Successione di posizioni di garanzia: accertamento del nesso causale

Vittorio Nizza
01 Luglio 2022

La questione sottoposto alla Corte di cassazione riguarda la corretta applicazione dell'art. 40 cpv c.p. in particolare per ciò che riguarda i reati omissivi impropri in ambito di responsabilità medica e qualora vi sia una successione di posizione di garanzia.
Massima

In tema di successione di posizioni di garanzia, quando l'obbligo di impedire l'evento connesso ad una situazione di pericolo grava su più persone obbligate ad intervenire in tempi diversi, l'accertamento del nesso causale rispetto all'evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia, stabilendo che cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti.

Il caso

La sentenza in oggetto vedeva imputati per omicidio colposo due medici, operanti in due diversi ospedali, intervenuti successivamente sulla cura della paziente. In particolare la signora veniva ricoverata nel reparto di anestesia e rianimazione e terapia intensiva dell'ospedale di Lamezia Terme per insufficienza respiratoria acuta. Qui veniva sottoposta a incannulazione di una vena periferica e posizionamento di CVC in vena femorale destra con terapia antitrombotica. Terapia che veniva proseguita anche a seguito del trasferimento nel reparto di medicina interna, trattandosi di paziente obesa, con disturbi psichiatrici costretta ad allettamento prolungato. In data 11.05.12, a seguito di richiesta dei familiari, la paziente veniva dimessa per essere trasferita al nosocomio di Cosenza. La scheda di dimissioni firmata dal dott. V, imputato, non riportava la terapia terapeutica antitrombotica in atto né la presenza del CVC.

Stante il complesso quadro clinico, il primario del reparto di Psichiatria di Cosenza, ove veniva ricoverata la persona offesa per sindrome depressiva, in data 12.05.12 richiedeva una consulenza internistica urgente al dott. F, l'altro imputato. Il dott. F si soffermava unicamente sugli aspetti dell'artrite reumatoide, impostando la terapia farmacologica senza alcun riferimento alla presenza del CVC. Dopo 3 giorni dal ricovero, gli infermieri provvedevano alla rimozione del CVC sostituendolo con un bendaggio compressivo che causava dolore alla paziente. Ad una settimana dal ricovero veniva richiesta una nuova consulenza internistica e il medico intervenuto, a seguito di effettuazione di ecodoppler, evidenziava una trombosi venosa profonda alla femorale destra con prescrizione di terapia antitrombotica con eparina. Nei giorni successivi veniva richiesta ulteriore consulenza chirurgica vascolare con effettuazione di ecodoppler e rx per sospetta embolia polmonare in trombosi. Il 23.05.12 la paziente decedeva per “tromboembolia polmonare massiva da trombosi della vena femorale con blocco del flusso polmonare impedimento della pompa cardiaca e collasso cardiaco destro”.

Venivano pertanto imputati il dott. V. dell'Ospedale di Lamezia Terme per non aver riportato al momento delle dimissioni il piano terapeutico in atto con riferimento alla profilassi eparinica in relazione al CVC ed alle disposizioni relative alla manutenzione del catetere. Inoltre veniva imputato il dott. F. dell'Ospedale di Cosenza, intervenuto quale primo consulente internistico, per aver omesso di valutare il CVC occupandosi solo dell'artrite reumatoide, senza menzionare nulla in merito alle cautele da adottare per la rimozione del catetere né alla terapia di prevenzione eparinica.

Secondo la ricostruzione accusatoria, la sospensione della terapia eparinica e della gestione accurata del catetere per 10 giorni aveva avuto un valore cruciale nel determinismo della trombosi venosa femorale e della grave tromboembolia polmonare che avevano causato la morte della paziente. Le terapie epariniche somministrate dopo il 19 maggio seppur adeguate non erano state sufficiente ad evitare le complicanze letali.

La Corte d'appello, in riforma della sentenza di primo grado, assolveva entrambi i medici. Secondo la Corte la condotta del dott. V. era connotata da colpa lieve in quanto costituiva prassi ospedaliera non riportare nel foglio delle dimissioni il piano terapeutico. Il medico, infatti, aveva fatto affidamento sulla corretta presa in carico da parte dei colleghi dell'ospedale di Cosenza sulla base dei dati clinici ed anamnestici comunque messi a loro disposizione. Inoltre, secondo la Corte territoriale mancava la prova dell'incidenza causale della condotta omissiva ascritta all'imputato sul successivo decorso causale in quanto non era certo che l'adempimento dell'obbligo informativo (comportamento alternativo lecito) avrebbe orientato diversamente la condotta dei sanitari cosentini.

Con riferimento alla posizione del dott. F., pur qualificando la sua condotta come colpa grave, tuttavia aveva ritenuto che l'intervento di altri fattori sopravvenuti, quali la rimozione dal CVC da parte del personale infermieristico non qualificato, l'applicazione del bendaggio compressivo in assenza di terapia antitrombotica e per un periodo di tempo superiore al massimo previsto da linee guida e prassi chirurgica, avesse inciso sul determinismo causale della formazione del trombo così da non potersi ritenersi sufficientemente provata l'efficacia condizionante della condotta dell'imputato.

Avverso la sentenza della Corte d'appello proponevano ricorso le parti civili.

La questione

La questione sottoposto alla Corte di cassazione a seguito del ricorso proposto delle parti civili riguarda la corretta applicazione dell'art. 40 cpv c.p. in particolare per ciò che riguarda i reati omissivi impropri in ambito di responsabilità medica e qualora vi sia una successione di posizione di garanzia.

Le soluzioni giuridiche

Nel caso di specie la Suprema Corte viene chiamata a valutare la condotta di due sanitari intervenuti in due differenti momenti nella cura della paziente. Si trattava di una paziente con un quadro clinico complesso ricoverata inizialmente presso l'ospedale di Lamezia Terme con una diagnosi di insufficienza respiratoria acuta e poi trasferita presso il reparto psichiatrico del nosocomio di Cosenza.

Del decesso della paziente venivano imputati due dei medici che l'avevano avuta in cura, il dott. V che l'aveva dimessa dall'ospedale di Lamezia Terme non avendo indicato nella lettera di dimissioni la terapia antitrombotica in corso né la presenza del CVC e il dott. F, lo specialista chiamato a consulto quando ormai la signora era ricoverata a Cosenza, per non aver valutato il rischio trombotico e aver effettuato unicamente una consulenza reumatologica. Secondo la ricostruzione accusatoria, condivisa dal giudice di prime cure, la complicanza trombotica che aveva portato al decesso della paziente era prevedibile ed evitabile (o comunque i suoi effetti potevano essere ridotti) se la terapia eparinica non fosse stata interrotta dopo le dimissioni dal primo nosocomio e non più ripresa per circa 10 giorni presso l'ospedale di Caserta a causa del comportamento dei due imputati.

La Corte d'appello in riforma della sentenza di primo grado aveva ritenuto che seppure la condotta dei due medici fosse connotata da colpa (lieve quella del dott. V e grave quella del dott. F) erano intervenuti dei fattori causali ulteriori successivi indipendenti tali interrompere il nesso causale tra le condotte degli imputati e l'evento morte.

La Corte di cassazione censurava tale impostazione ritenendo la sentenza di secondo grado carente di motivazione in ordine alla ricostruzione del nesso causale. In materia di reati omissivi impropri, evidenziano i supremi giudici, l'accertamento della riferibilità causale dell'evento lesivo alla condotta deve essere effettuato in considerazione della sequenza fenomenologica indicata nel capo di imputazione. Trattandosi di responsabilità medica, pertanto, occorre considerare nel giudizio controfattuale la specifica attività richiesta al sanitario come doverosa. Nell'effettuazione del giudizio controfattuale per valutare l'eventuale effetto salvifico delle cure omesse occorre basarsi su affidabili informazioni scientifiche che comprendano: l'andamento abituale della patologia in concreto accertata, l'efficacia delle terapie, i fattori in grado di influenzare gli sforzi terapeutici.

Precisava ancora la Suprema Corte come nel caso di specie i giudici di secondo grado non avessero correttamente applicato l'art. 40 cpv c.p. ossia non avessero proceduto in maniera conforma all'interpretazione di detta norma nella valutazione dell'accertamento della riferibilità materiale dell'evento alla condotta contestata. In ipotesi di omicidio colposo, il nesso di causalità tra la condotta omissiva del medico e il decesso del paziente, secondo la giurisprudenza ormai consolidata, sussiste quando risulti accertato «secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minor intensità lesiva».

La Corte valuta infine come nel caso di specie vi sia stata una successione di posizioni di garanzia, in quanto i due imputati si sono entrambi intervenuti in momenti differenti nella cura della paziente. In tali ipotesi, l'accertamento del nesso causale deve essere effettuato per ciascuna posizione, verificando cosa sarebbe accaduto se ogni singolo garante avesse tenuto la condotta doverosa omessa e altresì verificando se la situazione di pericolo non si sia modificata a causa del tempo trascorso o del comportamento dei successivi garanti intervenuti.

Alla luce di talli considerazione, La Corte di cassazione, in accoglimento del ricorso proposto dalle parti civili, annullava la sentenza ai soli effetti civili con rinvio al giudice civile competente.

Osservazioni

Nella sentenza in commento la Corte di cassazione torna nuovamente a pronunciarsi sulla problematica della ricostruzione del nesso di causalità nelle ipotesi di reati omissivi impropri nel peculiare settore della colpa medica. Il caso di specie riguardava le condotte di due sanitari intervenuti in momenti diversi e distinti nella cura della medesima paziente poi deceduta. Secondo la ricostruzione accusatoria entrambe le condotte avevano avuto un'incidenza causale del decorso clinico della paziente fino al suo decesso. Si trattava pertanto anche di valutare le due distinte posizioni di garanzia in un'ipotesi, assai frequente nell'ambito della responsabilità medica, di un'attività medica posta in essere da più sanitari non contestualmente ma in maniera diacronica, ossia attraverso atti medici successivi. Si trattava pertanto di una successione di posizioni di garanzia in cui occorreva valutare l'incidenza della condotta di ciascuno sull'evento lesivo.

In ambito medico è frequente il coinvolgimento di più medici, anche di specializzazioni differenti, nella cura del paziente che pertanto assumono nei confronti di questo una posizione di garanzia. Può trattarsi di un intervento sincronico, come avviene negli interventi d'equipe, o diacronico, con il susseguirsi dei sanitari coinvolti in momenti differenti, come nel caso di specie. Al fine di individuare la specifica responsabilità dei singoli medici intervenuti è stato elaborato il principio di affidamento, sulla base del quale ciascuno risponde nei limiti del proprio operato potendo confidare sul fatto che gli altri sanitari intervenuti a loro volta operino nel rispetto delle leges artis. Tuttavia tale principio non è invocabile da colui che versi in colpa per aver violato una regola precauzionale, non potendo confidare nel fatto che chi interverrà dopo di lui vada ad emendare il suo errore. Il caso in esame, come indicato anche nel ricorso della parte civile, rientrerebbe proprio in tale ipotesi di non applicabilità del principio suddetto, essendo pacifico – come riconosciuto anche dalla stessa Corte d'appello – che entrambi gli imputati avessero posto in essere condotte ritenute colpose.

Nel caso in oggetto, trattandosi di successione di posizioni di garanzia, poiché l'obbligo di impedire l'evento gravava su più soggetti obbligati intervenuti in tempi diversi, l'accertamento del nesso causale, quindi, doveva essere effettuato con specifico riferimento alla singola condotta ed al ruolo rivestito da ciascun garante.

L'accertamento rimesso ai supremi giudici riguardava proprio la problematica della valutazione del nesso eziologico. La Corte d'appello infatti aveva riformato la sentenza di primo grado ritendo che, per quanto le condotte di entrambi gli imputati fossero colpose, tuttavia erano subentrati dei fattori esterni successivi tali da interrompere il nesso di causa.

La Suprema Corte richiamava l'orientamento consolidato in materia, con specifico riferimento ai reati omissivi impropri in ambito sanitario, secondo il quale sussiste il nesso di causa tutte le volte in cui risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o legge scientifica, non solo che l'evento lesivo non si sarebbe verificato, ma anche che si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minor intensità lesiva. Per l'effettuazione di tale valutazione occorre verificare la specifica attività richiesta al sanitario coinvolto (diagnostica, terapeutica, di salvaguardia e vigilanza dei parametri vitali del paziente o altro) e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare l'evento lesivo con alto grado di credibilità razionale. Per poter effettuare il giudizio controfattuale occorre conoscere non solo le informazioni scientifiche sulla patologia del paziente ma anche tutte le contingenze significative del caso concreto. In particolare, ha specificato la Corte come «in tema di colpa nell'attività medico chirurga, il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l'effettivo rilievo condizionante della condotta umana (nella specie: l'effetto salvifico delle cure omesse) si deve fondare su affidabili informazioni scientifiche nonché sulle contingenze significative del caso concreto, dovendosi comprendere a) qual è solitamente l'andamento della patologia in concreto accertata; b) qual è normalmente l'efficacia delle terapie; c) quali sono i fattori che solitamente influenzano il successo degli sforzi terapeutici». Qualora vengano in considerazione le condotte di più garanti intervenuti in tempi diversi l'accertamento deve essere effettuato con riguardo alla singola posizione, verificando cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, considerando altresì se la situazione di pericolo non si sia verificata per effetto del tempo o di un comportamento di successivi garanti.

Nel caso di specie era stato accertato l'incidenza causale della sospensione della terapia antitrombotica per 10 giorni rispetto al decesso della paziente dovuta alle condotte degli imputati. La sospensione infatti si era protratta dal momento delle dimissioni dall'ospedale di Lamezia Terme, a causa della mancata indicazione di tale prescrizione nella lettera di dimissioni redatta dall'imputato dott. V., fino alla rivisita di una seconda visita specialista presso il nosocomio di Caserta, poiché il primo specialista consultato, l'imputato dott. F., non aveva minimamente considerato l'aspetto di un rischio trombotico. Tuttavia la Corte d'appello aveva ritenuto di mandare assolti gli imputati in quanto il decesso della paziente sarebbe stato da imputare ad altri fattori causali sopravvenuti. Secondo la Corte di Cassazione, tuttavia, il ragionamento della Corte d'Appello non risultava conforme ai principi già esposti in materia di accertamento causale non essendo supportato da un adeguato percorso logico motivazionale né da un'adeguata analisi del ruolo salvifico del comportamento alternativo corretto che sarebbe stato esigibile dagli imputati. La stessa decisione evidenzia anche come i giudici di secondo grado, avendo pronunciato una sentenza di totale riforma della decisione appellata, pur non essendo obbligati alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, avrebbero dovuto delineare le linee portanti del loro alternativo ragionamento probatorio e confutare specificatamente gli argomenti della motivazione della prima sentenza, così da giustificarne la riforma, non potendosi limitare – come invece ammesso in caso di conferma della sentenza appellata – a richiamarsi alle motivazione del primo giudice con una generica critica.

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