Referendum in materia di stupefacenti inammissibili: le ragioni della Corte costituzionale

Michele Toriello
29 Giugno 2022

L'esito positivo del referendum avrebbe, dunque, inopinatamente condotto a punire la cessione di un paio di dosi di marijuana più severamente rispetto all'importazione di molte tonnellate della medesima sostanza, ed avrebbe, altresì, introdotto un ulteriore profilo di contrasto con le richiamate disposizioni comunitarie, che impongono di punire le violazioni più gravi con la pena detentiva.
Massima

E' inammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione degli articoli 73, comma 1 (limitatamente all'inciso “coltiva”), 73, comma 4 (limitatamente alle parole “la reclusione da due a 6 anni e”), e 75, comma 1 (limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni;”), del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

Il caso

Il Comitato Promotore Referendum Cannabis Legale ha raccolto nel giro di pochi mesi oltre 600.000 firme al fine di rimodellare il Testo Unico delle leggi in materia di disciplina delle sostanze stupefacenti e psicotrope, escludendo la condotta di coltivazione dall'elenco delle condotte incriminate dal primo comma dell'art. 73, eliminando le pene detentive previste dal quarto comma dell'art. 73 per i delitti relativi alle droghe “leggere”, e, infine, eliminando la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotoriche l'art. 75, comma 1, consente di irrogare a chi sia colto nell'atto di fare uso personale di droghe.

Le firme sono state depositate il 28 ottobre 2021 presso la Cancelleria della Corte di cassazione.

Con ordinanza del 10 gennaio 2022, l'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte di cassazione ha dichiarato legittima la richiesta di indizione del referendum.

Con sentenza n. 51 del 15 febbraio 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum.

La questione

Attraverso l'iniziativa referendaria, si intendeva mitigare la risposta sanzionatoria apprestata dal nostro ordinamento in relazione ad alcune condotte - rilevanti penalmente o in via amministrativa - aventi ad oggetto principalmente la cannabis ed i suoi derivati.

Più in particolare, secondo le vigenti disposizioni del Testo Unico:

  • la condotta di coltivazione è punita al pari di tutte le altre elencate dal primo comma dell'art. 73 (produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, offerta in vendita, messa in vendita, cessione, ricezione, distribuzione, commercio, acquisto, trasporto, esportazione, importazione, procacciamento, invio, passaggio in transito, spedizione in transito, consegna, detenzione), pur dovendosi rammentare che, secondo il più recente arresto delle Sezioni unite in argomento, devono ritenersi escluse dall'area dell'incriminazione «le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore» (Cassazione penale, Sez. un., 19 dicembre 2019 / 16 aprile 2020, n. 12348, Caruso): l'iniziativa referendaria mirava ad eliminare dalla norma la parola “coltiva”, così da rendere lecita la coltivazione ai fini di autoconsumo delle piante di cannabis;
  • ogni condotta delittuosa relativa alle sostanze stupefacenti elencate nella seconda e nella quarta tabella - le cosiddette droghe “leggere”: in primis, la cannabis ed i suoi principali derivati, hashish e marijuana - è punita con la pena della reclusione da 2 a 6 anni, e della multa da € 5.164 ad € 77.468: l'iniziativa referendaria mirava ad eliminare dalla norma incriminatrice il riferimento alla pena detentiva, così da rendere dette condotte sanzionabili esclusivamente con la pena pecuniaria;
  • l'autorità amministrativa che accerti che alcune delle condotte incriminate dall'art. 73 (importazione, esportazione, acquisto, ricezione, detenzione) sono state commesse al fine di destinare la sostanza stupefacente all'uso personale, può irrogare nei confronti del tossicofilo, tra le altre, la sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori, per un periodo da due mesi a un anno, se si tratta di droghe cc.dd. “pesanti”, e per un periodo da uno a tre mesi, se si tratta di droghe cc.dd. “leggere”, ovvero la sanzione del divieto di conseguire i predetti titoli abilitativi per un periodo fino a tre anni: l'iniziativa referendaria mirava a cancellare del tutto questa sanzione amministrativa.

L'intento dei referendari era, dunque, quello di depenalizzare le condotte di coltivazione c.d. “domestica” delle piante di cannabis, di “de-carcerizzare” ogni condotta illecita relativa alle droghe cc.dd. “leggere”, e di escludere, in caso di illecito amministrativo correlato all'uso personale di qualsiasi sostanza (non solo, dunque, dei derivati della cannabis), la sanzione della sospensione della patente e degli altri titoli abilitativi alla guida di motoveicoli e ciclomotori.

Prima di analizzare la pronuncia della Corte, occorre rammentare che i delitti concernenti le sostanze stupefacenti sono stati oggetto di numerose convenzioni internazionali, a partire da quella sull'oppio firmata a L'Aja il 23 gennaio 1912, che invitava gli stati firmatari a “compiere i loro migliori sforzi per controllare, o per incitare al controllo di tutte le persone che fabbrichino, importino, vendano, distribuiscano e esportino morfina, cocaina e loro derivati, così come i rispettivi locali dove queste persone esercitino tale industria o commercio”: inizialmente dedicate agli aspetti della produzione e della commercializzazione di sostanze stupefacenti a fini leciti, le fonti internazionali, con il passare degli anni, e con il mutare dell'atteggiarsi del fenomeno, si sono preoccupate di delineare una più incisiva azione volta alla repressione dei traffici illeciti ed all'adozione di idonee misure di prevenzione, anche allo scopo di fronteggiare le implicazioni di natura sanitaria, sociale ed economica del fenomeno criminale; sono, così, venuti progressivamente a delinearsi tre diversi livelli di intervento: il primo, puramente repressivo, nei confronti dei produttori e dei trafficanti di sostanze stupefacenti; il secondo, relativo ai consumatori di droghe, orientato alla prevenzione del fenomeno ed alla riabilitazione dei soggetti; il terzo, relativo ai tossicodipendenti che si rendano responsabili di condotte illecite, nel quale lo strumento repressivo viene affiancato, ed in alcuni casi sostituito, da quello riabilitativo.

Più nel dettaglio, la Single Convention on Narcotic Drugs di New York, del 30 marzo 1961, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 5 giugno 1974, n. 412, dopo aver chiarito che «il termine "stupefacente" indica qualsiasi sostanza di cui alle tabelle I e II, sia essa naturale che sintetica» (art. 1, che fa riferimento alle tabelle allegate al testo della Convenzione), vieta la detenzione non autorizzata di sostanze stupefacenti (art. 33: «le Parti non permettono la detenzione di stupefacenti senza una autorizzazione legale»), prescrivendo infine che «ciascuna Parte adotta le misure necessarie affinché la coltivazione e la produzione, la fabbricazione, l'estrazione, la preparazione, la detenzione, l'offerta, la messa in vendita, la distribuzione, l'acquisto, la vendita, la consegna per qualunque scopo, la mediazione, l'invio, la spedizione in transito, il trasporto, l'importazione e l'esportazione di stupefacenti non conformi alle disposizioni della presente Convenzione o qualunque atto reputato dalla detta Parte contrario alle disposizioni della presente Convenzione, siano considerati infrazioni punibili qualora siano commesse intenzionalmente e sempreché le infrazioni gravi siano passibili di una pena adeguata, in particolare di pene che prevedono la reclusione o altre pene detentive» (art. 36), prevedendo altresì quale «complemento della condanna o della sanzione penale» la possibilità di sottoporre il trasgressore a «misure di cura, correzione, postcura, riabilitazione e reinserimento sociale».

La Convenzione sulle sostanze psicotrope stipulata a Vienna il 21 febbraio 1971, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 25 maggio 1981, n. 385, definisce all'art. 1 (“glossario”) la “sostanza psicotropa” come “qualunque sostanza, di origine naturale o sintetica, o qualunque prodotto naturale di cui alla Tabella I, II, III o IV” (anche in questo caso si fa riferimento alle tabelle allegate al testo della Convenzione), con la espressa precisazione, contenuta nel successivo articolo 2, che si tratta di elencazione suscettibile di integrazione, potendo anche in epoca successiva essere aggiunta ai cataloghi qualunque sostanza della quale si dimostri la capacità di “provocare uno stato di dipendenza” e di determinare «uno stimolo o una depressione del sistema nervoso centrale che dia luogo a allucinazioni o a disordini della funzione motrice o alla facoltà di giudizio o al comportamento o alla percezione o all'umore». Il successivo articolo 22 statuisce che: «a) Ferme restando le proprie norme costituzionali, ciascuna Parte considererà come infrazione punibile qualunque atto, commesso intenzionalmente, che infranga una legge o un regolamento adottato in esecuzione dei propri obblighi, derivanti dalla presente Convenzione, e adotterà le misure necessarie affinché le infrazioni gravi siano debitamente sanzionate, ad esempio con una pena detentiva o altra pena di privazione della libertà. b) Indipendentemente dalle norme del comma precedente, quando soggetti che utilizzano in modo abusivo sostanze psicotrope avranno commesso tali infrazioni, le Parti potranno, invece che condannarli o pronunciare a loro carico una sanzione penale, oppure come complemento della sanzione penale, sottoporre tali soggetti a misure di cura, educazione, dopo cura, riadattamento e reinserimento sociale, conformemente al disposto del paragrafo 1 dell'art. 20».

La Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope, adottata a Vienna il 20 dicembre 1988, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 5 novembre 1990, n. 328, ribadisce i principi già affermati nelle precedenti Convenzioni, definendo all'art. 1, lettera q), quale “stupefacente” ogni «sostanza di origine naturale o di sintesi figurante alla Tabella I o alla Tabella II della Convenzione del 1961 così come modificata», ed alla successiva lettera r) quale “sostanza psicotropa” ogni «sostanza, avente origine naturale o di sintesi, oppure ogni prodotto naturale della Tabella I, II, III, o IV della Convenzione del 1971 sulle sostanze psicotrope»; l'art. 1, secondo paragrafo, prevede che «fatti salvi i propri principi costituzionali ed i concetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico, ciascuna Parte adotta le misure necessarie per attribuire la natura del reato conformemente alla propria legislazione interna, alla detenzione e all'acquisto di stupefacenti e di sostanze psicotrope, alla coltivazione di stupefacenti destinati al consumo personale»; l'art. 3 prescrive che «ciascuna Parte adotta i provvedimenti necessari per attribuire il carattere di reato, conformemente con la legislazione nazionale, qualora l'atto sia stato commesso intenzionalmente», ad attività quali: la produzione, la fabbricazione, l'estrazione, la preparazione, l'offerta, la messa in vendita, la distribuzione, la vendita, la consegna a qualsiasi condizione, la mediazione, la spedizione, la spedizione in transito, il trasporto, l'importazione e l'esportazione «di qualsiasi stupefacente o di qualunque sostanza psicotropa» (lettera a, numero 1); la coltivazione del papavero da oppio, dell'albero della coca o della pianta di canapa indiana, ai fini della produzione di stupefacenti (lettera a, numero 2); la detenzione o l'acquisto di qualunque stupefacente o di ogni sostanza psicotropa finalizzata al compimento di una delle attività elencate al numero 1 della lettera a (lettera a, numero 3). L'art. 14 della Convenzione prevede, infine, “Misure volte ad eliminare la coltivazione illecita delle piante da cui si estraggono stupefacenti”, promuovendo una cooperazione tra le Parti finalizzata a sostenere puno sviluppo rurale integrato finalizzato a coltivazioni di sostituzione economicamente redditizie», così recependo la tendenza in atto nella Comunità internazionale di assicurare aiuti finanziari ai Paesi in via di sviluppo affinché incentivino la sostituzione delle coltivazioni di piante dalle quali si estraggono stupefacenti.

A livello comunitario, il principale testo di riferimento è la decisione quadro 2004/757/GAI del 5 ottobre 2004 del Consiglio dell'Unione Europea, che suggerisce, all'art. 4, delta sanzionatori differenziati in relazione alle diverse condotte delittuose (ed invero, in sede di premessa si sottolinea che «per stabilire l'entità della pena si dovrebbe tener conto di elementi di fatto quali i quantitativi e la natura degli stupefacenti oggetto di traffico, e l'eventuale commissione del reato nell'ambito di una organizzazione criminale»). Il 15 novembre 2017 il Parlamento europeo ed il Consiglio dell'Unione europea hanno adottato la direttiva 2017/2103, che modifica la decisione quadro appena citata, introducendo disposizioni che rendono più semplice e rapido l'inserimento nel catalogo delle sostanze stupefacenti delle nuove sostanze psicoattive, che – si legge nei considerando iniziali - «stanno comparendo con frequenza e si stanno diffondendo rapidamente» nell'Unione, con conseguenti «gravi rischi per la salute pubblica e per la società».

Le soluzioni giuridiche

Con la sentenza oggetto di commento, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di indizione del referendum popolare.

Si è, in primo luogo, ravvisato un irrimediabile ed inammissibile contrasto tra la normativa cd. di risulta e gli obblighi di incriminazione introdotti dalle fonti internazionali: mentre queste ultime impongono di sanzionare penalmente la coltivazione di piante da stupefacenti, ivi compresa la pianta di cannabis (annota, in proposito, la Corte che «alla stregua delle Convenzioni internazionali di Vienna e di New York, nonché della richiamata normativa europea, la canapa indiana e i suoi derivati rientrano tra le sostanze stupefacenti la cui coltivazione e detenzione deve essere qualificata come reato»), l'esito positivo del referendum avrebbe inopinatamente depenalizzato qualsiasi condotta di coltivazione, anche se avente ad oggetto le piante dalle quali si estraggono le sostanze stupefacenti più pericolose, come eroina (papavero sonnifero) e cocaina (foglie di coca); ed invero, posto che la coltivazione della cannabis è punita dall'art. 73, comma 4, del Testo Unico, e posto che tale norma, per descrivere la condotta vietata, rinvia alla analitica e già illustrata elencazione del primo comma dello stesso articolo, il ritaglio referendario proposto dai promotori avrebbe inciso proprio il primo comma della norma incriminatrice, eliminando dallo stesso la parola “coltiva”: tuttavia, così facendo, si sarebbe inevitabilmente ed indistintamente azzerata la rilevanza penale di ogni condotta di coltivazione di qualsiasi pianta idonea a produrre sostanze stupefacenti, ivi comprese quelle dalle quali si estraggono le droghe “pesanti” di origine vegetale, in aperto contrasto con le norme convenzionali e comunitarie al cui rispetto il nostro ordinamento è tenuto; conclude, dunque, la Corte annotando che «il quesito referendario – per quello che è il suo contenuto oggettivo, l'unico rilevante, e non già la finalità soggettiva assunta dal Comitato nella sua memoria – conduce a depenalizzare direttamente la coltivazione (quale ne sia l'estensione) delle piante della Tabella I, da cui si estraggono le sostanze stupefacenti qualificate come droghe cosiddette “pesanti” (papavero sonnifero e foglie di coca), e indirettamente altresì la coltivazione della pianta di cannabis della Tabella II»; verrebbe, così, raggiunto un risultato che «contrasta apertamente con i vincoli sovranazionali .. In particolare la citata decisione quadro del Consiglio dell'Unione Europea 2004/757/GAI, integrata dalla direttiva 2017/2103/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 novembre 2017, prevede espressamente all'art. 2, paragrafo 1, che ciascuno Stato membro provvede affinché siano punite plurime condotte connesse al traffico illecito di stupefacenti, tra le quali è espressamente indicata – alla lettera b) – «la coltura del papavero da oppio, della pianta di coca o della pianta della cannabis». Nella Relazione al disegno di legge, recante "Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea con la legge di delegazione europea 2018", il Governo – come prescritto dall'art. 29, comma 7, lettera d), della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea) – ha dato atto dell'omesso inserimento, tra le altre, della citata direttiva integrativa della richiamata decisione quadro «poiché l'ordinamento nazionale risulta essere conforme al dettato normativo europeo e, pertanto, non necessita[…] di norme di attuazione».

E' tuttavia la stessa Corte, immediatamente dopo, a smentire, o comunque a ridimensionare questo assunto: ed invero, la sentenza contraddittoriamente prosegue rilevando che «il risultato prefigurato dalla richiesta referendaria neppure verrebbe conseguito, perché comunque rimarrebbe la fattispecie penale dell'art. 28 t.u. stupefacenti, che – in quanto non attinto dalla richiesta referendaria, come del resto ammette lo stesso Comitato promotore – continuerebbe a sanzionare la coltivazione non autorizzata di tutte le piante di cui all'art. 26, comprendendo così sia quelle della Tabella I (papavero sonnifero e foglie di coca), sia quelle della Tabella II (canapa), con la sola eccezione, espressamente prevista, della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all'art. 27, consentiti dalla normativa dell'Unione europea».

Non pare, dunque, corretto sostenere che l'iniziativa referendaria deve essere frustrata perché presenta elementi di insanabile contrasto con le fonti sovranazionali: è la stessa Corte a sottolineare e ribadire che «anche in caso di esito affermativo della consultazione referendaria rimarrebbe vigente la prescrizione dell'art. 28, che prevede, al comma 1, che chiunque, senza essere autorizzato, coltiva le piante indicate nel precedente art. 26, è assoggettato alle sanzioni penali (oltre che amministrative) stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse (ossia quelle dell'art. 73). L'art. 26 a sua volta richiama le Tabelle dell'art. 14, come sostituito dal d.l. n. 36 del 2014, come convertito, che contemplano, appunto, le piante sia di papavero sonnifero, sia di coca, sia di canapa».

Essa va, piuttosto, frustrata per la sua sostanziale inutilità: l'esito positivo della consultazione «sarebbe in realtà vano e illusorio, perché rimarrebbe in ogni caso immutata la rilevanza penale, prevista dall'art. 28 t.u. stupefacenti, non oggetto della richiesta referendaria, per ogni coltivazione non autorizzata di piante di cui all'art. 26, tra cui proprio la canapa indiana».

Tanto impone di addivenire alla declaratoria di inammissibilità in commento, «non essendo inibita a questa Corte la valutazione della normativa di risulta allorché essa, come nella fattispecie, presenti elementi di grave contraddittorietà rispetto al fine obiettivo dell'iniziativa referendaria tali da pregiudicare la chiarezza e la comprensibilità del quesito per l'elettore (sentenze n. 24/2011, n. 15/2008 e n. 45/2005). Si ha infatti che in questa parte la proposta referendaria risulta essere fuorviante per il corpo elettorale, che - diversamente da quanto proclamato dal Comitato promotore - non sarebbe, in realtà, affatto chiamato a esprimersi sull'alternativa, di portata ridotta, se depenalizzare, o no, la coltivazione della canapa in forma domestica “rudimentale”, bensì si troverebbe di fronte all'alternativa, sopra indicata, ad un tempo ben più ampia (in quanto comprensiva della depenalizzazione anche della coltivazione del papavero sonnifero e delle foglie di coca), quanto illusoria (rimanendo, in realtà, la rilevanza penale di tutte tali condotte); e ciò ridonda in irrimediabile difetto di chiarezza e univocità del quesito».

Ancor più sintetiche sono le motivazioni a sostegno della inammissibilità del quesito relativo al quarto comma dell'art. 73: «pur rimanendo precluse, nel giudizio di ammissibilità del referendum, valutazioni di merito sulla legittimità costituzionale della normativa di risulta, questa Corte non può, tuttavia, non rilevare, sotto il profilo dell'ambiguità del quesito, la vistosa contraddittorietà che conseguirebbe all'eliminazione della pena detentiva, per l'irriducibile antinomia che ne deriverebbe con la fattispecie del comma 5 del medesimo art. 73 t.u. stupefacenti, disposizione non toccata dalla proposta abrogativa referendaria. Infatti si avrebbe che ai medesimi fatti di cui al comma 4, se ritenuti di "lieve entità", rimarrebbe invece applicabile la sanzione congiunta della reclusione e della multa. È vero - come sottolinea il Comitato promotore nella sua memoria - che questa Corte (sentenza n. 23/2016) ha affermato in proposito che, dopo la trasformazione della circostanza attenuante in reato autonomo, «non sussiste più alcuna esigenza di mantenere una simmetria sanzionatoria tra fatti di lieve entità e quelli non lievi». Ma ciò giustifica solo che il regime sanzionatorio del novellato comma 5 dell'art. 73 possa essere - come in effetti è - unico, senza distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, e non già che paradossalmente il fatto di "lieve entità" possa essere punito con la pena congiunta della reclusione e della multa e non lo sia invece il fatto non lieve o addirittura quello grave per la ricorrenza delle circostanze aggravanti dell'art. 80 t.u. stupefacenti (l'aumento di pena è, infatti, previsto con riferimento alla pena base, che per la fattispecie del comma 4 dell'art. 73, in caso di esito affermativo del referendum, sarebbe costituita dalla sola multa). Anche in questa parte la richiesta referendaria presenta, quindi, un irrimediabile profilo di inammissibilità per la manifesta contraddittorietà della normativa di risulta con l'intento referendario, in quanto la sanzione detentiva permarrebbe in riferimento ai medesimi fatti quando di "lieve entità". Ciò ridonda in difetto di chiarezza giacché il quesito referendario chiederebbe all'elettore di operare una scelta illogica e contraddittoria: se eliminare, o no, la pena della reclusione per i fatti concernenti le droghe cosiddette “leggere”, conservandola invece per le medesime condotte se di "lieve entità".

Osservazioni

Tre sono gli argomenti sui quali poggia la declaratoria di inammissibilità: la violazione degli obblighi internazionali, il difetto di chiarezza e di univocità del quesito, e la manifesta contraddittorietà tra l'intenzione dei promotori e il quadro normativo che sarebbe venuto crearsi per effetto dell'eventuale esito positivo del referendum.

Il primo aspetto, indebolito - come si è già evidenziato - dagli ulteriori passaggi della motivazione in commento, si fonda su una interpretazione tanto consolidata, quanto, tuttavia, esasperata dell'art. 75, comma 2, della Costituzione; ed invero, a rigore l'iniziativa referendaria dovrebbe essere preclusa solo per le leggi di «autorizzazione a ratificare trattati internazionali», ma non anche per le leggi che sono state emesse per dare attuazione a norme convenzionali o internazionali: da decenni, invece, la Corte costituzionale statuisce che l'abrogazione referendaria non può interessare neppure «quelle norme la cui emanazione è, per così dire, imposta» dagli obblighi internazionali, «per le quali, dunque, non vi sia margine di discrezionalità quanto alla loro esistenza e al loro contenuto, ma solo l'alternativa tra il dare esecuzione all'obbligo assunto sul piano internazionale e il violarlo, non emanando la norma o abrogandola dopo averla emanata» (in questi termini la sentenza n. 27 del 10 febbraio 1997, con la quale la Corte dichiarò inammissibile il referendum con il quale si intendevano liberalizzare le attività preliminari e connesse all'uso personale della canapa indiana e dei suoi derivati; con motivazioni sostanzialmente sovrapponibili, analoga iniziativa referendaria era stata in passato frustrata, con la sentenza n. 30 del 13 febbraio 1981).

Meno controvertibili appaiono gli altri due argomenti sviluppati dalla Consulta.

Il quesito relativo alla coltivazione appare, invero, connotato dal riscontrato difetto di chiarezza ed univocità, per un verso perché nasconde la sua reale portata, non essendo di immediata comprensione il diretto rifluire del ritaglio referendario sulle condotte di coltivazione delle piante dalle quali si estraggono eroina e cocaina, e per altro verso perché lascia intendere ciò che in effetti non è, rimanendo, comunque, immutata l'incriminabilità di ogni condotta di coltivazione, attesa la persistente vigenza dell'art. 28 del Testo Unico; alla “grave” contraddizione messa in luce dalla Corte, idonea a pregiudicare la chiarezza e la comprensibilità del quesito per l'elettore, e, dunque, la sua libertà di esprimere un voto consapevole, deve, peraltro, aggiungersi l'ulteriore considerazione relativa alla sostanziale superfluità dell'iniziativa referendaria, poiché l'intenzione dei promotori di escludere dall'area dell'incriminazione le piccole coltivazioni domestiche di cannabis, impiantate dal tossicofilo al fine di ricavare la sostanza stupefacente da destinare al suo consumo personale, è stata di fatto già realizzata grazie ai principi di diritto scolpiti dalla già citata sentenza Caruso, oramai univocamente e quotidianamente applicati nei tribunali di merito e dalla Suprema corte.

Il quesito relativo alla rimozione della sanzione detentiva prevista dal quarto comma dell'art. 73 è, invece, viziato da una palese “contraddittorietà”, poiché la sua eventuale approvazione avrebbe provocato una “irriducibile antinomia” sistematica, tale per cui fatti indubbiamente in grado di incidere in maniera più grave il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice (quelli “ordinari”, puniti dal quarto comma dell'art. 73, e quelli aggravati alla luce della “ingente quantità” dello stupefacente compravenduto, puniti dal secondo comma dell'art. 80), sarebbero stati sanzionati in maniera più mite rispetto ai fatti di “lieve entità”, incriminati dal quinto comma dell'art. 73: ed invero, mentre questi ultimi sono, ed avrebbero continuato ad essere, puniti con la pena pecuniaria ed anche con quella detentiva, i primi, pur se più gravi, sarebbero stati puniti - in caso di vittoria dei “sì” - con la sola pena pecuniaria. L'esito positivo del referendum avrebbe, dunque, inopinatamente condotto a punire la cessione di un paio di dosi di marijuana più severamente rispetto all'importazione di molte tonnellate della medesima sostanza, ed avrebbe, altresì, introdotto un ulteriore profilo di contrasto con le richiamate disposizioni comunitarie, che impongono di punire le violazioni più gravi con la pena detentiva.

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