Limiti del sequestro probatorio esteso a tutti i dati contenuti negli apparecchi telefonici o in altri sistemi informatici

22 Giugno 2022

La vicenda processuale, su cui sono intervenuti i Giudici di legittimità, trae origine da un'indagine per abuso d'ufficio che il Pubblico Ministero procedente contestava ad alcuni componenti di una commissione d'esame, nell'ambito di una procedura concorsuale indetta da un ente locale. Il ricorrente, pur non indagato, aveva subìto il sequestro del proprio telefono cellulare, con relativo accesso da parte degli inquirenti all'intera corrispondenza ivi contenuta.
Massima

In tema di sequestro probatorio, è illegittima l'acquisizione indiscriminata di tutti i dati contenuti in un sistema informatico, con l'intento di procedere ad una successiva selezione di quelli strumentali all'accertamento del reato, quando nel decreto emesso dal Pubblico Ministero non vengano esplicitate le ragioni per cui lo stesso debba fin dall'inizio essere esteso e omnicomprensivo, tenuto conto del tipo di reato per cui si procede, della condotta e del ruolo attribuiti alla persona titolare dei beni, nonché della difficoltà ad individuare nitidamente ex ante l'oggetto del sequestro.

È altresì illegittimo il sequestro probatorio su dati informatici, quando il Pubblico Ministero non abbia motivato sull'impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso strumenti meno invasivi e non abbia provveduto a modulare il provvedimento ablativo in misura tale da non arrecare un inutile sacrificio dei diritti dell'interessato, soprattutto quando il libero esercizio degli stessi non comporterebbe alcun pregiudizio alle finalità probatorie perseguite.

Il caso

La Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sui limiti del sequestro probatorio riguardante tutti i dati contenuti in un apparecchio telefonico o altro sistema informatico.

La vicenda processuale, su cui nuovamente sono intervenuti i Giudici di legittimità, trae origine da un'indagine per abuso d'ufficio che il Pubblico Ministero procedente contestava ad alcuni componenti di una commissione d'esame, nell'ambito di una procedura concorsuale indetta da un ente locale.

Il ricorrente, pur non indagato, aveva subìto il sequestro del proprio telefono cellulare, con relativo accesso da parte degli inquirenti all'intera corrispondenza ivi contenuta.

Tale provvedimento veniva ritenuto legittimo dal Tribunale del Riesame a cui si era rivolto il proprietario del telefono cellulare.

Lo stesso, pertanto, proponeva ricorso alla Suprema Corte di cassazione, contestando il provvedimento ablativo per carenza del fumus commissi delictie per carenza di motivazione nonché violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza della misura adottata.

A sostegno, il ricorrente affermava che gli elementi ricavabili dal sequestro non era riferibili all'ipotesi di reato prospettata da Pubblico Ministero.

Il Tribunale del Riesame, pur reso edotto di questo, aveva laconicamente escluso la legittimazione da parte del terzo interessato a contestare il sequestro probatorio, in relazione ai c.d. fumus commissi delicti, in quanto persona non formalmente indagata.

Il ricorrente, inoltre, osservava che, dall'esame dei tabulati telefonici riguardanti i soggetti indagati, era emersa la totale assenza di contatti con lo stesso, sicché anche sotto questo profilo appariva criticabile il sequestro eseguito.

Infine, rilevava che il decreto di sequestro probatorio era carente di adeguata e specifica motivazione, necessaria soprattutto quando il vincolo reale investe un supporto informatico, in quanto tale in grado di contenere una massa di informazioni variegate, del tutto estranee all'ipotesi accusatoria, ma assolutamente rilevanti sotto il profilo della tutela della riservatezza personale.

Pertanto, si censurava tale provvedimento anche in relazione al rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza, tenuto conto che sarebbe stato possibile ricorrere a strumenti meno invasivi, quali l'ispezione o il ricorso ad attività tecniche che non rendessero necessaria l'ablazione dell'apparecchio.

La questione

Per meglio comprendere le questioni interpretative sottoposte al vaglio delle Suprema Corte di cassazione, è opportuno partire da una breve analisi dei presupposti legittimanti il sequestro probatorio e le garanzie di tutela riconosciute a coloro che subiscono tale limitazione al proprio diritto di proprietà e, in taluni casi, alla libera corrispondenza e riservatezza.

Come è noto, il sequestro probatorio è un mezzo di ricerca della prova finalizzato al rinvenimento del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie all'accertamento dei fatti (art. 253 comma 1 c.p.p.).

Il legislatore ha fornito una definizione di “corpo del reato”, indicando le cose sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso, nonché le cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo (art. 253 comma 2 c.p.p.). Pertanto, il corpo del reato è tutto ciò che si pone in rapporto diretto e immediato con l'azione delittuosa.

Seguendo, dunque, l'ordine delle ipotesi delineate dalla norma, le cose “sulle quali il reato è stato commesso” non possono che corrispondere all'oggetto materiale del reato; diversamente, con l'inciso “mediante le quali è stato commesso” si fa riferimento ai mezzi utilizzati per la realizzazione del fatto criminoso; ed ancora, il riferimento alle “cose che costituiscono prodotto, profitto o prezzo di reato” sottintende quelle cose ottenute direttamente con il reato o creato per effetto dello stesso, ovvero qualsiasi vantaggio patrimoniale o non patrimoniale, compresi i beni dati o promessi al colpevole per la consumazione dello stesso.

Sul significato delle “cose pertinenti al reato”, alle quali il legislatore non fornisce alcun elemento definitorio, è opportuno orientarsi verso tutto ciò che assume un rapporto “indiretto” con la fattispecie criminosa e risulta strumentale all'accertamento dei fatti, ovvero quelle cose alla dimostrazione del reato e delle sue modalità di preparazione ed esecuzione, alla conservazione delle tracce, all'identificazione del colpevole, all'accertamento del movente ed alla determinazione dell'ante factum e del post factum comunque ricollegabili al reato, pur se esterni all'iter criminis, purché funzionali all'accertamento del fatto ed all'individuazione dell'autore (ex ultimis: Cass. pen., sez. VI, 17 novembre 2020, n. 3761).

Dopo aver chiarito l'oggetto del sequestro probatorio, è opportuno ricordare che esso presuppone l'emanazione di un decreto motivato da parte dell'autorità giudiziaria (art. 253 comma 1 c.p.p.).

Nel caso in cui il sequestro avvenga su iniziativa della polizia giudiziaria, il Pubblico Ministero, nelle quarantotto ore successive dalla ricezione, emette decreto motivato di convalida (art. 355 comma 2 c.p.p.).

Il riferimento alla “motivazione” appare di particolare rilievo nella valutazione della legittimità della misura ed investe indistintamente il corpo del reato e le cose pertinenti al reato (Cass. pen., sez. un., 19 aprile 2018, n. 36072, Botticelli).

Più nel dettaglio, l'obbligo di motivazione del decreto di sequestro deve riguardare tre profili fondamentali:

a) il fumus commissi delicti;

b) il nesso di strumentalità tra la cosa sequestrata e il reato;

c) la concreta finalità probatoria perseguita attraverso l'apposizione di un vincolo reale.

Partendo dal primo profilo (fumus commissi delicti), è necessario che nel decreto motivato vi sia una descrizione della condotta criminosa ipotizzata a carico dell'indagato, con la precisazione delle sue coordinate spazio temporali (Cass. pen., sez. VI, 12 settembre 2018, n. 56733).

La mera indicazione delle norme di diritto violate non soddisfa l'obbligo di motivazione che, in questo modo, deve intendersi del tutto carente (Cass. pen., sez. III, 26 novembre 2008, n. 47120).

Pertanto, l'autorità giudiziaria, tenuto conto dello stato del procedimento, deve rappresentare le concrete risultanze procedimentali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, consentendo una verifica all'esterno di congruità dei fatti rispetto al reato ipotizzato, senza che ciò comporti anche un sindacato sulla concreta fondatezza dell'accusa (Cass. pen., sez. VI, 13 marzo 2019, n. 37639).

Soltanto laddove gli elementi sui cui si fonda la notizia risultino “idonei” a configurare in astratto una fattispecie di reato, sarà possibile valutare come necessario l'espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o prove ulteriori del fatto, non altrimenti esperibili senza la sottrazione all'indagato della disponibilità della res o attraverso l'acquisizione della stessa nella disponibilità dell'autorità giudiziaria (Cass. pen., sez. III, 10 marzo 2015, n. 15254).

Con riferimento al secondo profilo (nesso di strumentalità tra la cosa sequestrata e il reato) è opportuno valutare se i beni presi di mira possano considerarsi corpo del reato o cosa pertinente al reato, secondo le coordinate ermeneutiche sopra delineate.

Inoltre, secondo la giurisprudenza prevalente, non è necessaria la prova del nesso di strumentalità tra la cosa sequestrata e il reato, essendo sufficiente in questa fase la “mera possibilità” del carattere di pertinenza, purché non astratta ed avulsa dalle caratteristiche del caso concreto (Cass. pen., sez. III, 17 novembre 2016, n. 1772).

Non si deve però trattare di un rapporto occasionale, bensì “funzionale” rispetto al reato; inoltre, siffatta valutazione deve essere più rigorosa nei casi in cui il bene appartenga ad un soggetto terzo estraneo al reato ipotizzato (Cass. pen., sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 33045).

Con riferimento al terzo profilo (finalità probatoria), il decreto di sequestro probatorio deve contenere una specifica motivazione della finalità perseguita per l'accertamento dei fatti (Cass. pen., sez. un., 19 aprile 2018, n. 36072; Cass. pen., sez. III, 18 gennaio 2022, n. 16584).

È stato però chiarito che la finalità probatoria possa essere determinata attraverso formule sintetiche quando sia di immediata percezione la diretta connessione probatoria tra il vincolo apposto sul bene sequestrato e il corretto sviluppo dell'attività investigativa (Cass. pen., sez. II, 11 novembre 2014, n. 52619). Diversamente, la motivazione dovrà essere più dettagliata quando il nesso tra il bene e il reato per cui si procede risulti indiretto (Cass. pen., sez. II, 11 febbraio 2015, n. 113235).

In ogni caso, l'onere motivazionale deve tener conto del fatto ipotizzato, del tipo di illecito sussumibile, della relazione che le cose presentano con il reato, nonché della natura del bene da sottoporre a sequestro (Cass. pen., sez. VI, 12 settembre 2018, n. 56733).

In relazione a quest'ultimo aspetto, si ritiene ontologicamente diversa la finalità probatoria quando si sottopone a vincolo il “corpo del reato”, con funzione di stabilizzazione del quadro indiziario; diversamente quando il sequestro interessa il materiale “pertinente il reato”, la finalità probatoria una funzione proattiva, essendo funzionale allo sviluppo delle indagini (Cass. pen., sez. II, 23 settembre 2020, n. 37941).

A questi requisiti se ne aggiunge uno ulteriore, che attiene al rispetto del principio di proporzionalità della misura ablatoria.

Sul punto, è stato chiarito che i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, indicati dall'art. 275 c.p.p. con riguardo alle misure cautelari personali, debbano trovare applicazione anche al sequestro preventivo, dovendo il giudice motivare adeguatamente sull'impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva (Cass. pen., sez. III, 7 maggio 2014, n. 21271).

La valutazione del rispetto del principio di proporzionalità è stata estesa anche al sequestro probatorio, imponendo che vi sia una ponderazione tra il “contenuto” del provvedimento ablativo e le “esigenze di accertamento dei fatti oggetto delle indagini” (Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2018, n. 9989, che ha ritenuto illegittimo – in relazione al reato di rivelazione di segreto d'ufficio – il sequestro indiscriminato di supporti telefonici e informatici a un giornalista, alla convivente e alla sua ex moglie).

Il principio in parola, riconosciuto anche a livello sovranazionale (art. 1 Prot. Add. CEDU, artt. 5 par. 3 e 4 TUE, 49 par. 3 e 52 par. 1 CDFUE), impone di valutare se vi è un giusto equilibrio o ragionevole rapporto di proporzionalità tra il mezzo impiegato (lo spossessamento del bene) e il fine endo-procedimentale perseguito (Corte EDU, 24 ottobre 1986, Agosi c. U.K.). Il bilanciamento tra i diversi interessi in gioco non potrebbe infatti essere soddisfatto quando il soggetto interessato dalla misura abbia patito un sacrificio “eccessivo” nel suo diritto di proprietà (Corte EDU, 13 ottobre 2015, Unsped Paket Servisi).

I principi sopra esposti devono essere valutati anche in relazione al sequestro dei dati contenuti in supporti informatici, ove gli stessi siano inquadrabili come “cose pertinenti al reato” per cui si procede.

Tuttavia, in materia di apprensione dei dati informatici, la giurisprudenza non sempre è stata univoca.

La problematica si pone soprattutto in relazione al cd. test di proporzionalità con il quale deve essere valutata, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, una misura ablativa che coinvolga in modo indiscriminato tutti i dati contenuti in un sistema informatico, ancorché non collegati al reato per il quale si sta procedendo.

Le soluzioni giuridiche

Secondo un primo orientamento, è legittimo il sequestro di un intero personal computer, anziché provvedere all'immediata estrazione di copia forense di singoli dati, quando ciò risulta giustificato dalle difficoltà tecniche di estrapolare, con riproduzione mirata, i dati contenuti nella memoria (Cass. pen., sez. V, 17 maggio 2019, n. 38456).

Un secondo orientamento ritiene illegittimo, per violazione dei canoni di proporzionalità e adeguatezza, il sequestro a fini probatori di un personal computer che conduca, in difetto di specifiche ragioni, ad una indiscriminata apprensione di tutte le informazioni ivi contenute (Cass. pen., sez. VI, 24 febbraio 2015, n. 24617; Cass. pen., sez. VI, 19 gennaio 2018, n. 9989).

Un orientamento intermedio ritiene che l'autorità giudiziaria, al fine di esaminare una massa di dati i cui contenuti siano potenzialmente rilevanti per le indagini, può disporre un sequestro dai contenuti molto estesi, provvedendo alla immediata restituzione delle cose sottoposte a vincolo, non appena sia decorso il tempo ragionevolmente necessario per gli accertamenti (Cass. pen., sez. VI, 11 novembre 2016, n. 53168).

Le pronunce più recenti, risalenti all'ultimo biennio, sembrano privilegiare quest'ultima linea interpretativa, pur tracciando ulteriori indicazioni in un'ottica di sistema.

A questo proposito, si è osservato, con riguardo ai dati contenuti in supporti informatici, ritenuti “cose pertinenti al reato”,che è necessario identificare il fumus di reato, il nesso strumentale tra lo stesso e i dati informatici, la finalità probatoria che sorregge il vincolo.

È stato poi aggiunto che, quando non è possibile sottoporre a vincolo specifici dati ed è necessario acquisire l'intero supporto o tutti i dati informatici, il rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza impone a carico dell'autorità giudiziaria che lo dispone l'obbligo di indicare la ragione della necessità del sequestro “integrale”.

Tale ragione può essere riconducibile alla impossibilità di effettuare una preventiva selezione tecnica, alla funzionalità del vincolo dell'intero supporto rispetto ad una imminente analisi tecnica diretta all'identificazione dei dati rilevanti, fermo restando che la durata del sequestro non potrà essere temporalmente indeterminata, ma limitata al tempo necessario per svolgere l'analisi tecnica del supporto e/o dei dati in esso contenuti (Cass. pen., sez. II, 23 settembre 2020, n. 37941).

Tornando al caso di specie, si è sopra anticipato che, nell'ambito di un'indagine per abuso d'ufficio, era stato emesso un provvedimento di sequestro probatorio avente ad oggetto il telefono cellulare e l'intera corrispondenza ivi contenuta nei confronti di persona non formalmente indagata, ma ritenuta dalla Pubblica accusa in grado di poter avere contatti telematici con gli indagati.

Il ricorrente, rivolgendosi alla Suprema Corte di cassazione, aveva contestato la legittimità del sequestro sotto il profilo del fumus commissi delicti, nonché per carenza di motivazione e violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza.

I Giudici di legittimità hanno preliminarmente ricordato che il soggetto non indagato è legittimato a contestare il fumus commissi delicti, trattandosi di pur sempre di un presupposto necessario da sottoporre a valutazione. Del resto, l'art. 257 c.p.p. prevede che la persona alla quale le cose sono state sequestrate, al pari dell'indagato, possa richiedere il riesame,“anche nel merito”, a norma dell'art. 324 c.p.p. Pertanto, risultava errata la decisione del Tribunale del Riesame che aveva escluso la legittimazione del terzo interessato a contestare i gravi indizi di reato posti a fondamento del sequestro.

Per quanto riguarda i profili attinenti alla carenza di motivazione e violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza della misura ablativa eseguita, sono state richiamate le più recenti pronunce di legittimità formatesi in materia di sequestro informatico, in parte già ricordate.

In particolare, i Giudici di legittimità hanno ribadito che:

  • il Pubblico Ministero deve adottare una motivazione che espliciti le ragioni per cui è necessario disporre un sequestro esteso e omnicomprensivo, tenuto conto del tipo di reato per cui si procede, della condotta e del ruolo attribuiti al titolare del bene, nonché della difficoltà di individuare ex ante l'oggetto del sequestro.
  • Oltre a questo, il Pubblico Ministero deve altresì motivare sull'impossibilità di conseguire il medesimo risultato, ricorrendo ad altri strumenti meno invasivi e, in ogni caso, deve provvedere a modulare il sequestro in modo da non arrecare un inutile sacrificio di diritti, il cui esercizio di fatto non comporterebbe alcun pregiudizio alle finalità di prova perseguite.

Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, il Pubblico Ministero non aveva indicato le ragioni per cui il sequestro dell'utenza cellulare dovesse essere omnicomprensivo e generalizzato.

Nel decreto si era invece limitato a sostenere che, pur non essendo emersi contatti nei tabulati con gli indagati, si trattava di utenze intestate o in uso a soggetti che avevano partecipato alle preselezioni e alle prove orali, sicché l'acquisizione si rendeva necessaria per verificare, mediante estrazione di copia forense e analisi dei dati contenuti nelle memorie, se emergevano “rapporti telematici o di altro tipo” con i componenti della commissione esaminatrice e con il sindaco, utili all'accertamento dei fatti.

In questo modo, osserva la Suprema Corte, si era verificata una generalizzata acquisizione dei dati, rinvenibili nell'utenza cellulare del ricorrente, che esorbitava le limitate verifiche necessarie ad accertare eventuali rapporti di natura illecita con altri soggetti coinvolti nell'indagine, sicché il provvedimento adottato risultava esplorativo e sproporzionato.

In ragione di ciò, gli Ermellini hanno pienamente accolto il ricorso proposto dal proprietario del telefono, dichiarando il sequestro probatorio nullo.

Osservazioni

Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha affermato che, in tema di sequestro probatorio di materiale informatico, è illegittima l'acquisizione indiscriminata di un'intera categoria di beni, nell'ambito della quale procedere ad una successiva selezione delle singole res strumentali all'accertamento del reato, se in precedenza non è stato emesso un provvedimento adeguatamente motivato, che non assuma prima facie una valenza meramente esplorativa o di ricerca di una notitia criminis.

In relazione a ciò, il Pubblico Ministero è tenuto a motivare sulle ragioni per le quali appare necessario – se non indispensabile – procedere ad un sequestro esteso e omnicomprensivo, avendo l'accortezza di modulare il vincolo apposto sul bene in misura tale da non comportare un sacrificio eccessivo nei confronti del titolare dei dati, quando l'esercizio dei suoi diritti non comprometta la finalità probatoria perseguita.

Tale sforzo interpretativo compiuto dalla Corte, in un'ottica di bilanciamento tra diritti e interessi investigativi contrapposti, appare senz'altro apprezzabile, rimanendo però aperte alcune questioni, non ancora risolte nelle più recenti pronunce citate.

Con specifico riguardo al dato informatico, è noto l'intervento normativo avvenuto con la legge 18 marzo 2008 n. 48, con cui si è stabilita la necessaria adozione di misure tecniche volte ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedire l'alterazione.

La procedura più adeguata consiste nella creazione di una copia-clone dell'hard disk conforme all'originale.

Tale copia però non rileva in sé come pertinente al reato, in quanto contiene un insieme di dati indistinti rispetto ai quali nessuna funzione selettiva è stata effettuata, anche in un'ottica di valutazione di un nesso di strumentalità tra res, reato ed esigenza probatoria perseguita.

Ne discende che la copia-clone o copia integrale non può soddisfare l'esigenza indifferibile di porre sotto sequestro solo il materiale pertinente rispetto al reato per cui si procede, assolvendo a una necessaria funzione probatoria.

La copia-integrale costituisce semmai un mezzo per consentire la restituzione dell'apparecchio o contenitore al legittimo proprietario, ma non legittima affatto il trattenimento dell'insieme di dati appresi.

Una volta effettuata la selezione delle res pertinenti è opportuna la restituzione non solo dell'apparecchio o contenitore, ma anche della copia integrale, il cui trattenimento altrimenti provocherebbe una elusione dell'art. 253 comma 1 c.p.p. che legittima il sequestro limitatamente a tutto ciò che è necessario e pertinente.

Su questo importante aspetto i Giudici di legittimità non si sono ancora direttamente pronunciati, nonostante gli interessanti rilievi forniti talvolta dalle difese nei ricorsi presentati.

Rilievi che, peraltro, trovano supporto nella dottrina, che ha avuto modo di osservare che il provvedimento di sequestro informatico deve contenere una motivazione più dettagliata e puntuale in relazione alla modalità di selezione dei dati.

In altre parole, non si può legittimare l'adozione di provvedimenti meramente esplorativi che consentano la lettura di tutti i files, con riserva di selezionare solo in seguito quelli “utili” alle indagini.

Ne discende che, già nel provvedimento di sequestro, deve essere enucleato uno specifico “protocollo di ricerca” che contenga l'indicazione delle parole chiave rispetto all'oggetto di prova e collegate al reato per cui si procede

Sotto questo profilo, appaiono meritevoli di considerazione le censure difensive (su cui è intervenuta, ma per altri profili, la già citata sentenza della Cass. pen., sez. VI, 15 settembre 2020, n. 30225), con riferimento all'indicazione (comunque tardiva rispetto all'emissione del decreto di sequestro) di un elenco di parole chiave da utilizzare per l'estrazione dei documenti rilevanti.

La difesa del ricorrente, infatti, sosteneva che le chiavi di ricerca delineate dal Pubblico Ministero non trovano la loro fonte nel decreto di sequestro ed erano assolutamente generiche.

Si criticava inoltre la scelta del Pubblico Ministero, in sede di conferimento dell'incarico al consulente, di riconoscimento di un preliminare potere esplorativo da parte della polizia giudiziaria, la quale avrebbe potuto agevolmente operare una verifica di tutti i dati informatici contenuti nel pc, senza alcuna limitazione fondata su chiavi di ricerca, in palese contrasto con le specifiche esigenze investigative delineate nel decreto e con le esigenze di tutela derivanti dagli artt. 42 Cost. e art. 1 Primo Protocollo Addizionale della Convenzione CEDU, tanto più in relazione alla posizione di terzo rivestita dal ricorrente.

Siffatte censure sono state ribadite anche in un'altra vicenda (su cui è intervenuta, ma per altri profili, la sentenza della Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2020 n. 34265), in cui si criticava che, in sede di conferimento di incarico al consulente tecnico, fosse stato autorizzato dal Pubblico Ministero un preliminare esame totale della polizia giudiziaria sulla copia integrale e solo successivamente una copia “forense” i cui dati informatici ritenuti pertinenti avrebbero dovuto essere individuati tramite parole chiave.

In entrambe le situazioni, i Giudici di legittimità non si sono pronunciati su tali specifici profili, ritenendoli assorbiti dalle altre specifiche doglianze solevate dalle difese.

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