ingiunzione»; di tal che, sulla scorta di questa impostazione, «si rileva che all'Amministrazione, che viene a rivestire - dal punto di vista sostanziale - la posizione di attrice (ricoprendo, invece, sotto quello formale, il ruolo di convenuta-opposta), incombe l'obbligo di fornire la prova adeguata della fondatezza della sua pretesa. All'opponente, al contrario, qualora abbia dedotto fatti specifici incidenti o sulla legittimità formale del procedimento amministrativo sanzionatorio espletato o sull'esclusione della sua responsabilità relativamente alla commissione dell'illecito, spetta provare le circostanze negative contrapposte a quelle allegate dall'Amministrazione (v., ad es., Cass. pen., n. 3837/2001; Cass. pen., n. 2363/2005; Cass. pen., n. 5277/2007; Cass. pen., n. 12231/2007; Cass. pen., n. 27596/3008; Cass. pen., sez. un., n. 20930/2009; Cass. pen., n. 5122/2011 e, da ultimo, Cass. pen., n. 4898/2015)».

Se ne ricava che, «mentre l'onere dell'allegazione é a carico dell'opponente (il quale deve indicare quali sono gli elementi della fattispecie carenti in fatto e/o in diritto), per quanto concerne l'onere della prova si applica la regola ordinaria sancita dall'art. 2697 c.c. Tuttavia, a questo riguardo, assume rilevanza la riferita precisazione in base alla quale di fronte al giudice, una volta formulata l'opposizione, non si discute propriamente dell'atto ma della fattispecie produttiva dell'effetto, perché - nei limiti in cui la parte opponente abbia sollevato le relative contestazioni - spetta alla p.a. dimostrare i fatti costitutivi ed all'opponente comprovare i fatti impeditivi, modificativi e/o estintivi dell'effetto giuridico del provvedimento sanzionatorio oggetto del giudizio. Perciò alla modificazione delle regole normali dell'allegazione non corrisponde una modificazione delle regole ordinarie in tema di onere probatorio: se l'opponente ha sollevato contestazioni sull'esistenza dei fatti costitutivi del suo obbligo, tali contestazioni non onerano l'opponente anche alla prova dell'inesistenza dei fatti costitutivi del suo obbligo; al contrario, la prova dell'esistenza dei fatti costitutivi dell'obbligo si pone a carico della p.a.».

Ora, pur nella specificità del rito, é evidente che secondo l'ordinanza richiamata, sebbene sia posto a carico dell'amministrazione l'onere di provare i fatti costitutivi dell'effetto giuridico del provvedimento sanzionatorio, nondimeno sull'opponente grava necessariamente un (prioritario) onere di allegazione volto a contestare la sussistenza di tali fatti costitutivi.

Sulla scorta delle precisazioni che precedono, si è chiarito che, per quanto riguarda l'etilometro, l'omologazione e le verifiche periodiche dello stesso sono espressamente previste dall'art. 379, commi 6, 7 e 8 del Regolamento esecutivo al Codice della Strada, approvato con d.P.R. 16 novembre 1992, n. 495: ciò che differenzia in partenza la disciplina in tema di etilometro rispetto a quella avente ad oggetto l'autovelox colpita dalla declaratoria di incostituzionalità.

Tanto precisato, si è ritenuto che, anche nel caso del giudizio penale per guida in stato d'ebbrezza ex art. 186, comma 2, Cod. Strada nell'ambito del quale assuma rilievo la misurazione del livello di alcool nel sangue mediante etilometro, all'attribuzione dell'onere della prova in capo all'accusa circa l'omologazione e l'esecuzione delle verifiche periodiche sull'apparecchio utilizzato per l'alcoltest, debbafare riscontro un onere di allegazione da parte del soggetto accusato, avente ad oggetto la contestazione del buon funzionamento dell'apparecchio. Il fatto che siano prescritte, dall'art. 379 del Regolamento di esecuzione del Codice della Strada, l'omologazione e la periodica verifica dell'etilometro non significa che, a sostegno dell'imputazione, l'accusa debba immediatamente corredare i risultati della rilevazione etilometrica con i dati relativi all'esecuzione di tali operazioni: tali dati (in quanto riferiti ad attività necessariamente prodromiche al momento della misurazione del tasso alcolemico sull'imputato) non hanno di per sé rilievo probatorio ai fini dell'accertamento dello stato di ebbrezza dell'imputato.

Perciò - ha concluso la Corte regolatrice - è del tutto fisiologico che la verifica processuale del rispetto delle prescrizioni dell'art. 379 Reg. Esec. Cod. Strada sia sollecitata dall'imputato, che ha all'uopo un onere di allegazione volto a contestare la validità dell'accertamento eseguito nei suoi confronti.

In epoca ancor più recente tuttavia, mentre una parte della giurisprudenza ha aderito all'indirizzo della sentenza Santini da ultimo richiamato (in specie vds. Cass. pen., sez. IV, n. 33978/2021, Garbin, Rv. 281828), la maggior parte delle pronunzie si è invece nuovamente allineata all'orientamento più tradizionale, affermando che l'esito positivo dell'alcoltest costituisce prova dello stato di ebbrezza - stante l'affidabilità di tale strumento in ragione dei controlli periodici rivolti a verificarne il perdurante funzionamento successivamente all'omologazione e alla taratura - con la conseguenza che è onere della difesa dell'imputato fornire la prova contraria a detto accertamento, dimostrando l'assenza o l'inattualità dei prescritti controlli, tramite l'escussione del dirigente del reparto addetto ai controlli o la produzione di copia del libretto metrologico dell'etilometro (in questo senso, fra le altre, Cass. pen., sez. IV, n. 7285/2020, Demma, Rv. 280937; Cass. pen., sez. IV, n. 11679/2020, Ibnezzayer, Rv. 280958; Cass. pen., sez. IV, n. 46841/2021, Patruno, Rv. 282659).

L'attenuante di cui al settimo comma degli artt. 589-bis e 590-bis c.p.

La circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 589-bis c.p. fa riferimento all'ipotesi in cui l'evento non sia esclusiva conseguenza dell'azione o dell'omissione del colpevole.

Tale ipotesi ricorre, certamente (ma, si badi, non esclusivamente), nel caso in cui sia accertato il c.d. "concorso di colpa" fra il presunto responsabile e altro utente della strada, ad esempio - ma non necessariamente - la stessa vittima.

E' da notare che la norma non evoca alcuna percentuale di colpa né in capo al colpevole, né in capo ad altri, con la conseguenza che anche una minima percentuale di colpa altrui potrà valere a integrare la circostanza attenuante. Ma addirittura, sempre analizzando il contenuto della ridetta circostanza attenuante di cui all'art. 589-bis comma 7 c.p., anche il concorso di cause esterne alla condotta non costituite da altre condotte umane di terzi, o anche da elementi naturali, può integrare l'attenuante in questione, avuto riguardo all'ampiezza della previsione testuale (in dottrina si é fatto l'esempio di condizioni meteorologiche avverse che possano contribuire a cagionare l'evento, al di fuori delle ipotesi di caso fortuito o forza maggiore).

Pertanto può affermarsi che, in tema di omicidio stradale, la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 589-bis, comma 7, c.p., che fa riferimento all'ipotesi in cui l'evento non sia esclusiva conseguenza dell'azione od omissione del colpevole, ricorre nel caso in cui sia stato accertato un comportamento colposo, anche di minima rilevanza, della vittima o di terzi, o qualunque concorrente causa esterna, anche non costituita da condotta umana, al di fuori delle ipotesi di caso fortuito o forza maggiore (Cass. pen., sez. IV, n. 54576/2018, La Rana Jessica, Rv. 274504: fattispecie in cui la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza impugnata che non aveva riconosciuto l'attenuante in relazione ad un incidente stradale al quale aveva concorso anche l'attraversamento della carreggiata da parte di animali selvatici).

In termini sostanzialmente analoghi si è affermato che la circostanza de qua ricorre non solo nelle ipotesi costituite dal contributo concorrente fornito dalla vittima nella determinazione dell'evento, ma anche in ogni altra ipotesi che sia dipesa dalla condotta di altri conducenti e da altri fattori esterni da individuarsi di volta in volta (Cass. pen., sez. IV, n. 13103/2018, Stauber Vaclav, Rv. 276254); mentre ovviamente essa non ricorre nel caso in cui sia stato accertato un comportamento della vittima perfettamente lecito e completamente estraneo al decorso causale dell'evento colposo (qualora, beninteso, non intervengano altri fattori causali esterni al soggetto passivo del reato: in tal senso Cass. pen., sez. IV, n. 13587/2019, Mendoza Vivanco Babbio Alexander, Rv. 275873, ha confermato la sentenza che aveva escluso l'attenuante in relazione ad un tamponamento violento che aveva causato la morte di una persona che, munita di cintura di sicurezza, si trovava alla guida di un'autovettura ferma al semaforo rosso, escludendo che potesse considerarsi fattore concausale, cui rapportare la minore gravità della condotta, il tipo di autovettura della vittima – d'epoca e priva di "air bag", con telaio leggero e assetto estremamente basso – dotata, comunque, dei requisiti di sicurezza previsti dalla legge per circolare).

Pervero, anche in giurisprudenza si è affrontato il tema della riconducibilità dell'evento a conseguenze anche di natura atmosferica (come era stato ipotizzato da una parte della dottrina): si è ad esempio affermato che, in tema di omicidio stradale, la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 589-bis, comma 7, c.p., che fa riferimento all'ipotesi in cui l'evento non sia esclusiva conseguenza dell'azione od omissione del colpevole, ricorre nel caso in cui sia stata accertata qualunque concorrente causa esterna, anche non costituita da condotta umana, al di fuori delle ipotesi di caso fortuito o forza maggiore (Cass. pen., sez. IV, n. 24910/2021, Gottimer, Rv. 281559): nella fattispecie, relativa all'investimento di un pedone da parte del conducente di un'autovettura, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che non aveva riconosciuto l'attenuante omettendo di valutare l'incidenza, sulla visibilità dello stato dei luoghi, della forte precipitazione in corso al momento del fatto.

Qualche questione si può porre nel caso in cui, ad esempio, rimanga vittima dell'incidente il passeggero che viaggi senza cinture di sicurezza a bordo della vettura condotta dal responsabile: può parlarsi di corresponsabilità della persona offesa per il fatto di non indossare le cinture, o la responsabilità di tale violazione va attribuita in via esclusiva al conducente?

La giurisprudenza di legittimità afferma che il conducente di un veicolo è tenuto, in base alle regole della comune diligenza e prudenza, ad esigere che il passeggero indossi la cintura di sicurezza e, in caso di sua renitenza, anche a rifiutarne il trasporto o ad omettere l'intrapresa della marcia, a prescindere dall'obbligo e dalla sanzione a carico di chi deve fare uso della detta cintura; ove non vi provveda, e il mancato allaccio della cintura di sicurezza determini o contribuisca a cagionare la morte o le lesioni a carico del passeggero, il conducente non potrà invocare la colpa, eventualmente a titolo di concorso, della vittima negligente. Fra l'altro, si tende a valorizzare in tale casistica una sorta di posizione di garanzia del conducente, riferita al rispetto, che egli deve esigere, dell'obbligo di allacciare le cinture da parte dei passeggeri, con riguardo al quale egli avrebbe il dovere di attivarsi per pretendere il rispetto di tale regola cautelare, ai sensi dell'art. 172 C.d.S.: il che ha indotto la Cassazione (da ultimo in Cass. pen., sez. IV, n. 51151/2019, Maruntelu, non massimata) a configurare la condotta del conducente come omissiva, non avendo egli in un simile caso ottemperato all'obbligo di impedire l'evento impostogli dall'anzidetta norma del C.d.S.

In dottrina vi è chi ha criticato questa impostazione, escludendo che possa parlarsi nella normalità dei casi di un “rapporto contrattuale”, sia pure in via di mero fatto, tra conducente e trasportati; che possa attribuirsi al conducente una vera e propria posizione di garante; e che ci sia una vera e propria presa in carico, da parte di costui, del bene giuridico da proteggere; e concludendo che, più di obbligo di impedire l'evento ex art. 40 comma 2 c.p., si tratti nella specie di obbligo di attivarsi da parte del guidatore, con la conseguenza che la sua condotta dovrebbe qualificarsi attiva (nel senso di aver cagionato, con la condotta imprudente alla guida, l'evento in danno del passeggero) piuttosto che omissiva . Ciò non ha interferenze, però, né sulla qualificabilità come colposa e penalmente rilevante della condotta del conducente (all'interno della quale si inserirà comunque, quale segmento della serie causale, la prevedibilità o addirittura la consapevolezza del fatto che il passeggero non aveva indossato la cintura), stante la clausola di equivalenza della condotta attiva e di quella omissiva; né tanto meno sulla rilevanza negativa del principio di affidamento, essendo evidentemente prevedibile, e anzi certamente noto al conducente, che il passeggero non aveva allacciato la cintura.

Omicidio o lesioni stradali e guida in stato d'alterazione: concorso di reati o concorso apparente di norme?

Un tema interessante e assai complesso, anche se non nuovo, è costituito dai rapporti esistenti fra l'omicidio colposo (o le lesioni colpose) da parte del conducente di veicolo a motore che guida in stato d'ebbrezza o di alterazione da consumo di stupefacenti, e le ipotesi di reato di guida in stato d'ebbrezza (art. 186 comma 2 C.d.S.) o di alterazione da assunzione di stupefacenti (art. 187 comma 1 C.d.S.).

Si pone, infatti, un problema riferito alla contemporanea violazione di più norme incriminatrici: da un lato, infatti, il guidare un veicolo in condizioni di alterazione integra le fattispecie contravvenzionali del Codice della Strada appena citate; dall'altro, il cagionare in tali condizioni, violando le norme sulla circolazione stradale, la morte o le lesioni di una persona integra la fattispecie di omicidio colposo stradale o quella di lesioni colpose stradali.

Perciò ci si deve chiedere se, tra le suddette norme incriminatrici, vi sia un concorso di reati, con conseguente applicazione di ambedue; o se vi sia concorso apparente di norme, con conseguente assorbimento di una di esse nell'altra, che risulterebbe l'unica applicabile.

Al quesito - che si è posto già nel precedente quadro normativo - non è stata data una risposta univoca dalla dottrina: infatti, vi è un orientamento minoritario che sembra propendere (sia pure problematicamente) per la prima ipotesi, avuto riguardo non tanto alla (almeno parziale) diversità di beni giuridici presidiati dalle diverse norme penali applicabili, quanto e soprattutto alla sorte che in tal caso subirebbero le sanzioni amministrative accessorie previste per i reati p. e p. dagli artt. 186 e 187 C.d.S.; e vi è, di contro, un orientamento prevalente che propende per la seconda soluzione, sulla base di quanto stabilito dall'art. 15 e/o dall'art. 84 c.p. (ossia dalle regole dettate a proposito del principio di specialità e del c.d. reato complesso).

La giurisprudenza di legittimità, in precedenza orientata per il concorso di reati, è venuta progressivamente modificando il proprio orientamento ed oggi ha accolto la teoria del concorso apparente di norme e dell'applicazione dell'art. 84 c.p.

Il problema si è posto, in giurisprudenza, sia nel caso di concorso fra il reato di omicidio colposo stradale, o di lesioni colpose stradali, aggravate dall'aver guidato in stato di alterazione, e il reato contravvenzionale di cui all'art. 186 comma 2 C.d.S. o all'art. 187 comma 1 C.d.S.; sia nel caso di concorso tra omicidio colposo stradale e reato di gara in velocità non autorizzata cui sia conseguita la morte di una o più persone (art. 9-ter, comma 2, C.d.S.). A tale ultimo riguardo, la S.C. ha avuto occasione di puntualizzare alcuni aspetti che appare opportuno richiamare circa la portata del divieto del bis in idem, che preclude di addebitare all'imputato lo stesso fatto storico più volte, dal punto di vista sia sostanziale che processuale: infatti, «[...] la portata del principio compendiato nel noto brocardo del divieto del bis in idem è espressione di un cardine generale di civiltà dell'ordinamento processuale penale che trova espressione positiva non soltanto nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 c.p.p.) ma anche nelle norme poste per disciplinare i conflitti positivi di competenza (art. 28 e ss. c.p.p.) e l'ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 c.p.p.) (in tale senso, Cass. pen., sez. I, n. 27834/2013, Carvelli, Rv. 255701; Cass. pen., sez. VI, n. 1892/2014, Fontana, Rv. 230760); va precisato che a livello di diritto penale sostanziale analoga esigenza di garanzia è espressa dalle norme variamente invocate dai ricorrenti (artt. 84 e 15 c.p.), che definiscono il reato complesso e che consacrano i tradizionali principi di specialità e di assorbimento (o di consunzione), esplicativi della necessità, avvertita da un moderno ordinamento democratico, di non addebitare all'imputato più volte lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di una unica contrapposizione cosciente e consapevole (ergo: colpevole) dell'individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati: si tratta del c.d. "ne bis in idem sostanziale", che però, come noto (cfr. sul punto la parte motiva di Cass. pen., sez. IV, n. 46441/2012, Cioni, Rv. 253839), ha una portata meno forte di quello processuale, con esso esprimendosi solo una linea di tendenza dell'ordinamento. Il momento di sintesi, di cui è espressione l'art. 84 c.p., dell'esigenza di non addebitare, in buona sostanza, lo stesso fatto per due volte all'imputato non è disciplinato, però, da regole predeterminate, assolute ed astratte, ma dipende dal concreto atteggiarsi delle contestazioni elevate dal Pubblico Ministero, ben potendo accadere che una determinata "vicenda di vita" si atteggi nella modulazione delle accuse da parte del titolare dell'azione penale talora ad elemento costitutivo dell'illecito, talaltra a semplice circostanza aggravante» (così le considerazioni svolte al punto n. 2 del "considerato in diritto", di Cass. pen., sez. IV, n. 16610/2016, Raco e altro, non mass. sul punto).

Tanto premesso, la S.C., in effetti, ha già avuto modo di precisare quanto segue (in una vicenda in cui si contestava all'imputato sia il previgente omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale sia la guida in stato di ebbrezza alcoolica, fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 41/2016, sostenendosi da parte della difesa che la contravvenzione fosse assorbita nel delitto, lettura non condivisa però nell'occasione dalla S.C.): «[...] a seguito dell'entrata in vigore della l. 23 marzo 2016, n. 41, e quindi a decorrere dal 25 marzo 2016, è stato introdotto, tra gli altri, l'art. 589-bis c.p., in virtù del quale «Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all'assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli artt. 186, comma 2, lett. c), e 187 d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni» e, inoltre, «Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti, qualora il conducente cagioni la morte di più persone, ovvero la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni diciotto» [...]. Precedentemente, dall'entrata in vigore della l. 24 luglio 2008, n. 125, l'art. 589 c.p. disponeva, tra l'altro, che, in ipotesi di omicidio colposo, «Si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'art. 186, comma 2, lett. c), d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni» e che «Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni quindici» [...] La formulazione della novella del 2016 ha, evidentemente, ricondotto le ipotesi aggravate al momento della "guida", individuando esplicitamente, come agente, chiunque si ponga "alla guida di un veicolo a motore"; ciò, a differenza delle ipotesi-base (artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, c.p., per le quali destinatario del precetto è «chiunque cagioni per colpa [ ] con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale...)». In altri termini le nuove fattispecie aggravate sono applicabili solo al "conducente di un veicolo a motore" e non anche, per esempio, a chi cagioni la morte (o le lesioni) di un pedone guidando una bicicletta in stato di ebbrezza [...] In caso di applicazione della nuova legge citata, lo schema del reato complesso potrebbe, in vero, emergere dalla nuova formula normativa, tanto per l'esplicita qualificazione in termini di circostanze aggravanti dei commi dell'art. 589-bis c.p. successivi al primo quanto per la più evidente (anche se non perfetta) coincidenza tra le ipotesi in questione e quelle previste dal codice della strada»(così Cass. pen., sez. IV, n. 2403/2016, Minutillo, non mass., sub punti nn. 4 e 5 del "considerato in diritto").

La Cassazione, sulla scorta di tali principi, è venuta progressivamente affermando che, a seguito della introduzione, ex art. 1, commi 1 e 2, l. n. 41/2016, delle innovative fattispecie autonome dell'omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime (sulla natura di reati autonomi e non già di ipotesi aggravate, v. infatti la recentissima sentenza di Cass. pen., sez. IV, n. 29721/2017, Venni, Rv. 270918), non può più aderirsi alla interpretazione, sinora diffusa, secondo cui si ha concorso di reati, e non un reato complesso, in caso di omicidio colposo qualificato dalla circostanza aggravante della violazione di norme sulla circolazione stradale, quando detta violazione dia, di per sé, luogo ad un illecito contravvenzionale (cfr. Cass. pen., sez. IV, n. 1880/2015, P.G. in proc, Greco, Rv. 265430; Cass. pen., sez. IV, n. 46441/2012, Cioni, Rv. 253839; Cass. pen., sez. IV, n. 3559/2009, Corridori, Rv. 246300; Cass. pen., sez. V, n. 2608/1997, Schiavone, Rv. 141422).

Tale percorso giurisprudenziale ha pertanto aperto la strada all'enunciazione del seguente principio di diritto: «Nel caso in cui si contesti all'imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della legge n. 41 del 2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone - ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse - dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, c.p., con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell'art. 84, comma 1, c.p., ed esclusione invece dell'applicabilità di quella generale sul concorso di reati».

La stessa soluzione dovrà, naturalmente, valere nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all'assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope (artt. 589-bis, comma 2, e 590-bis, comma 2, c.p.) (così Cass. pen., sez. IV, n. 26857/2018, Vercesi).

Analogamente, ed anzi da più tempo e con maggiore convinzione, la Corte regolatrice si è espressa a proposito di concorso tra omicidio stradale e violazione del divieto di gareggiare in velocità cui consegua la morte di una o più persone. L'indirizzo prevalente (e condivisibile) della Cassazione è nel senso che il delitto di cui all'art. 9-ter, comma 2, C.d.S., che punisce la violazione del divieto di gareggiare in velocità cui consegua la morte di una o più persone, costituisce un reato autonomo e non una circostanza aggravante della fattispecie prevista dal comma primo del citato art. 9-ter, nel quale, fungendo l'evento morte da elemento costitutivo dell'illecito penale, resta assorbito ex art. 84 c.p. il reato di omicidio colposo (Cass. pen., sez. IV, n. 43832/2014, Spiga, Rv. 260600; Cass. pen., sez. IV, n. 52876/2016, Gugliandolo, non massimata; in senso parzialmente difforme Cass. pen., sez. IV, n. 16610/2016, Raco, Rv. 266961).

Il punto sul principio di affidamento (e relativi limiti) nei reati stradali

Nell'ambito della circolazione stradale, sono molteplici i casi in cui si pone il problema del principio di affidamento.

A tale problema la giurisprudenza ha dato risposte fra loro contrastanti: le difficoltà sono, nell'essenziale, riferite al fatto che, secondo un indirizzo alquanto diffuso, nell'ambito della circolazione stradale le condotte imprudenti sono talmente diffuse da costituire un rischio tipico, come tale generalmente prevedibile e governabile. È, dunque, sul concetto di prevedibilità che si gioca, per buona parte, il destino del principio in esame.

Un orientamento restrittivo, in tal senso riferibile al cennato indirizzo, esclude l'invocabilità del principio di affidamento a meno che la condotta negligente della persona offesa sia idonea a interrompere il nesso di causalità, quale causa da sola sufficiente a provocare l'evento, nonché atipica, imprevedibile ed eccezionale: un caso tipico in cui è stata affermata tale posizione improntata a rigore è costituito dall'automobilista il quale per la violazione di regole di prudenza e delle norme sulla circolazione, sbandi ripetutamente e si arresti, alla fine, ponendosi di traverso sulla carreggiata di una strada (tanto più se a rapido scorrimento) pone in essere, con la sua condotta, una condizione necessaria dell'arresto del traffico e delle successive eventuali collisioni, «quando non sia ravvisabile l'intervento di fattori anomali, eccezionali ed atipici che interrompano il legame di imputazione del fatto alla sua condotta colposa sì da relegarlo a mera occasione»: in tal caso, ha affermato la Suprema Corte, il conducente pone in essere un fattore causale originario di rischio (ostruzione della carreggiata) dei successivi eventi collisivi, e l'eventuale condotta colposa (eccessiva velocità o mancato rispetto della distanza di sicurezza) dei guidatori dei veicoli sopraggiunti, seppure sinergica, non può ritenersi da sola sufficiente a determinare l'evento non essendo qualificabile come atipica ed eccezionale ma potendo, bensì, collocarsi nell'ambito della prevedibilità (Cass. pen., sez. IV, n. 12224/2006, Cordella, Rv. 236185; in senso analogo, Cass. pen., sez. IV, n. 578/1996).

Sulla stessa linea si colloca altra sentenza, in cui il principio di affidamento fu bensì riconosciuto, ma sempre nell'assunto che deve intendersi esclusa la responsabilità del conducente solo allorquando il fatto illecito altrui, ed in particolare della vittima, configuri per le sue caratteristiche una vera causa eccezionale, atipica e non prevedibile che sia stata da sola sufficiente a provocare l'evento: in tal senso venne esclusa la responsabilità del guidatore in riferimento al fatto che la vittima aveva attraversato un incrocio a piedi all'improvviso, con il semaforo rosso e correndo diagonalmente lontano dalle strisce, mentre la velocità dell'investitore era molto moderata (Cass. pen., sez. IV, n. 28615/2005, P.C. in proc. Pravettoni, Rv. 232445) .

Progressivamente, in altre pronunzie, è venuto consolidandosi un diverso orientamento, che tende a dare risposta negativa allorquando il comportamento negligente o imprudente o inesperto altrui sia ordinariamente prevedibile: in base a tale indirizzo, che si discosta dall'orientamento più restrittivo in precedenza riassunto, il principio dell'affidamento viene riconosciuto nel limite della imprevedibilità in concreto del comportamento negligente altrui: è, questo, un orientamento che segna una qualche apertura al principio in esame.

A tale criterio si ispira, ad esempio, Cass. pen., sez. IV, n. 12361/2008, affermando che il conducente di un veicolo, nell'impegnare un crocevia, deve prefigurarsi anche l'eccessiva velocità da parte degli altri veicoli che possono sopraggiungere, onde porsi nelle condizioni di porvi rimedio, atteso che tale accadimento rientra nella normale prevedibilità: nella fattispecie, la sentenza d'appello, sia pure riconoscendo la violazione da parte del conducente di un ciclomotore dell'obbligo di dare la precedenza ad un incrocio, aveva ritenuto imprevedibile l'eccessiva velocità con cui era sopraggiunto un altro veicolo con il quale aveva colliso. La Corte, pur ravvisando l'esigenza di pervenire ad un rimprovero colposo personalizzato, che impedisce di ritenere costituita la colpa sulla base della mera violazione della norma cautelare specifica, ha annullato la sentenza affermando il principio sopra descritto.

Ma è con la sentenza Minunno (Cass. pen., sez. IV, n. 46741/2009) che, in modo più chiaro ed organico, si è dato un parziale segno di discontinuità rispetto al precedente, rigorosissimo orientamento, in base al quale le condotte imprudenti dei diversi utenti della strada determinavano esse stesse un rischio tipico prevedibile e da governare per quanto possibile; la sentenza in esame ha per oggetto un caso in cui é stata ritenuta in concreto imprevedibile per l'imputato - che, a bordo di una autovettura, percorreva una strada statale, e stava avviando manovra di svolta a sinistra per accedere ad un'area di servizio che si trovava sul lato opposto della carreggiata, profittando del fatto che alcuni veicoli, tra cui in particolare un autoarticolato, che procedevano nell'opposto senso di marcia, si erano fermati per favorire la manovra - la condotta della parte lesa, una ciclomotorista che aveva sorpassato scorrettamente sulla destra la colonna ferma di autoveicoli, omettendo inoltre di fermarsi o rallentare in prossimità dell'ingresso all'impianto di distribuzione di carburanti.

L'indirizzo affermato nella sentenza in esame richiama alla necessità che il comportamento imprudente altrui debba essere valutato nella sua “ragionevole” prevedibilità in base alle circostanze del caso concreto; con la conseguenza che la condotta posta in essere senza che fosse ragionevolmente prevedibile il comportamento imprudente altrui non dovrebbe determinare responsabilità colposa ; la tipologia di situazioni in cui la “ragionevole prevedibilità” viene meno può essere la più varia, ma in particolare il problema della condotta colposa imprevedibile altrui si profila in quelle situazioni nelle quali l'evento è frutto di una condotta alla guida repentina e spesso necessitata, in cui il guidatore è costretto a eseguire la manovra –ad esempio la manovra d'emergenza- senza avere la possibilità e il tempo di avvedersi dell'imprudenza altrui

Può altresì citarsi, in termini affini, il caso del conducente avente diritto di precedenza, il quale, nonostante ciò, conserva, nell'approssimarsi ad intersezioni ove possano sopraggiungere altri veicoli, l'obbligo di tenere una condotta adeguatamente prudente, e non può, pertanto, limitarsi ad invocare il comportamento imprudente del conducente sfavorito dal diritto di precedenza, se ordinariamente prevedibile (Cass. pen., sez. IV, n. 32202/2010, Filippi, Rv. 248354).

I principi sopra enucleati sono richiamati anche nella giurisprudenza di legittimità più recente.

Ad esempio, la sentenza Tettamanti, nel ribadire che il principio dell'affidamento, nello specifico campo della circolazione stradale, trova opportuno temperamento nell'opposto principio secondo il quale l'utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché rientri nel limite della prevedibilità, ha escluso che potesse configurarsi un affidamento scriminante nell'altrui condotta imprudente con riguardo alla condotta dell'imputato che, alla guida della propria vettura, aveva effettuato un repentino cambio dalla corsia di sorpasso a quella di destra senza segnalare per tempo la sua intenzione, andando così a collidere con un motociclo che sopraggiungendo dietro di lui aveva tentato, imprudentemente, di sorpassarlo a destra.

Il principio di affidamento ha invece trovato applicazione in un caso nel quale, per converso, è stata annullata dalla Suprema Corte la sentenza di condanna di un'automobilista, la quale, dopo avere effettuato una manovra di svolta a sinistra in corrispondenza di un incrocio, superava lo stop e si immetteva su un'arteria dalla quale proveniva un motociclo che aveva la precedenza; l'imputata, non accortasi del motociclista - per l'orario notturno, la scarsa illuminazione e l'elevatissima velocità del motociclo (oltre 100 kmh in centro abitato) che procedeva oltretutto a fari spenti -, proseguiva nella manovra di svolta a sinistra, seguendo però una traiettoria con la quale impegnava la corsia di marcia del motociclista, che nell'impatto fra i due veicoli decedeva . Nella pronunzia (Cass. pen., sez. IV, n. 940/2016, Pino, n.m.) si è fra l'altro richiamato il principio in base al quale, qualora le regole di cautela che si assumono violate si presentino come regole "elastiche", che indicano, cioé, un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, é comunque necessario che l'imputazione soggettiva dell'evento avvenga attraverso un apprezzamento della concreta prevedibilità ed evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dall'agente modello.

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