Agevolazione della latitanza di esponente di spicco di associazione mafiosa e configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 7, d.l. 152/1991

Antonio Corbo
03 Settembre 2015

Discussa risulta in giurisprudenza la questione se l'attività agevolativa della latitanza del capo-mafia possa, di per sé, ritenersi finalizzata ad agevolare l'attività dell'associazione nel suo complesso, ed integri, quindi, anche la circostanza aggravante prevista dall'art. 7, d.l. 152/1991, convertito in legge n. 203 del 1991, o se, invece, per ritenere la sussistenza di tale finalità sia necessario accertare in concreto la oggettiva funzionalità del contributo all'attività dell'associazione. Accanto alle due tesi in contrapposizione radicale, sono state prospettate anche soluzioni intermedie. La tipologia di problema affrontato, inoltre, fa sì che la questione si riproponga, in termini analoghi, anche in relazione ad altre fattispecie di reato (ad esempio, la rapina) commesse al fine di agevolare la latitanza di un esponente di vertice del sodalizio.
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La Sez. II della Corte di cassazione, con sentenza del 12 febbraio 2014, n. 15082, ha affermato che “In tema di favoreggiamento personale, sussiste l'aggravante di cui all'art. 7, d.l. 152/1991, conv. in l. 203/1991, qualora la condotta favoreggiatrice diretta ad aiutare taluno a sottrarsi alle ricerche dell'autorità sia posta in essere a vantaggio del capo clan, operante in un ambito territoriale nel quale la sua notorietà si presume diffusa, perché essa, sotto il profilo oggettivo, concretizza un aiuto all'associazione, la cui operatività sarebbe compromessa dall'arresto dell'apice dirigenziale, mentre, sotto il profilo soggettivo, in quanto caratterizzata dal consapevole aiuto prestato al capo mafia, è indiscutibilmente sorretta dall'intenzione di favorire anche l'associazione”.

Si tratta dell'ultima affermazione massimata di un principio controverso in giurisprudenza, e che si inserisce in un più vasto ambito riguardante la configurabilità dell'art. 7, d.l. 152/1991 con riferimento alle attività agevolative della latitanza del capo-mafia e che si è posto, in termini omogenei, anche in relazione ai delitti di procurata inosservanza di pena, di falsità in atti, di rapina e di estorsione.

La questione è la seguente: se l'attività agevolativa della latitanza del capo-mafia possa, di per sé, ritenersi finalizzata ad agevolare l'attività dell'associazione nel suo complesso o se, invece, per ritenere la sussistenza di tale finalità occorre un quid pluris.

Secondo l'orientamento cui aderisce la sentenza appena indicata, la condotta favoreggiatrice posta in essere a vantaggio del capo clan, operante in un ambito territoriale nel quale la sua notorietà risulta diffusa, e diretta ad aiutarlo a sottrarsi alle ricerche dell'autorità, è sufficiente ad integrare l'aggravante di cui all'art. 7, d.l. 152/1991. A fondamento di tale conclusione si osserva che l'indicata condotta, sotto il profilo oggettivo, costituisce un aiuto all'associazione, perché l'operatività di questa sarebbe compromessa dall'arresto del suo vertice dirigenziale, mentre, sotto il profilo soggettivo, implica la consapevolezza e l'intenzione che, tramite l'aiuto prestato al capo mafia, si favorisce anche l'associazione, agevolando la sua ‘funzionalità'.

Nel medesimo senso, tra le tante, si possono indicare: Cass. pen., Sez. V, 30 novembre 2010, n. 6199; Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2009, n. 41063; Cass. pen., Sez. V, 6 ottobre 2004, n. 43443; Cass. pen., Sez. V, 25 febbraio 2015, n. 26699.

In particolare, Cass. pen., Sez. II, 26 maggio 2011, n. 26589, muove dalla premessa che l'aggravante “agevolativa” ricorre quando l'attività dell'agente sia diretta in favore delle risorse personali o materiali della organizzazione mafiosa, agevolandone, così, in tutto o anche solo in parte, l'attività o il suo mantenimento funzionale; di conseguenza, l'aver favorito la latitanza di "elementi di assoluto spicco" di una determinata cosca mafiosa, costituendo un contributo alla preservazione del vertice dirigenziale della cosca, avvantaggia l'intera consorteria. Cass. pen., Sez. V, 24 giugno 2009, n. 41063, in termini analoghi, ha ritenuto la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7, d.l. 152/1991, evidenziando che "l'aiuto al capo per dirigere da latitante l'associazione concretizz[a] un aiuto all'associazione, la cui operatività sarebbe compromessa dal suo arresto, mentre, sotto il profilo soggettivo, non può revocarsi in dubbio l'intenzione del favoreggiatore di favorire anche l'associazione allorché risulti che abbia prestato consapevolmente aiuto al capomafia". Cass. pen., Sez. V, 30 novembre 2010, n. 6199, ancora, ha accolto la medesima soluzione in una fattispecie nella quale i favoreggiatori avevano ospitato, per rilevanti periodi di tempo, presso immobili nella loro disponibilità, esponenti di spicco di Cosa Nostra, favorendone così la latitanza. Cass. pen., Sez. V, 25 febbraio 2015, n. 26699, infine, ha ravvisato una conferma dell'automatismo nell'applicazione dell'aggravante dall'accertamento che, durante il periodo di detenzione del soggetto “aiutato”, si erano verificate delle difficoltà di funzionamento del sodalizio.

Come si è segnalato in premessa, la validità dell'automatismo, secondo cui l'aiuto fornito al capo si concretizza in agevolazione anche dell'intera associazione, è stato ribadito anche con riferimento ad altre fattispecie delittuose.

Tra le diverse pronunce in tal senso, appare utile richiamare Cass. pen., Sez. V, 5 marzo 2013, n. 17979, in tema di estorsione, nonché Cass. pen., Sez. VI, 2 luglio 2014, n. 45065, in materia di rapina (nella specie la sottrazione aveva avuto ad oggetto un'autovettura con cui favorire la latitanza del soggetto apicale del sodalizio). Sembra interessante rilevare che, a fondamento della soluzione affermativa della configurabilità dell'aggravante ex art. 7, d.l. 152/1991, Cass. pen., Sez. VI, 2 luglio 2014, n. 45065 ha evidenziato che la condotta diretta a favorire la latitanza del capo, in quanto diretta alla preservazione del vertice, finisce col favorire l'intera consorteria, garantendone la guida, la permanenza in vita e la realizzazione del programma criminale.

Un contrapposto indirizzo, seguito anch'esso da diverse decisioni, invece, afferma che è necessario distinguere l'aiuto prestato alla persona da quello prestato all'associazione. In altri termini, la condotta di agevolazione della latitanza del capomafia potrà rilevare ai fini dell'aggravante di cui all'art. 7, d.l. 152/1991 solo quando si accerti in concreto la oggettiva funzionalità di essa rispetto all'agevolazione dell'attività riconducibile alla relativa organizzazione criminale.

In questi termini risultano orientate, in particolare, Cass. pen., Sez. VI, 27 ottobre 2005, n. 41261, e Cass. pen.,Sez. VI, 8 novembre 2007, n. 294.

Secondo queste decisioni, ritenere che la protezione della latitanza di un personaggio di vertice del sodalizio criminoso avrebbe diretta influenza sull'esistenza del medesimo organismo che, privato del capo, verrebbe a subire una crisi funzionale, non può costituire una presunzione assoluta: è perciò necessario accertare il nesso teleologico tra l'azione in favore del personaggio mafioso di spicco ed il potenziale vantaggio che ne possa derivare all'organizzazione criminale.

L'indirizzo in questione trova anch'esso una significativa applicazione giurisprudenziale con riferimento a fattispecie diverse da quella di cui all'art. 378 c.p., nelle quali la condotta è diretta a favorire la latitanza del capomafia.

Tra tali decisioni, possono segnalarsi: Cass. pen.,Sez. VI, 11 febbraio 2008, n. 19300 e Cass. pen.,Sez. VI, 28 febbraio 2008, n. 13457, entrambe in tema di procurata inosservanza di pena, nonché Cass. pen.,Sez. V, 22 novembre 2013, n. 4037, in materia di reati di falso. In particolare, quest'ultima ha ritenuto necessaria, ai fini della sussistenza dell'aggravante prevista dall'art. 7, d.l. 152/1991, la verifica in concreto dell'effettiva ed immediata coincidenza degli interessi del capomafia con quelli dell'organizzazione e, proprio in applicazione di tale principio, ha escluso che la circostanza in questione potesse essere ravvisata in relazione ad una serie di falsificazioni di atti, complessivamente preordinate a consentire il riconoscimento della paternità ad un soggetto latitante che rivestiva una posizione apicale nella consorteria mafiosa di appartenenza, atteso che la condotta risultava diretta esclusivamente a sottrarre il predetto al rischio della personale sua esposizione negli uffici comunali.

Una soluzione intermedia risulta dichiaratamente indicata da Cass. pen.,Sez. VI, 10 dicembre 2013, n. 9735. Questa decisione, soffermandosi sui due contrapposti orientamenti, ne evidenzia un grado di diversità meno marcato di quanto possa sembrare all'apparenza, ritenendo necessario distinguere il piano strettamente normativo da quello probatorio. Rileva, invero, come sia comune ad ambedue gli indirizzi esegetici il principio per il quale affinché un fatto di favoreggiamento possa dirsi aggravato a norma dell'art. 7, d.l. cit. è necessario che la condotta, quale che sia la posizione associativa del favorito, valga oggettivamente ad agevolare anche l'attività dell'organizzazione mafiosa di riferimento e che di tale obiettiva funzionalità l'agente sia consapevole. Ritiene, però, di non poter individuare un criterio valutativo unico, valido per tutte le fattispecie, in quanto la questione in esame costituisce un tipico caso ove non sempre è agevole distinguere l'opzione interpretativa della disposizione normativa dalla regola di esperienza che può governare l'identificazione di aspetti rilevanti del fatto. A titolo esemplificativo, rappresenta che, se non si può dubitare che il prolungato ed indispensabile sostegno alla latitanza di un capo si risolve in condizione indispensabile per l'esercizio della sua funzione direttiva e, dunque, in ausilio per l'attività dell'organizzazione, al contrario, un contributo episodico, magari pertinente ad aspetti personali della vita del favorito, potrebbe essere considerato in senso opposto.

La sentenza in discorso ha così affermato il principio secondo cui, per la configurabilità nel reato di favoreggiamento dell'aggravante speciale prevista dall'art. 7, d.l. cit., è necessario – quale che sia la posizione associativa del favorito – che la condotta valga oggettivamente ad agevolare anche l'attività dell'associazione mafiosa di riferimento e che di tale obiettiva funzionalità l'agente sia consapevole. Ha poi aggiunto che la verifica della funzionalità della condotta di favoreggiamento del capomafia rispetto alla agevolazione dell'attività del sodalizio dovrà essere compiuta alla luce delle caratteristiche del caso concreto: a tal proposito, allora, potranno soccorrere, nel ragionamento probatorio del giudice, taluni criteri, quali il ruolo direttivo eventualmente svolto dal soggetto favorito e la natura della prestazione offerta dall'agente. Ha quindi ritenuto, in applicazione degli indicati principi, che correttamente la sentenza impugnata avesse affermato la sussistenza dell'aggravante in relazione ad indagato che aveva procurato ad un soggetto latitante, investito di posizione apicale in un sodalizio di stampo mafioso, un'abitazione in cui alloggiare per settimane senza destare sospetti, ed aveva inoltre svolto per lo stesso mansioni di autista.

La soluzione appena indicata risulta, nel corso del presente anno, espressamente condivisa e testualmente ripresa da Cass. pen.,Sez. II, 27 gennaio 2015, n. 4386, in materia di procurata inosservanza di pena.

Per completezza, occorre registrare anche una soluzione che potrebbe apparire ancora diversa, sia pure se dettata per un caso sicuramente peculiare.

Invero, secondo Cass. pen.,Sez. VI, 6 dicembre 2011, n. 5909, l'aiuto prestato a favore del massimo esponente di vertice di Cosa Nostra durante la sua latitanza, consistito in interventi volti sia a garantirgli le cure necessarie al suo stato di salute sia a consentirgli il mantenimento della sua capacità gestionale, fungendo da canale per i collegamenti epistolari con altri associati integra il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa e non quello di favoreggiamento personale aggravato ex art. 7, d.l. 152/1991.

Ai fini di una esatta comprensione del principio affermato, sembra importante rilevare che l'arresto giurisprudenziale, da un lato, ha messo in evidenza che “un importante aiuto diretto … al massimo esponente di vertice di Cosa nostra” determina “riflessi ovvi e immediati … per l'attività dell'organizzazione criminale”; dall'altro, però, ha anche evidenziato che l'attività che l'agente aveva svolto come canale di collegamento tra il “favorito” ed altri esponenti del sodalizio si traduceva “in termini di deliberata cooperazione alla vita e all'attività dell'associazione”.

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