Sull'obbligo della Corte di appello di giustificare l'omesso esercizio dei poteri officiosi ex art. 597, ultimo comma, c.p.p.

Francesca Del Villano
06 Settembre 2019

Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione sono chiamate a dirimere il contrasto interpretativo sull'art. 597, ultimo comma, c.p.p., che verte, in particolare, sull'obbligo della Corte di appello di dar conto del concreto esercizio...
1.

Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione sono chiamate a dirimere il contrasto interpretativo sull'art. 597, ultimo comma, c.p.p., che verte, in particolare, sull'obbligo della Corte di appello di dar conto del concreto esercizio, positivo o negativo, del dovere di applicare d'ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena in assenza di specifica richiesta.

L'art. 597, ultimo comma, c.p.p. attribuisce alla Corte di appello il potere di applicare, anche d'ufficio, la sospensione condizionale della pena, la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e una o più circostanze attenuanti, nonché la possibilità di effettuare, quando occorre, il giudizio di comparazione a norma dell'art. 69 c.p.

Si tratta di una evidente eccezione alla regola che attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti (art. 597, comma 1, c.p.p.; sulla natura eccezionale della deroga, non suscettibile di estensioni analogiche, cfr. Cass. pen., Sez. unite, n. 12872/2017, Punzo; e Cass. pen., Sez. unite, n. 7346/1994, Magotti). I benefici di cui all'ultimo comma dell'art. 597 c.p.p. possono, infatti, essere applicati anche se non richiesti (purché sia impugnato il relativo capo della sentenza). Si tratta, come affermava la Relazione ministeriale al progetto preliminare del codice di procedura penale, di «una ulteriore implicita devoluzione, al pari di altre forme di devoluzione implicita sempre riconosciute in tema di competenza e di nullità insanabili» (oggetto di devoluzione implicita, infatti, sono: la verifica immanente e persistente della giurisdizione del giudice ordinario ex art. 20 c.p.p., la competenza per materia del giudice “inferiore” ex artt. 21, comma 1, e 23, comma 2, c.p.p., la sussistenza di cause di non punibilità di cui all'art. 129 c.p.p., le nullità assolute e insanabili e le inutilizzabilità patologiche delle prove).

Non sono oggetto di devoluzione implicita la specie o la misura della pena (sempre che mutamenti normativi sopravvenuti non ne impongano la modifica ai sensi dell'art. 2, comma 4, c.p., ovvero che la pena applicata dal primo giudice non sia illegale a danno dell'imputato, anche in conseguenza di sentenze della Corte costituzionale) né l'applicabilità delle sanzioni sostitutive (arg. ex art. 597, comma 1, c.p.p.; cfr., sul punto, Cass. pen., Sez. unite, n. 12872/2017, Punzo, cit., secondo cui il giudice di appello non ha il potere di applicare d'ufficio le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi se nell'atto di appello non risulta formulata alcuna specifica e motivata richiesta con riguardo a tale punto della decisione, dal momento che l'ambito di tale potere è circoscritto alle ipotesi tassativamente indicate dall'art. 597, comma 5, c.p.p., che costituisce una eccezione alla regola generale del principio devolutivo dell'appello e che segna anche il limite del potere discrezionale del giudice di sostituire la pena detentiva previsto dall'art. 58 della l. 689/1981.).

Sull'argomento si rendono opportune alcune precisazioni.

  • In primo luogo il principio di devoluzione implicita, poiché riguarda i punti della decisione, non opera se tali punti afferiscono ad un capo della sentenza non impugnato (cfr., sul punto, Cass. pen., Sez. unite, n. 1/2000, Tuzzolino).
  • In secondo luogo, se il giudice di primo grado ha espressamente escluso la applicazione dei benefici ovvero delle circostanze attenuanti di cui all'art. 597, ultimo comma, c.p.p., l'imputato ha l'onere di impugnare i relativi punti della decisione, non operando in questi casi il principio devolutivo implicito.
  • In terzo luogo, il giudizio di comparazione tra circostanze è subordinato all'applicazione di ufficio da parte del giudice di appello di circostanze attenuanti (Cass. pen., Sez. unite, n. 7346/1994, Magotti).

Il punto controverso riguarda l'obbligo della Corte di appello di dare conto del concreto esercizio, positivo o negativo, del dovere di applicare d'ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena. Benché la questione sia circoscritta al beneficio della sospensione è evidente che dalla sua soluzione dipende l'applicazione dell'intero quinto comma dell'art. 597 c.p.p.

Secondo un primo indirizzo il giudice d'appello non è tenuto a concedere d'ufficio la sospensione condizionale della pena né a motivare specificamente sul punto, quando l'interessato si limiti, nell'atto di impugnazione e in sede di discussione, ad un generico e assertivo richiamo dei benefici di legge, senza indicare alcun elemento di fatto astrattamente idoneo a fondare l'accoglimento della richiesta (Cass. pen., Sez. VII, n. 16746/2015, Ciaccia; Cass. pen., Sez. IV, n. 1513/2013, Shehi; Cass. pen., Sez. IV, n. 43113/2012, Siekierska; Cass. pen., Sez. VI, n. 30201/2011, Ferrante; Cass. pen., Sez. VI, n. 7960/2004, Calluso e Cass. pen., Sez. V, n. 41126/2001, Casamassima, in tema, analogo, di circostanze attenuanti generiche; Cass. pen., Sez. V, n. 496/1998, Bonotti; Cass. pen., Sez. V, n. 1099/1997, Pirri).

Un secondo indirizzo sostiene, invece, che il giudice d'appello deve, sia pure sinteticamente, dare ragione del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere attribuitogli dall'art. 597, comma 5, c.p.p., «qualora ricorrano le condizioni previste dalla legge per l'applicazione della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, tanto più quando una delle parti (anche il pubblico ministero nell'interesse dell'imputato) ne abbia fatto esplicita richiesta, con riferimento a dati di fatto astrattamente idonei all'accoglimento della richiesta stessa». Ne consegue che sussistono la legittimazione e l'interesse dell'imputato a dolersi, in sede di legittimità, del mancato esercizio di tale potere-dovere da parte del giudice d'appello, purché siano indicati dal ricorrente gli elementi di fatto in base ai quali il giudice avrebbe potuto ragionevolmente e fondatamente esercitarlo (Cass. pen., Sez. III, n. 47828/2017; Cass. pen., Sez. III, n. 3856/2015; Cass. pen., Sez. V, n. 2094/2009, Coluccio; Cass. pen., Sez. V, n. 37461/2005, Zoffoli; Cass. pen., Sez. VI, n. 32966/2001, Colbertard).

I due indirizzi convergono sulla necessità della astratta sussistenza delle condizioni di applicazione della sospensione condizionale della pena e, dunque, in buona sostanza sulla sussistenza del concreto interesse dell'imputato a lamentarsi dell'omessa motivazione; ove tali condizioni non sussistono (e comunque non vengono nemmeno dedotte in sede di legittimità), il giudice dell'appello non è tenuto a giustificare l'omesso esercizio delle prerogative che l'art. 597, ultimo comma, c.p.p., gli assegna d'ufficio. Al contrario, se le condizioni per la astratta applicazione del beneficio sussistono, è comunque necessario, secondo alcune pronunce, l'impulso proveniente dall'imputato ai fini dell'esercizio del potere di applicare d'ufficio la sospensione condizionale della pena, con conseguente obbligo di motivare la decisione solo in presenza della richiesta dell'imputato stesso; secondo altre, invece, tale impulso non è richiesto sicché il giudice dell'appello è obbligato a motivare comunque le ragioni della propria decisione, qualunque essa sia.

2.

Con ordinanza n. 38398 del 17 aprile 2018 (dep. il 09/08/2018) la Terza Sezione penale della Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni Unite penali la risoluzione della seguente questione di diritto: «se il giudice dell'appello deve rendere conto del concreto esercizio, positivo o negativo, del dovere attribuitogli dall'art. 597, comma 5, cod. proc. pen., di applicare d'ufficio il beneficio della sospensione condizionale della pena in assenza di specifica richiesta».

Nel caso oggetto di devoluzione alle Sezioni unite, le condizioni astratte per l'applicazione della sospensione della pena sussistevano, in considerazione dell'entità della pena applicata, della sua determinazione in corrispondenza del minimo edittale e della applicazione delle circostanze attenuanti generiche, della dedotta assenza di precedenti penali. L'imputato era stato condannato in primo grado ad una pena superiore al limite previsto per la concessione del beneficio, pena ridotta dalla corte di appello al di sotto di tale limite.

3.

Il Primo Presidente della Corte Suprema di cassazione ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite penali, fissando per la trattazione l'udienza del 25 ottobre 2018.

4.

Con sentenza pubblicata all'udienza del 25 ottobre 2018 le Sezioni Unite hanno pronunciato il seguente principio di diritto:

«In tema di sospensione condizionale della pena, fermo l'obbligo del giudice d'appello di motivare circa il mancato esercizio del potere-dovere di applicazione di detto beneficio in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, l'imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di merito».

5.

Il 22 maggio 2019 sono state depositate le motivazioni della sentenza.

Dopo aver dato conto dei due opposti orientamenti, le Sezioni unite hanno ritenuto necessario, da un lato fornire una risposta articolata che comprendesse «tutti i casi previsti dall'art. 597, comma 5, cod. proc. pen., dall'applicazione della sospensione condizionale della pena (art. 163 cod. pen.) e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale (art. 175 cod. pen.), al riconoscimento di una o più attenuanti (artt. 62, 62-bis, cod. pen.), con effettuazione del giudizio di comparazione a norma dell'art. 69 cod. pen., quando occorre, ossia subordinatamente all'applicazione di ufficio da parte del giudice di appello di nuove circostanze attenuanti, tali da imporre, nuovamente o per la prima volta (se in precedenza erano state applicate solo circostanze aggravanti), il giudizio di comparazione», dall'altro delimitare l'ambito della questione dibattuta che - afferma la Corte - riguarda «esclusivamente il mancato esercizio del detto potere ufficioso nel giudizio di appello e le conseguenze da esso discendenti in termini di tutela dell'interesse delle parti al suo effettivo esercizio, essendo pacifico che il difetto di esercizio di esso in primo grado è denunciabile con specifico motivo di appello e, ove ciò non avvenga, non preclude il potere del secondo giudice di esercitarlo, appunto, di ufficio a norma dell'art. 597, comma 5, cod. proc. pen.».

Tale potere costituisce una deroga al principio devolutivo dell'appello che, ricorda la Corte, conosce non poche eccezioni: i) il difetto di giurisdizione, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento; ii) l'incompetenza per materia, anch'essa rilevabile in ogni stato e grado del processo, salvo quanto previsto dagli artt. 21, comma 3, e 23, comma 2 cod. proc. pen.; iii) la dichiarazione immediata di cause di non punibilità, indipendentemente dall'oggetto dell'impugnazione e, dunque, anche quando, per addivenire al proscioglimento, sia necessario l'esame di punti della sentenza non appellati; iv) l'errore di persona relativo all'imputato; v) la morte del reo; vi) la declaratoria di nullità assolute e di quelle di tipo intermedio rilevabili di ufficio nei limiti dell'art. 180 cod. proc. pen.; vii) l'inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge; viii) la sentenza di proscioglimento nel caso di procedimento iniziato in violazione del divieto di bis in idem; ix) la questione di legittimità costituzionale che "può essere sollevata di ufficio dall'autorità giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio"; x) la violazione del principio di legalità della pena; xi) l'applicazione della legge più favorevole.

La peculiarità della deroga contenuta nel comma 5 dell'art. 597, c.p.p., sta nel fatto che la sua eccezionalità si coniuga con la discrezionalità del giudice «nell'ordinare i benefici previsti dagli artt. 163, 164 e 175 cod. pen., avuto riguardo, in entrambi i casi, alle circostanze indicate nell'art. 133 cod. pen., e con lo scrutinio di merito postulato dal riconoscimento di nuove circostanze attenuanti -comuni, generiche, ad effetto speciale (artt. 62, 62-bis e 63, terzo comma, cod. pen.) - con eventuale giudizio di comparazione; e ciò diversamente dalle altre eccezioni al medesimo principio devolutivo, già sopra compendiate, che sono invece imposte dal rilievo ordinamentale e inderogabile delle norme da osservare».

Si tratta dunque di un potere il cui esercizio non è vincolato ma che si trasforma in un dovere in presenza di elementi di fatto che ne consentano ragionevolmente l'esercizio, tanto più se divenuti attuali proprio nel giudizio di appello (la sentenza ipotizza i seguenti casi: primo giudizio definito con sentenza di proscioglimento, non doversi procedere, assoluzione, riformata in appello, su impugnazione del pubblico ministero, con pronuncia di condanna; qualità di pena irrogata in primo grado incompatibile con la sospensione condizionale della pena (art. 60 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274), con ritenuta competenza del tribunale, nel giudizio di appello, e conseguente irrogazione di pena per cui è, invece, ammesso il beneficio; o ancora per la misura edittale della sanzione al tempo della prima decisione, eccedente i limiti di ammissibilità della sospensione condizionale della pena, con sopravvenuto mutamento in melius della norma sanzionatoria, tale da consentire, in appello, l'applicazione del beneficio).

L'esercizio di tale potere-dovere, poiché attribuito di ufficio, non richiede, per definizione, la necessaria iniziativa o sollecitazione di parte e, tuttavia, proprio la sua natura eccezionale coniugata al contenuto discrezionale del suo oggetto, che postula valutazioni di puro merito, esclude che il suo mancato esercizio possa di per sé configurare un vizio deducibile in cassazione: «la non decisione sul punto - affermano le Sezioni unite - non costituisce violazione di norma penale sostanziale (art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.) e, neppure, violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (art. 606, comma 1, lett. c, cod. proc. pen.), tale non essendo l'art. 597, comma 5, cod. proc. pen.; soprattutto la "non decisione", in appello, sui benefici di legge non è denunciabile come vizio di motivazione per mancanza (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.), laddove la parte - che avrebbe potuto sollecitarne l'esercizio, in relazione ai possibili sviluppi del processo di secondo grado ancorché preceduto da giudizio assolutorio o incompatibile con il riconoscimento della sospensione condizionale della pena - non abbia richiesto, senza averne fatto (o potuto fare) motivo di impugnazione, l'applicazione del beneficio nel corso del medesimo giudizio di appello».ìIl vizio di motivazione denunciabile con ricorso per cassazione (esclusa l'ipotesi della sua assenza grafica ovvero della sua apparenza) deve tener conto della struttura della sentenza come delineata dall'art. 546 c.p.p. che, anche nella sua versione attuale, impone al giudice di esporre in modo conciso i motivi di fatto e di diritto sui quali la decisione si fonda, «strutturando […] la motivazione in chiave dialettica con l'espresso richiamo all'indicazione delle prove poste a base della decisione e all'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice non abbia ritenuto attendibili le prove contrarie». La norma, dunque, non prevede che oggetto di tale esposizione sia anche la possibile applicazione dei benefici di legge.

Ne consegue che «il mancato esercizio (con esito positivo o negativo) del potere-dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge, non accompagnato da alcuna motivazione che renda ragione di tale "non decisione", non può costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, se l'effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello, ovvero, nei casi in cui intervenga condanna la prima volta in appello, neppure con le conclusioni subordinate proposte dall'imputato nel giudizio di primo grado». Anche la richiesta di benefici effettuata in primo grado impone al giudice dell'appello di motivare sulla relativa istanza in caso di reformatio in peius della pronuncia assolutoria di primo grado.

Tale soluzione, ricorda la Corte, «appare coerente con il sistema di processo di parti del codice di rito e rispettosa, in particolare, della struttura del beneficio in esame che postula un interesse del potenziale destinatario non sempre favorevole alla sua applicazione». Non sempre, infatti, la concessione della sospensione condizionale della pena corrisponde a un interesse dell'imputato qualora da esso possa derivargli anziché un vantaggio la lesione di un diritto o di un interesse giuridico. Le Sezioni unite ricordano, a tal fine, gli arresti di Sez. U, n. 12234 del 23/11/1985, Di Trapani, e di Sez. U, n. 6563 del 16/03/1994, Rusconi, secondo cui «la sospensione condizionale della pena non può risolversi in un pregiudizio per l'imputato in termini di compromissione del carattere personalistico e rieducativo della pena; l'interesse all'impugnazione, condizionante l'ammissibilità del ricorso, si configura pertanto tutte le volte in cui il provvedimento di concessione del beneficio sia idoneo a produrre in concreto la lesione della sfera giuridica dell'impugnante e la sua eliminazione consenta il conseguimento di una situazione giuridica più vantaggiosa. Il pregiudizio addotto dall'interessato, tuttavia, in tanto è rilevante in quanto non attenga a valutazioni meramente soggettive di opportunità e di ordine pratico, ma concerna interessi giuridicamente apprezzabili in quanto correlati alla funzione stessa della sospensione condizionale, consistente nella "individualizzazione" della pena e nella sua finalizzazione alla reintegrazione sociale del condannato».

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