Male captum bene retentum: la Corte costituzionale non cambia idea

24 Giugno 2022

La Corte costituzionale è stata chiamata ancora una volta ad esprimersi sulla vexata quaestio della tenuta costituzionale dell'art. 191 c.p.p., nell'esegesi offerta dalla giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente, secondo cui è consentita l'utilizzazione di prove che derivino anche in via mediata da un atto posto in essere in violazione di divieti, nello specifico nella parte in cui ritiene valido il sequestro conseguente ad una perquisizione nulla, se ha ad oggetto il corpo di reato o cose pertinenti al reato.
Massima

1) sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 191 c.p.p., censurato per violazione degli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, comma 2, 111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU, nella parte in cui - secondo l'interpretazione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, qualificabile come diritto vivente - non prevede che la sanzione dell'inutilizzabilità della prova acquisita in violazione di un divieto di legge si applichi anche alle c.d. “inutilizzabilità derivate”, e riguardi quindi anche gli esiti probatori. Tra questi è compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione domiciliare e personale: a) compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria le attribuiscono il relativo potere; b) compiuti dalla polizia giudiziaria fuori del caso di flagranza di reato, in forza di autorizzazione data verbalmente dal pubblico ministero senza che ne risultino contestualmente le ragioni concrete ed effettivamente pertinenti; c) compiuti dalla polizia giudiziaria fuori del caso di previa flagranza del reato, in forza di segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi autorizzati o convalidati dal pubblico ministero d) compiuti dalla polizia giudiziaria fuori del caso di previa flagranza del reato, e successivamente convalidati dal pubblico ministero senza motivare concretamente su quali fossero gli elementi utilizzabili la cui ricorrenza integrasse valide ragioni che legittimassero la perquisizione. L'ordinanza di rimessione ha sostanzialmente riproposto il medesimo thema decidendum delle sentenze n. 219 del 2019 e 252 del 2020, con cui la Corte costituzionale ha già rilevato come con la disposizione censurata «il legislatore abbia inteso introdurre un meccanismo preclusivo che direttamente attingesse, dissolvendola, la stessa “idoneità” probatoria di atti vietati dalla legge, distinguendo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla violazione di una regola sancita a pena di nullità dell'atto». Il petitum del rimettente si traduce, quindi, nella richiesta di una pronuncia fortemente “manipolativa”, volta a rendere automaticamente inutilizzabili gli atti di sequestro, «attraverso il “trasferimento” su di essi dei “vizi” che affliggerebbero gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti». Ciò rende «le questioni inammissibili, vertendosi in materia caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore (quale quella processuale), e discutendosi, per giunta, di una disciplina di natura eccezionale (quale appunto quella relativa ai divieti probatori e alle clausole di inutilizzabilità processuale)».

2) Sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sollevate, in riferimento agli artt. 13, 14 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU, perché ormai prive di oggetto, avendo la sentenza n. 252 del 2020 della Corte costituzionale rimosso in parte qua e con effetto ex tunc, la norma che determinava il denunciato contrasto con i parametri costituzionali evocati, per effetto della declaratoria di incostituzionalità del comma 3 della disposizione censurata, nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate (con atto motivato, secondo quanto precisato nella motivazione della sentenza).

Il caso

Con ordinanza del 26 ottobre 2020 (reg. ord. n. 37 del 2021), il Tribunale Ordinario di Lecce, in composizione monocratica, nell'ambito di un giudizio pendente nei confronti di una persona accusata di aver illecitamente detenuto modesti quantitativi di sostanze stupefacenti destinati alla cessione a terzi, ha sollevato più questioni di legittimità costituzionale, sussumibili sostanzialmente in due gruppi. L'imputazione de qua era stata formulata all'esito di una perquisizione domiciliare che aveva portato al rinvenimento e al conseguente sequestro delle sostanze e che era stata eseguita dalla polizia giudiziaria in forza di un'autorizzazione orale del pubblico ministero presso l'abitazione dell'imputato e a seguito di notizie comunicate alla stessa polizia giudiziaria tramite una telefonata anonima, quindi fuori dalla preventiva percezione di una situazione di flagranza del reato. Con il successivo provvedimento scritto di convalida, assunto dal pubblico ministero, quest'ultimo aveva unicamente motivato le ragioni del sequestro della sostanza stupefacente rinvenuta, in quanto corpo di reato, ma non si era minimamente espresso sui motivi che avevano giustificato la perquisizione.

La questione

Il primo gruppo di questioni sollevate dal Tribunale Penale di Lecce, in composizione monocratica, attiene al dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 191 c.p.p. in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, comma 3 (recte: 2), 111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), nella parte in cui - secondo l'interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente - «non prevede che la sanzione dell'inutilizzabilità della prova acquisita in violazione di un divieto di legge [...] si applichi anche alle c.d. “inutilizzabilità derivate”, e riguardi, quindi, anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione domiciliare e personale: a) compiuti dalla p.g. fuori dei casi in cui la legge costituzionale e quella ordinaria le attribuiscono il relativo potere; b) compiuti dalla p.g. fuori del caso di flagranza di reato, in forza di autorizzazione data verbalmente dal P.M. senza che ne risultino contestualmente le ragioni concrete ed effettivamente pertinenti; c) compiuti dalla p.g., fuori del caso di previa flagranza del reato, in forza di segnalazioni anonime o confidenziali e su tali basi autorizzat[i] o convalidat[i] dal P.M.; d) compiuti dalla pg. fuori del caso di previa flagranza del reato, e successivamente convalidati dal P.M., senza motivare concretamente su quali fossero gli elementi utilizzabili la cui ricorrenza integrasse valide ragioni che legittimassero la perquisizione». In particolare, nel caso di specie il Giudice rimettente ha considerato “abusiva”, «in quanto compiuta fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge e in assenza di valido atto autorizzativo», la perquisizione eseguita ai sensi dell'art. 103 T.U. Stupefacenti. Ed invero il pubblico ministero procedente - nonostante l'art. 103 T.U. Stupefacenti, al momento dell'ordinanza di rimessione non lo prevedesse nei casi in cui la pubblica accusa avesse rilasciato un'autorizzazione orale - aveva sì convalidato con un unico provvedimento sia il sequestro, sia la perquisizione, ma la motivazione della convalida si riferiva esclusivamente alle sole ragioni del sequestro (avente ad oggetto il corpo del reato o le cose pertinenti al reato) e nulla diceva in relazione ai motivi legittimanti la perquisizione, frustrando così la ratio della garanzia apprestata dagli artt. 13, 3 e 14 Cost. Per queste ragioni, secondo il Giudice a quo, «gli atti di ispezione e perquisizione personale e domiciliare eseguiti abusivamente dalla polizia giudiziaria, o non convalidati dall'autorità giudiziaria con atto motivato, dovrebbero rimanere privi di effetto anche sul piano probatorio», ai sensi dell'art. 191 c.p.p. e, di conseguenza, analoga invalidità dovrebbe colpire anche il sequestro. Detta soluzione ermeneutica è però contraddetta dall'indirizzo della giurisprudenza di legittimità divenuto «assolutamente dominante» a partire dalla sentenza della Corte di cassazione, Sezioni Unite penali, 27 marzo-16 maggio 1996, n. 5021, secondo cui deve essere considerato comunque valido il sequestro allorché abbia ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato, posto che, in tal caso, il sequestro costituisce un atto dovuto ai sensi dell'art. 253, comma 1, c.p.p., che non potrebbe essere omesso dalla polizia giudiziaria solo a causa dell'abuso compiuto. Dubita, quindi, il rimettente che l'art. 191 c.p.p., nella lettura proposta dal diritto vivente, possa ritenersi compatibile con il dettato costituzionale e, in particolare:

  • con gli artt. 13 e 14 Cost. poiché verrebbe negata «concreta attuazione alla previsione della perdita di efficacia delle perquisizioni e delle ispezioni, nonché dei sequestri ad esse conseguenti, ove eseguiti in violazione dei divieti» che, di converso, verrebbe garantita dalla disciplina stabilita dall'art. 191 c.p.p.;
  • con l'art. 3 Cost., sia per violazione del principio di uguaglianza, in quanto l'inutilizzabilità sarebbe esclusa «in casi del tutto analoghi ad altri per i quali la legge espressamente la prevede, o la giurisprudenza, comunque sia, la riconosce […] dando luogo, altresì, al paradosso di un sistema giuridico che vede «inefficaci ab origine le leggi incostituzionali», ma «efficacissimi», anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino», sia perché i diritti inviolabili della persona - centrali nel nostro ordinamento - non sarebbero posti sullo stesso piano dei diritti della collettività e dello Stato, sia perché l'interpretazione censurata si trova irrazionalmente a convivere con quella che riconosce l'inutilizzabilità di prove vietate dalla legge solo perché non verificabili (come nel caso degli scritti anonimi e delle fonti confidenziali);
  • con l'art. 2 Cost., perché verrebbero a mancare «effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell'uomo»;
  • con l'art. 97, comma 2 Cost., perché, in spregio al principio di legalità che regola l'azione dei pubblici poteri, prevarrebbe l'azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti costituzionali dei consociati;
  • con l'art. 24 Cost. perché sarebbe compromesso il diritto di difesa, considerato «che l'«insondabilità» degli elementi che hanno spinto la polizia giudiziaria a eseguire la perquisizione non consentirebbe di escludere che siano stati proprio i terzi latori della notizia confidenziale o anonima - se non, addirittura, come talora pure è avvenuto, le stesse forze di polizia - a introdurre nell'abitazione dell'imputato la res illicita»;
  • con l'art. 111 Cost. perché si vanificherebbe «il diritto dell'imputato ad un Giudice imparziale e dotato del potere di esercitare la giurisdizione nel giusto processo»;
  • con l'art. 117, comma 1, c.p.p., in relazione all'art. 8 CEDU, perché il diritto interno non offrirebbe, contrariamente a quanto richiesto dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, garanzie adeguate e sufficienti volte a disincentivare in modo efficace gli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio.

La seconda questione di legittimità costituzionale concerne, invece, l'art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), «nella parte in cui prevede che il P.M. possa consentire l'esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale, senza necessità di una successiva documentazione formale delle concrete e specifiche ragioni per cui l'ha rilasciata». A giudizio del rimettente, in assenza di una qualche forma di documentazione scritta dell'eventuale autorizzazione orale, non si potrebbe verificare l'osservanza del requisito della motivazione. Ciò violerebbe sia gli artt. 13 e 14 Cost. - giacché la prima norma invocata legittima la compressione del diritto di libertà personale solo con «atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge» ed è richiamata, quanto a garanzie e forme ivi previste, dall'art. 14 Cost., con riguardo a ispezioni, perquisizioni e sequestri domiciliari - sia l'art. 117, comma 1 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU, «non consentendo una simile autorizzazione un controllo effettivo sulla sussistenza delle condizioni che legittimano la perquisizione».

Le soluzioni giuridiche

Con l'ordinanza in esame la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità di entrambi i gruppi di questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale Ordinario di Lecce in composizione monocratica. La decisione de qua ha richiamato sostanzialmente le motivazioni contenute in due precedenti sentenze emesse dal Giudice delle leggi (C. cost., 26 novembre 2020, n. 252, in Cass. Pen., 2021, 831 e C. cost., 3 ottobre 2019, n. 219, in Giur. Cost., 2019, 5, 2581) su questioni sostanzialmente identiche e sovrapponibili, sollevate dalla medesima autorità giudiziaria rimettente, in riferimento agli stessi parametri costituzionali (ad eccezione dell'art. 111 Cost.) con otto precedenti ordinanze di rimessione (le prime due a firma del Giudice dell'udienza preliminare del medesimo Tribunale di Lecce).

Con precipuo riferimento al primo gruppo di questioni, che investono l'art. 191 c.p.p. - il cui petitum è essenzialmente quello di considerare inutilizzabili gli esiti probatori delle perquisizioni operate dalla polizia giudiziaria in assenza di una situazione di flagranza di reato e sulla base di elementi non utilizzabili, quali le fonti confidenziali - la Corte costituzionale ha ribadito il principio secondo cui non può trovare applicazione un principio di "inutilizzabilità derivata", sulla falsariga di quanto è previsto invece, nel campo delle nullità, dall'art. 185, comma 1, c.p.p. Ciò in quanto «essendo il diritto alla prova un connotato essenziale del processo penale, è solo la legge a stabilire - con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale - quali siano e come si atteggino i divieti probatori, in funzione di scelte di “politica processualespettanti in via esclusiva al legislatore: donde l'impossibilità - ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità - di riferire all'inutilizzabilità il regime del “vizio derivato”, contemplato dall'art. 185, comma 1, c.p.p. solo nel campo delle nullità («la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo»)». Legittimare la trasmigrazione sugli esiti probatori del sequestro «dei “vizi” che affliggerebbero gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti», come richiesto dal Giudice a quo, si tradurrebbe in una pronuncia «fortemente “manipolativa”» che coinvolgerebbe scelte di politica processuale riservate al legislatore. La Corte costituzionale ha peraltro precisato che gli abusi nella fase investigativa possono essere disincentivati «tramite la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” della polizia giudiziaria, come del resto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità».

Nel ripercorrere l'iter argomentativo motivazionale delle precedenti sentenze del Giudice delle leggi n. 219/2019 e n. 252/2020, la Corte ha altresì precisato che l'ordinanza di rimessione che ha dato origine al provvedimento in disamina «non appare foriera di apprezzabili elementi di novità» rispetto alle otto ordinanze scrutinate in precedenza, se non per alcune specificazioni legate al caso concreto e non muta, in ogni caso, il thema decidendum. Il dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 191 c.p.p. sollevato ex novo con riferimento all'art. 111 Cost., «in particolare sotto il profilo di una pretesa compromissione della imparzialità del giudice», non è, invero, in grado di scardinare la ratio decidendi delle precedenti pronunce richiamate dalla Corte costituzionale. Detta censura, peraltro, è unicamente rafforzativa della violazione - dedotta anche in precedenza - degli artt. 3 e 24 Cost. per la «ridotta verificabilità» degli elementi che hanno condotto la polizia giudiziaria ad eseguire la perquisizione.

Quanto, invece, al secondo gruppo di questioni, con cui il rimettente ha auspicato la pronuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 103 T.U. Stupefacenti, il Giudice delle leggi ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni per sopravvenuta mancanza di oggetto. Ed invero la norma censurata è già stata rimossa dall'ordinamento con efficacia ex tunc per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale del comma 3 nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate (C. cost., 26 novembre 2020, n. 252, cit.).

Osservazioni

Con l'ordinanza di rimessione, a cui ha fatto seguito la decisione in esame, la Corte costituzionale, tra i vari dubbi di legittimità sollevati, è stata chiamata ancora una volta ad esprimersi sulla vexata quaestio della tenuta costituzionale dell'art. 191 c.p.p., nell'esegesi offerta dalla giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente, secondo cui è consentita l'utilizzazione di prove che derivino anche in via mediata da un atto posto in essere in violazione di divieti, nello specifico nella parte in cui ritiene valido il sequestro conseguente ad una perquisizione nulla, se ha ad oggetto il corpo di reato o cose pertinenti al reato.

L'interrogativo che in tema di inutilizzabilità “derivata” ha da sempre impegnato gli interpreti attiene, invero, al rapporto tra la prova inutilizzabile e le prove acquisite successivamente, il cui reperimento sia stato in qualche modo “influenzato” dalla prova illegittimamente acquisita; in particolare una vivace e mai sopita diatriba sulla propagazione o meno dell'inutilizzabilità al sequestro posto in essere a seguito di perquisizione illegittima si è registrata negli anni, soprattutto in ambito dottrinario.

Come correttamente evidenziato dall'ordinanza in commento, l'art. 185 c.p.p. è inapplicabile all'inutilizzabilità, poiché quest'ultima sanzione processuale rimane circoscritta alle prove illegittimamente acquisite e non incide in alcun modo sulle altre risultanze probatorie, anche se queste sono collegate a quelle inutilizzabili (Cass. pen., sez. I, 16 novembre 2015, n. 45550, El Gharbi, in CED n. 265285; Cass. pen., sez. II, 18 marzo 2008, n. 12105, P.G. in proc. Fiaccabrino, in CED n. 239746). Detto assunto deriva dalla considerazione che il principio sancito dall'art. 185 c.p.p. - secondo cui la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi, che dipendono da quello dichiarato nullo - «non trova applicazione in materia di inutilizzabilità, riguardando quest'ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non quelle la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite» (di questo avviso anche Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2015, n. 12697, Strazimiri e altri, in CED n. 263031 e Cass. pen., sez. II, 2 dicembre 2011, n. 44877, Berardinetti, in CED n. 251361). La sanzione processuale de qua scatta, infatti, solo per le ipotesi tassative previste dalla legge e non è, quindi, suscettibile di applicazione analogica.

Muove proprio dalle predette argomentazioni l'orientamento dottrinale, avvallato anche dalla prevalente giurisprudenza, che propende per la legittimità del sequestro del corpo di reato anche se questo ha fatto seguito ad una perquisizione illegittima, secondo il noto brocardo male captum bene retentum. Detta tesi si fonda, altresì, sulla circostanza che nel codice di rito non è presente una norma che affermi in modo esplicito la dipendenza tra l'istituto della perquisizione e quello del sequestro - considerato che entrambi sono disciplinati in maniera autonoma - e sull'ulteriore convinzione che il potere di sequestro, in quanto riferito a cose obiettivamente sequestrabili, non dipende dalle modalità con le quali queste sono state reperite (le cui varie illegittimità - come precipuamente ricordato anche nella decisione in disamina dalla Consulta - possono eventualmente dar luogo a responsabilità disciplinari o addirittura penali), ma è condizionato unicamente all'acquisibilità del bene e alla insussistenza di divieti probatori espliciti o univocamente enucleabili dal sistema.

Recependo una teoria che affonda le proprie radici nella giurisprudenza nordamericana degli anni Venti dello scorso secolo - che prende il suggestivo nome di “teoria dei frutti dell'albero avvelenato” (fruits of the poisoned tree) - altra parte della dottrina e una giurisprudenza minoritaria approda, invece, a conclusioni opposte e sostiene che, in virtù del rapporto di pregiudizialità che lega la perquisizione al sequestro, l'inutilizzabilità di cui è affetta la prima non può non contagiare il secondo. In sostanza, pur non essendo colpito da inutilizzabilità originaria, poiché posto in essere legittimamente, il sequestro sarà comunque affetto dal vizio sulla base dello stretto collegamento funzionale esistente tra l'atto di ricerca della prova (perquisizione) e la sua materiale apprensione (il sequestro medesimo). Secondo questo orientamento, detto collegamento è ancora più evidente se solo si pensa che spesso e volentieri i due mezzi di ricerca della prova sono disposti con un unico provvedimento dell'autorità giudiziaria o, comunque, anche in caso di atti autonomi e separati, il successivo decreto di sequestro non potrà non richiamare il contenuto della precedente perquisizione.

Secondo altri interpreti, invece, il sequestro di quanto rinvenuto in violazione delle norme di legge poste a presidio dei diritti inviolabili di libertà personale e di domicilio, tutelati dagli artt. 13 e 14 Cost., costituisce una prova incostituzionale, come tale inutilizzabile, e per questa ragione dovrebbe comportare l'espunzione del reperto dall'ambito processuale.

Condividendo queste ultime premesse e riconoscendo che anche il diritto alla riservatezza della corrispondenza e di ogni mezzo di comunicazione non è che un aspetto essenziale della stessa inviolabilità della persona - perciò direttamente riconducibile nella categoria dei diritti inviolabili dell'uomo - le Sezioni unite della suprema Corte di cassazione hanno in passato stigmatizzato le condotte che nel procedimento acquisitivo della prova deroghino al libero esercizio dei diritti fondamentali, in assenza delle garanzie che consentano un'efficace verifica della loro legittimità, sanzionando con l'inutilizzabilità i risultati probatori così acquisiti (Cass. pen., sez. un., 27 marzo 1996, n. 5021, Sala, in CED n. 204644). Per il supremo Consesso nella sua massima composizione, infatti, «la stessa utilizzabilità della prova è pur sempre subordinata alla esecuzione di un legittimo procedimento acquisitivo che si sottragga, in ogni sua fase, a quei vizi che, incidendo negativamente sull'esercizio di diritti soggettivi irrinunciabili, non possono non diffondere i loro effetti sul risultato che, attraverso quel procedimento, sia stato conseguito». Per queste ragioni le Sezioni Unite hanno riconosciuto che «allorquando una perquisizione sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non nei “casi” e nei “modi” stabiliti dalla legge, così come disposto dall'art. 13 della Costituzione, si è in presenza di un mezzo di ricerca della prova che non è più compatibile con la tutela del diritto di libertà del cittadino, estrinsecabile attraverso il riconoscimento dell'inviolabilità del domicilio» e, per questo motivo, i risultati probatori raggiunti per mezzo di esso devono essere colpiti da inutilizzabilità. Le predette argomentazioni logico - giuridiche della Corte di cassazione muovono dalla premessa che la perquisizione è partecipe del complesso procedimento acquisitivo della prova in forza del rapporto strumentale sussistente tra la ricerca della prova, la scoperta di ciò che può essere necessario o utile ai fini investigativi e l'apprensione di quanto rinvenuto. A ciò consegue che il collegamento tra perquisizione e sequestro non si esaurisce nell'area riduttiva di una mera consequenzialità cronologica, atteso che la prima configura lo strumento giuridico che rende possibile il ricorso al secondo. I suddetti enunciati, però, vengono sostanzialmente disattesi dalla medesima sentenza che, nella parte motiva, si muove in una direzione opposta rispetto a quanto arguito in premessa: pur avendo riconosciuto come astrattamente possibile il fenomeno dell'inutilizzabilità derivata, le Sezioni Unite ne hanno poi ridimensionato la portata. Ed infatti, a giudizio della Corte, gli effetti invalidanti dell'attività perquirente illegittima non possono diffondersi ai risultati che l'attività di ricerca della prova ha consentito di acquisire, quando la stessa si è conclusa con il rinvenimento ed il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato. In una simile evenienza - sostiene il supremo Consesso - «è lo stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti: in questa specifica ipotesi, e ancorché nel contesto di una situazione non legittimamente creata, il sequestro rappresenta un “atto dovuto”, la cui omissione esporrebbe gli autori a specifiche responsabilità penali, quali che siano state, in concreto, le modalità propedeutiche e funzionali che hanno consentito l'esito positivo della ricerca compiuta» (di questo avviso anche Cass. pen., sez. II, 27 maggio 2020, n. 16065, Giannetti, in CED n. 278996). In sostanza l'iter argomentativo seguito dal Collegio nella sua massima composizione imprende dalla convinzione che, se anche gli aspetti strumentali della ricerca costituiscono una parte del più complesso procedimento acquisitivo, l'illegittimità dei predetti non può, da sola, trasmettersi al sequestro, poiché altrimenti paralizzerebbe l'adempimento di un obbligo giuridico connesso allo status di ufficiale di polizia giudiziaria, qualunque sia la situazione - legittima o no - in cui quest'ultimo si trovi ad operare, che trae la propria legittimazione dallo stesso ordinamento processuale.

In questo variegato e composito quadro ermeneutico, si è fatto strada, sin dagli inizi degli anni 2000, il dubbio di legittimità dell'art. 191 c.p.p. con l'art. 24 Cost.,sollevato di fronte alla Corte costituzionale che, già in quell'occasione, aveva dichiarato la questione manifestamente inammissibile (C. cost., 24 settembre 2001, n. 332, in Cass. pen., 2002, 222). Muovendo dal presupposto, infatti, che il fenomeno della nullità non può essere sovrapposto a quello della inutilizzabilità, il cui regime normativo supera il profilo del vizio dell'atto processuale e delle relative conseguenze sanzionatorie in termini di invalidità, diretta o derivata, per incidere non sull'atto processuale illecito, in sé e per sé considerato, ma direttamente sulla sua idoneità giuridica a svolgere funzione di prova, la Corte costituzionale aveva precisato che l'accoglimento del quesito comporterebbe l'esercizio di opzioni che l'ordinamento riserva esclusivamente al legislatore.

Nell'affrontare nel tempo ulteriori e plurime ordinanze di rimessione alla Corte costituzionaledella questione di legittimità costituzionale dell'art. 191 c.p.p., il Giudice delle leggi ha sempre ribadito la valutazione di manifesta inammissibilità e l'ha confermata anche a fronte della deduzione, da parte del Giudice a quo, della violazione di parametri costituzionali differenti rispetto al mero diritto di difesa evocato in passato (precisamente gli artt. 2, 3, 13, 14, 97, comma 2, 111 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 CEDU).

Appare condivisibile il ragionamento della Consulta, che ha reputato «particolarmente manipolativa» la richiesta del rimettente, in quanto il quesito proposto concerne la materia processuale caratterizzata da un'ampia discrezionalità del legislatore, a maggior ragione allorquando si verte, come nel caso di specie, su una disciplina di natura eccezionale, quale è quella afferente ai divieti probatori e alle clausole di inutilizzabilità processuale. Qualsiasi estensione del regime di inutilizzabilità «ad atti diversi da quelli cui si riferisce il divieto non potrebbe che essere frutto di una, altrettanto espressa, previsione legislativa» (cfr. C. cost., 3 ottobre 2019, n. 219, cit., e, nello stesso senso cfr. anche la giurisprudenza di legittimità: Cass. pen., sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 4119, Romeo, in CED n. 278196; Cass. pen., sez. V, 29 ottobre 2019, n. 44114, Giaimo, in CED n. 277432 e Cass. pen., sez. VI, 4 febbraio 2019, n. 5457, Cosentino, in CED n. 275029), a maggior ragione considerato che l'inutilizzabilità risponde - al pari delle nullità - «ai paradigmi della tassatività e della legalità, dal momento che è soltanto la legge a stabilire quali siano - e come si atteggiano - i diversi divieti probatori» (C. cost., 3 ottobre 2019, n. 219, cit.).

Ciò detto, nonostante la manifesta inammissibilità della questione abbia impedito uno scrutinio di merito da parte della Consulta, un intervento legislativo in materia - peraltro da tempo auspicato in dottrina proprio per l'assenza di una disciplina positiva - si rivela, a giudizio di chi scrive, sempre più necessario ed improcrastinabile, onde garantire il rispetto dei requisiti convenzionali in materia di equo processo, sanciti dall'art. 6, § 1, CEDU. Se è vero, infatti, che la Corte costituzionale non si è espressa in merito, essendo differenti le violazioni prospettate dal Giudice rimettente, è altrettanto vero che la Corte europea dei diritti dell'uomo, in più decisioni (Corte EDU, sez. V, 14 marzo 2019, Kobiashvili c Georgia, § 56 e 73; Corte EDU, sez. V, 3 marzo 2016, Prade c. Germania, § 34; Corte EDU, sez. I, 10 luglio 2014, Layijov c. Azerbaigian, § 66 ss.; Corte EDU, sez. I, 25 febbraio 2010, Lisica c. Croazia, § 49) ha evidenziato l'iniquità insita nella decisione fondata sul sequestro operato a seguito di una perquisizione contra legem, quantomeno quando non sia stato possibile per le modalità della ricerca garantire l'affidabilità delle prove ottenute e l'imputato non abbia avuto la facoltà di contestarne l'autenticità o di opporsi al loro uso. Si auspica, dunque, un intervento del legislatore che, nel precludere l'utilizzabilità, ai fini della decisione, di quanto “reperito” in violazione dei divieti posti dalla legge processuale incrementi lo standard di tutela riconosciuto ai diritti dell'individuo.

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