“Tachipirina e vigile attesa”: cure domiciliari dei pazienti Covid alla luce della sentenza del Consiglio di Stato

Alessandro Benni de Sena
09 Giugno 2022

La sentenza n. 946 che il Consiglio di Stato ha pronunciato il 9 febbraio 2022 sulle linee guida del Ministero della Salute c.d. «tachipirina e vigile attesa» è stata intesa da alcuni come una limitazione dell'autonomia del medico, da altri come affermazione della medicina basata sull'evidenza scientifica.
Introduzione

La decisione del Consiglio di Stato, 9 febbraio 2022, n. 946 sulle linee guida del Ministero della Salute c.d. «tachipirina e vigile attesa» ha suscitato un certo clamore, venendo intesa ora come limitazione dell'autonomia del medico, ora come affermazione della medicina basata sull'evidenza scientifica.

Il Consiglio di Stato, invero, esprime principi generali sulla responsabilità ed autonomia del medico, come tali condivisi e condivisibili, e al contempo fa riemergere la ben conosciuta discussione circa i limiti e i pericoli delle linee guida.

All'esito della disamina, infatti, si dovranno considerare le reali e concrete implicazioni della decisione sul rischio di un contenzioso diffuso.

Inquadramento e profili generali della l. n. 24/2017 c.d. legge Gelli

Come noto, a pochi anni dall'entrata in vigore della discussa l. n. 189 del 2012 (c.d. legge Balduzzi) il legislatore è intervenuto di nuovo con la l. 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. legge Gelli), ridisegnando e ridefinendo il sistema della responsabilità medica.

La delicatezza della materia emerge dalla stessa intitolazione della l. (sicurezza delle cure e della persona assistita) e risulta conforme all'idea costituzionale della salute come un bene del singolo, ma anche generale (art. 32 Cost.).

La necessità dell'intervento normativo, tuttavia, sorge da esigenze (dichiarate) di bilanciamento di contrapposte esigenze. Il crescente contenzioso venutosi a creare negli anni ha portato il medico ad agire con molta prudenza. Si parla di medicina difensiva o preventiva, consistente o nella prescrizione di farmaci e/o trattamenti non necessari oppure nell'esclusione dei pazienti a rischio da alcuni trattamenti al di là delle normali regole di prudenza, oppure nell'evitare procedure diagnostiche o terapeutiche rischiose. Il risultato comune a queste strategie è l'aumento dei costi diretti per il Servizio Sanitario Nazionale (farmaci o trattamenti non necessari) ovvero nell'aumento del contenzioso (e dei relativi risarcimenti).

Da qui, l'esigenza di individuare un equilibrio tra la tutela del paziente e, più prosaicamente, “ragioni di cassa” ovvero di ricomporre il contrasto venutosi a creare tra interesse privato e interesse pubblico.

Tra le novità normative, quella che interessa in questa sede è l'affermazione della centralità delle raccomandazioni, delle buone pratiche e delle linee guida (art. 5).

Raccomandazioni delle linee guida e buone pratiche (art. 5)

L'art. 5 della l. Gelli è centrale nel sistema normativo e stabilisce che «gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute (…) e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali».

Se, da un lato, la valorizzazione delle linee guida (già presenti del decreto Balduzzi) evoca il concreto rischio della spersonalizzazione e della burocratizzazione dell'attività professionale medica e di ricerca, occorre evidenziare che tali indicazioni sono costantemente pubblicate e aggiornate.

Il rischio, poi, di una medicina semplificata, meccanica e stereotipata deve confrontarsi con la consapevolezza giurisprudenziale che le linee guida possono rappresentare uno strumento utile di accertamento, ma non costituiscono regole cautelari assolute, sia perché prive della prescrittività, sia perché troppo variabili, non affidabili e non escludenti il dovere del medico di perseguire la migliore soluzione per il paziente (Cass. civ., sez. III, 30 novembre 2018, n. 30998; Cass. civ., sez. III, 9 maggio 2017, n. 11208; Cass. pen., sez. un., 21 dicembre 2017, n. 8770; Cass. pen., sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187; Id., 18 giugno 2013, n. 39165; Id., 11 luglio 2012, n. 35922).

L'idea che il riferimento alle linee guida non costituisca un vulnus alla tutela della salute del paziente trova conferma proprio nell'inciso normativo “salve le specificità del caso concreto”, che non esonerano il medico dalle opportune valutazioni, per cui il formale rispetto delle raccomandazioni potrebbe non portare all'automatica esclusione di responsabilità.

Sul piano tecnico-guridico, è stato evidenziato che le buone pratiche e le raccomandazioni delle linee guide fanno parte delle regole dell'arte e, in via approssimativa, hanno valenza sotto il profilo della perizia tecnica. Esse, tuttavia, non hanno la stessa efficacia della legge, vuoi imperativa, vuoi dispositiva. Opinare diversamente, porterebbe davvero alla burocratizzazione della medicina.

Altro è il loro significato: il medico deve dimostrare di conoscerle, di averle esaminate criticamente all'atto della scelta diagnostica o terapeutica, sia quando si sia ad esse uniformato, sia quando se ne sia discostato (FRANZONI M., Colpa e linee guida nella nuova legge, in Danno e resp., 2017, 271 ss., secondo cui “la vera funzione delle linee guida è quella di garantire la trasparenza nelle decisioni prese in sede di esecuzione della prestazione professionale, così da assicurare il grado il perizia richiesto e la diligenza da “valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata (art. 1176, comma 2, c.c.)”.

Le linee guida si sostanziano in raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico terapeutico più appropriato in specifiche circostanze cliniche. Consistono, quindi, nell'indicazione di standards diagnostico-terapeutici conformi alle regole dettate dalla migliore scienza medica, a garanzia della salute del paziente e costituiscono il condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, e, dunque, si sostanziano in qualcosa di molto diverso da una semplice buona pratica clinico-assistenziale, come chiarito dalla Suprema Corte (Cass. pen., sez. IV, 22 giugno 2018, n. 47748).

La disposizione limitativa della responsabilità è applicabile esclusivamente nei casi in cui si discuta della perizia del sanitario, non estendendosi alle condotte professionali negligenti ed imprudenti, anche perché concettualmente è da escludere che le linee guida possano in qualche modo prendere in considerazione comportamenti connotati da tali profili di colpa.

Come detto, le linee guida presentano uno svantaggio: possono fungere da scudo di medicina difensiva, nel senso che, cullando l'idea dell'impunità, il medico potrebbe essere indotto ad attenervisi sempre e comunque, anche quando il caso concreto è peculiare e impone un diverso trattamento terapeutico rispetto a quello in esse previsto. Ma proprio per evitare tale inconveniente, opportunamente l'art. 5, comma 1, della legge in esame fa salva “la specificità del caso concreto”, nel senso della possibilità o necessità di allontanamento dalle linee guida, qualora il particolare quadro clinico lo imponga.

D'altra parte, le linee guida hanno fondamento statistico, hanno il carattere della generalità e sono quindi smentibili dal quadro clinico concreto.

L'osservanza della regola cautelare non è, infatti, fine a sé stessa, ma è strumentale alla tutela di un bene: se in un certo caso l'osservanza sacrifica quel bene (salute individuale o pubblica), ben venga l'inosservanza, che risulta invece funzionale alla tutela del bene salute.

In definitiva, le linee guida non possono porsi come esclusiva alternativa all'autonomia del medico nelle scelte terapeutiche sulla persona assistita, in quanto permangono sempre le variabili individuali dei pazienti e tenuto conto del principio di libertà terapeutica espresso nella Costituzione:

  • art. 9, comma 1°: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica;
  • art. 32 (ben noto);
  • art. 33, comma 1°: L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.

In definitiva il giudice, nel giudizio sulla colpa del medico, resta, quindi, libero di apprezzare se l'osservanza o il discostamento dalle linee guida avrebbero evitato il fatto che si imputa al medico e cioè se le circostanze del caso concreto imponessero o meno l'adeguamento alle linee guida oppure una condotta diversa da quella descritta nel sapere burocratizzato.

La colpa

Un necessario accenno merita il profilo della colpa in relazione all'osservanza delle linee guida.

Il fine ultimo dell'attività medica, espresso anche normativamente (artt. 1 e 5 Legge Gelli), rispecchia gli obiettivi del processo di guarigione dalla malattia.

La responsabilità medica si riferisce alle prestazioni mediche di ogni tipo ed in ogni fase (diagnostiche, preventive, ospedaliere, terapeutiche, chirurgiche, estetiche, assistenziali, etc.): così l'art. 5 della l. Gelli parla di esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale.

La casistica è ampia e può riguardare ogni metodica volta a prevenire l'insorgenza di possibili patologie con la direzione e la diffusione di pratiche di natura sanitaria dimostratesi efficaci nell'esperienza e nell'osservazione quotidiana.

Quando dalla propria condotta colposa deriva una lesione personale o la morte della persona assistita il medico (o il sanitario in genere) è chiamato a rispondere del suo comportamento professionale ex art. 2043 c.c.

Il concetto di colpa in senso stretto si ricava dall'art. 43 c.p. secondo cui deve ritenersi colposo (o contro l'intenzione) un evento che, anche se previsto, non è voluto dall'agente ma che si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia oppure per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

Come accennato, l'errore del medico può essere compiuto in tutte le fasi del processo di guarigione della malattia: nella fase diagnostica, in quella prognostica e nella fase terapeutica.

L'errore diagnostico si realizza nel non corretto inquadramento diagnostico della patologia, a cominciare ad esempio dalla imprecisa raccolta dei dati anamnestici. Altro errore diagnostico può realizzarsi nella sottostima o addirittura nel mancato rilievo di una allarmante sintomatologia. Un aspetto decisamente affine e non meno grave è quello del ritardo diagnostico che procrastina a danno del paziente l'esecuzione di necessarie e indispensabili terapie.

L'errore prognostico deriva invece da un giudizio di previsione sul decorso e soprattutto sull'esito di un determinato quadro clinico che però si rivela sbagliato magari perché correlato ad errore diagnostico, mentre l'errore in fase terapeutica attiene al momento della scelta del trattamento sanitario o a quello della sua esecuzione.

Come detto, le raccomandazioni e le buone pratiche assurgono a criterî di verifica della sussistenza o meno della responsabilità civile dell'esercente la professione sanitaria. L'elemento soggettivo della colpa nell'illecito aquiliano tende ad oggettivizzarsi in base a standards di diligenza professionale esigibili ed applicabile nel settore.

Si conferma, quindi, che il medico dovrà provare la conoscenza delle linee guida, di averle esaminate criticamente all'atto della scelta diagnostica o terapeutica, sia quando si sia ad esse uniformato, sia quando se ne sia discostato.

Sentenza n. 946 del Consiglio di Stato e valore delle linee guida

La sentenza del Cons. Stato, sez. II, 9 febbraio 2022, n. 946 verte sulla Circolare del Ministero della Salute del 26 aprile 2021 intitolata “Gestione domiciliare dei pazienti con infezione da Sars-Cov-2”. Con essa il Ministero aveva aggiornato la circolare del 30 novembre 2020.

A più riprese il Consiglio di Stato afferma principi generali sopra ricordati e che: La circolare ministeriale del 26 aprile 2021 si limita a raccogliere le indicazioni degli organismi internazionali, i pronunciamenti delle autorità regolatorie e gli orientamenti di buona pratica clinica asseverati dagli studi nazionali ed internazionali, al fine di fornire a tutti gli operatori interessati un quadro sinottico, aggiornato ed autorevole, di riferimento. (…).

Come rileva il Ministero appellante, che si tratti di mere indicazioni/raccomandazioni è reso evidente, prima di tutto, dal tenore testuale della circolare, posto che non vi si istituiscono divieti e precetti e si fa riferimento, piuttosto, a «indicazioni di gestione clinica», richiamando le linee di indirizzo dell'AIFA. (…).

Neppure impone divieti o limitazioni all'utilizzo di farmaci, ma si limita ad indicare, con raccomandazioni e linee di indirizzo basate sulle migliori evidenze di letteratura disponibili, i vari percorsi terapeutici, a seconda del ricorrere di specifiche condizioni. (…).

Il Consiglio di Stato, poi, evidenzia, sempre a più riprese, che le linee guida introducono elementi di monitoraggio attivo delle condizioni cliniche, con relativo approccio terapeutico in considerazione dell'evoluzione eventuale del quadro clinico, in modo da cercare di prevenire la malattia in forma grave.

Tra le indicazioni si introduce la valutazione sui pazienti da indirizzare nelle strutture di riferimento per il trattamento con anticorpi monoclonali, vengono date indicazioni più accurate sull'utilizzo dei cortisonici, specificati gli usi inappropriati dell'eparina, indicati i farmaci che è raccomandato non utilizzare. (…).

Infine, nei soggetti a domicilio asintomatici o paucisintomatici, viene esplicitato il concetto di “vigile attesa”, intesa – lo si vedrà meglio anche in seguito – come sorveglianza clinica attiva, costante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente (ndr. in grassetto).

Detto questo, la sentenza insiste ancora sull'autonomia del medico. Le Linee guida contengano mere raccomandazioni e non prescrizioni cogenti e si collocano, sul piano giuridico, a livello di semplici indicazioni orientative, per i medici di medicina generale, in quanto parametri di riferimento circa le esperienze in atto nei metodi terapeutici a livello internazionale.

Sul piano sistematico, esse si inscrivono dunque a pieno titolo in quella più complessa fenomenologia, ben nota all'esperienza giuridica contemporanea in diversi settori dell'ordinamento, del c.d. soft law che, in ambito medico, assume una connotazione peculiare, per le specifiche ragioni che ora si diranno. (…).

Ben è libero il singolo medico, nell'esercizio della propria autonomia professionale, ma anche nella consapevolezza della propria responsabilità, di prescrivere i farmaci che ritenga più appropriati alla specificità del caso, in rapporto al singolo paziente, sulla base delle evidenze scientifiche acquisite. (…).

Centrale è, poi il consenso informato: la regola di fondo di uno Stato democratico, in questa materia, è costituita dall'autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso informato del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione, sicché «autonomia del medico nelle sue scelte professionali e obbligo di tener conto dello stato delle evidenze scientifiche e sperimentali, sotto la propria responsabilità, configurano dunque un altro punto di incontro dei principi in questa materia» (v., per tutte, Corte cost., 26 giugno 2002, n. 282, ma v. anche Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151 e, più di recente, Corte cost., 12 luglio 2017, n. 169).

Nella relazione di cura e fiducia che, ai sensi dell'art. 1, comma 2, della l. n. 219 del 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), si instaura tra il singolo medico e il singolo paziente, si badi, viene in rilievo ed è centrale un concetto, e un impiego, della cura intesa non come astratto e indifferenziato protocollo, applicabile comunque e a chiunque, ma come scelta terapeutica concreta, costruita sulla base del consenso informato e, dunque, di una scelta condivisa da parte del singolo paziente per il suo benessere psicofisico, secondo la visione che della propria dignità personale e conseguentemente secondo la percezione, unica ed esclusiva, che egli ha del proprio corpo, della propria salute e, per converso, della propria malattia.

La cura non è una entità astratta, metafisica, calata dall'alto e imposta al singolo paziente, anche a mezzo di raccomandazioni e Linee guida, dallo Stato o dalle istituzioni sanitarie, salvo il caso eccezionale – che qui non ricorre – delle prestazioni sanitarie obbligatorie di cui all'art. 32, comma 2, Cost., ma il frutto di una strategia concreta, individualizzata, che risponde non solo, e ovviamente, ad una precisa necessità terapeutica, una volta diagnosticata una certa malattia, ma anzitutto al concetto di dignità che di sé ha la singola persona, nell'incontro tra l'autonomia professionale del medico e il consenso informato del paziente (Cons. St., sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460, ma sul tema v., ancor più recente, in ordine alle decisioni di fine vita da parte del paziente la fondamentale pronuncia della Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242).

(…)

La codificazione del sapere scientifico in regole tecniche scritte che, come taluno ha detto, costituisce un punto di non ritorno, il processo di standardizzazione delle cure, l'impiego sempre più frequente di protocolli medici, le raccomandazioni contenute nelle Linee guida in ambito sanitario – si pensi, per tutti, all'art. 5 della l. n. 24 del 2017 – rispondono a livello internazionale e nazionale, come è ovvio, all'esigenza di individuare una strategia terapeutica comune e condivisa, che consenta al medico di fare proprie le acquisizioni scientifiche e le esperienze cliniche diffuse e condivise, che hanno dimostrato un profilo di efficacia e sicurezza largamente acclarato a livello scientifico nella cura di una patologia, e sono cresciuti di pari passo, come bene è stato osservato, con l'affermarsi della medicina basata sull'evidenza (c.d. evidence based medicine), ma non esimono il medico, anzitutto, dal dovere di costruire una terapia condivisa e ritagliata sulle esigenze del singolo paziente, anche adottando terapie non indicate nelle linee guida o nei protocolli, purché – lo si dirà tra breve – sicure ed efficaci.

Quest'ordine di idee viene anche espresso, sul piano tecnico, dal concetto di refutabilità delle linee guida in ambito medico, da intendersi nel senso di non necessaria applicabilità rispetto allo specifico caso clinico per le peculiarità di questo, ed è ovvio che questo concetto, che sul piano giuridico si traduce nella non vincolatività dei protocolli stessi, non può e non deve essere confuso con quello, di cui meglio si dirà, della confutabilità dei protocolli stessi.

È stato bene osservato che la disapplicazione – o, per meglio dire, non applicazione – delle Linee guida e delle buone pratiche – che costituiscono, in senso lato, la cristallizzazione delle migliori regole del sapere scientifico in un determinato momento storico – restituisce rilevanza al paziente come persona in quanto la singolarità, dal punto di vista clinico, non è l'eccezione, ma la norma, sicché, fermo il carattere orientativo “di base” delle linee guida, dei protocolli sanitari o delle buone pratiche clinico-assistenziali per tutti i medici, ad ogni malato deve essere assicurato, nella diagnosi della malattia e nella prescrizione della cura, il rispetto della propria – eventuale – “diseguaglianza clinica”.

In ciò si manifesta appunto la fondamentale differenza tra le regole deontiche, cogenti sul piano giuridico, e le regole tecniche (o anancastiche), come quelle in esame,dettate con carattere riepilogativo di una certa esperienza, nel passato, e orientativo di un certo comportamento, nel futuro, le quali ultime sono appunto refutabili o superabili dal medico, nel doveroso esercizio della propria autonomia professionale, perché si basano su ragioni determinabili e intersoggettivamente valide per essere costruite sull'esperienza più qualificata, che può essere superata, aggiornata e persino smentita dalle peculiarità del quadro clinico, essendo la giustificazione pratica su cui si fonda la regola pratica sottoponibile, come noto, a controllo empirico.

Sono queste, la irriducibile singolarità del paziente e l'irriducibile autonomia del medico nell'individuazione della cura in concreto nel senso sopra inteso, due aspetti, speculari e inscindibili, di uno stesso essenziale valore, quella relazione di cura e fiducia, cuore del rapporto terapeutico, che risponde al valore più alto dell'ordinamento, la dignità della persona umana, a tutela della quale la Costituzione definisce e garantisce, nell'art. 32, la salute – unico tra i diritti della persona, non a caso, ad essere definito espressamente tale dalla Costituzione – come diritto «fondamentale» dell'individuo.

Il Consiglio di Stato, quindi, conclude affermando un principio generale incontestabile: le Linee guida non hanno una portata cogente per i loro destinatari, poiché i medici di medicina generale, possono nell'esercizio della propria competenza professionale prescrivere farmaci ulteriori e diversi da quelli raccomandati in esse, purché – e la precisazione è fondamentale – tale prescrizione si fondi su evidenze scientifiche attendibili che assicurino la sicurezza e l'efficacia del farmaco.

Il Consiglio di Stato, pur facendo riferimento alla c.d. medicina dell'evidenza, esprime principi non nuovi:

1) la prescrizione di un farmaco, da parte del medico, non può fondarsi su intuizioni o improvvisazioni sperimentate sulla pelle dei singoli pazienti, ma su evidenze scientifiche e, dunque, su rigorosi studi e precise sperimentazioni cliniche, ormai numerosi a livello internazionale anche nella lotta contro il virus Sars-Cov-2 dopo due anni dall'inizio della pandemia.

2) non vi è dubbio che il singolo medico, nel prescrivere un farmaco, possa discostarsi dalle Linee guida, senza incorrere in responsabilità (anzitutto penale), purché esistano solide o, quantomeno, rassicuranti prove scientifiche di sicurezza ed efficacia del farmaco prescritto, sulla base dei dati scientifici, pur ancora parziali o incompleti, ai quali possa ricondurre razionalmente il proprio convincimento prescrittivo rispetto alla singolarità del caso clinico.

La prescrizione del farmaco anche nell'attuale emergenza epidemiologica, e tanto più nell'ovvia assenza di prassi consolidate da anni per la solo recente insorgenza della malattia, deve fondarsi su un serio approccio scientifico e non può affidarsi ad improvvisazioni del momento.

Non si nega l'esperienza clinica dei singoli medici a livello territoriale e che questa sia preziosa e fondamentale per la ricerca scientifica nella lotta contro il Sars-CoV-2, anzi, proprio per tale ragione i risultati e i dati di questa esperienza devono sottostare ad un rigoroso approccio scientifico che consenta, anche in condizioni di emergenza epidemiologica, di valutare comunque la sicurezza e l'efficacia del farmaco, non affidabile certo individualmente e solamente al buon senso o addirittura al caso.

Lo stesso principio di precauzione può essere invocato in una fase emergenziale nell'impiego di nuovi farmaci, come anche in quello off label di farmaci già autorizzati, purché esistano sufficienti e solide evidenze scientifiche.

Ma questo pare pienamente condivisibile, come detto, chiaro essendo che un medico deve muoversi sul solco della scienza.

(segue) Sentenza n. 946 del Consiglio di Stato e significato di “tachipirina e vigile attesa”

Molto interessante è la seconda parte della motivazione, perché il Consiglio di Stato torna sul significato della linea guida.

La c.d. vigile attesa non è e non può essere concepita, se si esaminano con attenzione la Circolare e le raccomandazioni dell'AIFA, come un rassegnato immobilismo, negazione della stessa medicina nella sua funzione e, per alcuni pazienti più vulnerabili, preludio certo dell'ospedalizzazione, con esiti talvolta e purtroppo fatali.

La gestione dei soggetti con malattia lieve deve prevedere anzitutto, come la circolare qui contestata prevede, l'attenta valutazione dei parametri clinici essenziali, al momento della diagnosi di infezione, ed il monitoraggio quotidiano, per individuare precocemente segni e sintomi di instabilità clinica correlati all'alterazione dei parametri fisiologici (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, temperatura corporea, livello di coscienza, saturazione di ossigeno) che permetterebbero di identificare - appunto attraverso un atteggiamento di vigile attesa – il rischio di un rapido peggioramento clinico e di bloccarne tempestivamente l'evoluzione.

La “vigile attesa”, lungi dal costituire dunque un'inerzia ingiustificabile, postula invece tutta una serie di attività fondamentali, ampiamente riconosciute e dettagliate nella circolare del Ministero, e tra le altre, il monitoraggio e l'identificazione precoce di parametri e/o condizioni cliniche a rischio di evoluzione della malattia, con la conseguente necessità di ospedalizzazione, e la prescrizione di norme di comportamento e terapie di supporto in relazione al quadro clinico in evoluzione.

Prime conclusioni: convergenza e applicazione delle regole generali

Da quanto esposto, risulta evidente che il Consiglio di Stato applica i principi generali del sistema della responsabilità medica, già espressi dalla giurisprudenza e rinvenibili nella legge Gelli.

L'esercizio dell'attività medica impone a chi la pratica la massima prudenza, perizia e diligenza nello svolgimento degli atti medici.

Le linee guida non sono vincolanti.

Anzi, così come formulate, non esentano da responsabilità i medici che non adottino le cautele imposte dall'arte medica.

Ricordiamo che la Corte Costituzionale ha chiaramente affermato l'autonomia del medico nelle sue scelte professionali e l'obbligo di tener conto dello stato delle evidenze scientifiche e sperimentali, sotto la propria responsabilità e che non è il legislatore a stabilire, di norma, le pratiche terapeutiche ammesse (Corte cost. 26 giugno 2002, n. 282, in Giust. civ., 2003, I, p. 294: “la pratica terapeutica si pone all'incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell'arte medica; e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica, diritto questo che l'art. 32, comma 2, secondo periodo, Cost. pone come limite invalicabile anche ai trattamenti sanitari che possono essere imposti per legge come obbligatori a tutela della salute pubblica. Questi diritti, e il confine fra i medesimi, devono sempre essere rispettati, e a presidiarne l'osservanza in concreto valgono gli ordinari rimedi apprestati dall'ordinamento, nonché i poteri di vigilanza sull'osservanza delle regole di deontologia professionale, attribuiti agli organi della professione. Salvo che entrino in gioco altri diritti o doveri costituzionali, non è, di norma, il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche ammesse, con quali limiti e a quali condizioni. Poiché la pratica dell'arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione, la regola di fondo in questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione”).

Il problema del dato testuale delle linee guida e l'applicazione pratica: la sorveglianza clinica attiva

Il Consiglio di Stato fornisce una lettura corretta circa il fatto che le linee guida esaminate non indicano l'immobilismo o la negazione della funzione della medicina, ma al contrario indicano chiaramente una sorveglianza clinica attiva, con constante monitoraggio dei parametri vitali e delle condizioni cliniche del paziente nei soggetti a domicilio asintomatici o paucisintomatici.

Il problema è che nella pratica queste linee guida sono state applicate (non sempre) anche nell'accezione negativa di “tachipirina e vigile attesa”.

Questo è innegabile.

Occorre richiamare, quindi, l'attenzione sulla discrasia che si può creare tra il testo (che dice una cosa) e l'interpretazione o la prassi che si dà di quel testo (che può portare a tutt'altro significato).

Un'interpretazione che non si sottometta alle regole e che non curi di istituire una coerenza rispetto a modelli di decisione stabilizzati e già argomentativamente vagliati, rischia in ogni momento, proprio per il suo essere infondata, di precipitare in violenza e in arbitrio senza senso (ZACCARIA, La comprensione del diritto, Lecce, 2012, p. 88, con riferimento al decostruzionismo americano negli anni '80 e '90, che valorizza l'autoconsistenza dell'interpretazione e, quale faccia della stessa medaglia, la vanificazione del testo. Si veda anche ORLANDI, La circolazione dei significati, in Riv. dir. civ., 2019, p. 583 ss.; LIPARI, L'interpretazione giuridica, in LIPARI e RESCIGNO (diretto da), Dir. civ., vo. I, Fonti, soggetti, famiglia, t. I, Le fonti e i soggetti, Milano, 2009, p. 161).

A volte si propugna una destrutturazione del testo: il testo non è la norma e la norma non è il testo e, quindi il testo può essere interpretato in diversi modi. Scindendo il rapporto col testo, il giudizio ermeneutico non dipende dal testo, ma dal consenso degli interpreti, che non è il testo e non è il legislatore. Il senso del testo, quindi, non ha una sua propria autonomia (SACCO, op. cit., p. 608 ss.; si veda anche ORLANDI, op. cit., passim). Esemplificando, se il consenso degli interpreti dice che la norma afferma “alfa” anche se è scritto “beta”, la norma non è il testo.

Nel caso concreto, però, anche guardando al contesto d'uso, un'interpretazione non sorretta dal testo diventa arbitraria.

La responsabilità del medico, allora, diviene enorme.

Infatti, ricordiamo i passaggi fondamentali della responsabilità medica:

  • dovere di porre in essere tutte le metodiche volte a prevenire l'insorgenza di possibili patologie con la direzione e diffusione di pratiche di natura sanitaria dimostratesi efficaci nell'esperienze e osservazione quotidiana;
  • la responsabilità medica riguarda tutte le fasi (diagnostica/raccolta precisa dei dati, prognostica/sottostima o mancato rilievo di una sintomatologia allarmante/ritardo diagnostico e terapeutica/errore nel momento della scelta del trattamento sanitario);
  • obbligo di protezione;
  • obbligazione di mezzi;
  • le linee guida danno istruzioni si una sorveglianza clinica attiva ben precisa; le linee guida rilevano ai fini dell'imperizia, non della negligenza (in caso di omissioni);
  • l'osservanza di una regola cautelare non è fine a se stessa, ma strumentale alla tutela di un bene di primaria importanza, la salute (individuale e collettiva): rimane sovrana l'autonomia del medico nelle scelte terapeutiche sulla persona assistita, per la variabili individuali dei pazienti e tenendo conto della principio di libertà terapeutica (artt. 9, 32 e 33 Costituzione);
  • il medico può e deve dimostrare di agire sulla base di evidenze o studi scientifici.

Quello che interessa è evidenziare la discrasia tra i principi generali (del tutto pacifici) e l'applicazione pratica, che si può registrare ed è stata registrata nella realtà, che comporta:

  • la piena responsabilità di quei medici che non hanno adottato quei comportamenti attivi indicati dalle linee guida. Questo integra una colpa del medico facilmente dimostrabile. Altra questione, poi, è dimostrare il nesso di causa tra le omissioni e il decorso della malattia in forma grave che sarebbe stato impedito se si fossero adottate le misure imposte dall'arte medica e dalle linee guida.
  • l'infondatezza dei rimproveri e degli addebiti rivolti ai medici che attivamente si adoperavano per curare i pazienti, anche in applicazione del dovere generale di cura espresso anche nelle linee guida e comunque sulla base di studi scientifici ulteriori e aggiornati.

Questo rappresenta il vero nocciolo del problema sotteso alla decisione del Consiglio di Stato: si deve evidenziare la responsabilità non dei medici “attivi”, ma di quelli che non hanno fatto applicazione dei comportamenti attivi indicati dalle linee guida, disattendendo di fatto all'esercizio dei doveri di buona cura.

Conclusioni: il problema delle carenze croniche di risorse e il rischio di contenzioso risarcitorio

Sulla carta, le linee guida forniscono delle indicazioni attive che il medico di base o il medico ospedaliero si trovano difficilmente a poter eseguire: vieppiù in piena diffusione del virus, mancano le risorse economiche per gestire attivamente tutti i pazienti. Meglio, si manifesta la carenza cronica di ricorse economiche e personali.

A voler leggere le linee guida, ci si avvede che il medico dovrebbe porre in essere una serie di (doverosi) comportamenti, che oggettivamente non può eseguire a causa del carico di lavoro insostenibile, specie in piena pandemia.

Certamente questo non può costituire una scusante per il medico, ma evidenzia come le linee guida, per alcuni versi, dettino delle indicazioni che si scontrano con la realtà di un settore in sofferenza per mancanza cronica di risorse.

Il medico viene oberato di adempimenti su più piani, da quello burocratico (segnalazione, informazione, educazione del paziente e dei familiari e caregiver, istruzione, etc.) a quello di monitoraggio continuo e presente del paziente proprio per evitare l'aggravamento della malattia e l'ospedalizzazione.

Da qui una serie di indicazioni sui parametri da osservare con attenzione (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, respiratoria, temperatura corporea, livello di coscienza, saturazione di ossigeno, etc).

Vi è poi l'importanza dell'avvio tempestivo alle cure con i monoclonali, per cui risulta necessario il monitoraggio e la valutazione diagnostica e prognostica.

Insomma, tutto l'impianto delle linee guida presuppone, appunto, un monitoraggio attivo e la relativa valutazione di somministrazione di farmaci a seconda della situazione clinica.

Ma questo è proprio quanto dovrebbe fare il medico.

Il vero problema risiede nel mettere concretamente il medico nelle condizioni di poter eseguire il proprio compito, ossia dotarlo delle risorse economiche e strutturali idonee a lavorare.

Come visto, la colpa del medico per negligenza (diagnostica, prognostica e terapeutica) è fonte di responsabilità civile. Nel caso di applicazione delle linee guida nel senso errato di immobilismo, la colpa sarebbe evidente (ponendosi poi il problema della prova a carico del paziente del nesso di causa tra omissione e danno).

Ma a ben vedere, tutto questo dimostra, ove ce ne fosse bisogno, che non stiamo parlando di entità astratte (doveri di cura) fini a se stesse, ma di osservanza di regole e rispetto di doveri strumentali alla tutela di un bene superiore (la salute individuale e pubblica).

In questo senso, medico e paziente stanno dalla stessa parte (richiamando i cardini della cd. Alleanza terapeutica e del consenso informato)e non devono porsi in contrapposizione o, meglio, non devono essere posti in conflitto dall'assenza di risorse economiche strutturali. Infatti, il rischio è che l'insofferenza (e il contenzioso) dei pazienti scaturisca non già da effettive carenze del medico, ma dalle difficili condizioni operative nelle quali il medico è stato posto.

Come detto, questo non costituisce una scusante, ma deve essere di sprono affinché i medici continuino a far valere a gran voce, oggi più che mai, le istanze che da anni portano avanti di rafforzare il sistema sanitario.

Solo così, si può ricucire il rapporto medico-paziente e, soprattutto, tutelare il bene sostanziale «salute».

Il problema è anche il futuro della sanità pubblica, perché la decisione in esame e il contesto pandemico hanno fatto emergere i limiti e i pericoli delle linee guida (o, più correttamente, della loro possibile applicazione fuorviante).

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