L'abuso di autorità nel reato di violenza sessuale

07 Dicembre 2015

Nonostante una pronunzia delle Sezioni unite (sentenza 31 maggio.5.2000 n. 13), permane in giurisprudenza il contrasto in merito all'ambito applicativo del concetto di autorità. In particolare, se vi rientrano solo le posizioni autoritative di tipo pubblicistico oppure anche ogni potere di supremazia di natura privata, di cui l'agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.
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Nonostante una pronunzia delle Sezioni unite (sentenza 31 maggio.5.2000 n. 13), permane in giurisprudenza il contrasto in merito all'ambito applicativo del concetto di autorità. In particolare, se vi rientrano solo le posizioni autoritative di tipo pubblicistico oppure anche ogni potere di supremazia di natura privata, di cui l'agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.

Il primo comma dell'art. 609-bis c.p. prescrive che il costringimento a compiere o subire atti sessuali debba essere realizzato con modalità precise ovvero con violenza o con minaccia o con abuso di autorità.

Specificamente l'abuso di autorità è un mezzo di coartazione dell'altrui volontà (ovvero di costrizione psichica) alternativo alla violenza e alla minaccia che deve essere accertato giudizialmente: occorre sempre provare il nesso causale tra il comportamento abusivo e l'effetto di coartare il consenso della vittima.

Tale ipotesi di costrizione presenta delle difficoltà interpretative perché l'espressione abuso di autorità è alquanto indeterminata sotto il profilo concettuale.

Rispetto alla previgente formulazione della fattispecie (art. 520 c.p.), dove l'agente era precisamente individuato (il pubblico ufficiale), è stata ampliata la categoria dei soggetti punibili essendo ricompresi anche coloro i quali, esercitando di diritto un potere autoritativo su una persona, approfittano di questo rapporto di superiorità per il compimento di atti sessuali.

A seguito della riforma si è sviluppato un contrastante indirizzo giurisprudenziale sul significato da attribuire al termine autorità.

La Corte di cassazione, a Sezioni unite, con sentenza del 31 maggio 2000 n. 13, aveva ritenuto che l'abuso di autorità presuppone nell'agente una qualità pubblicistica in grado di estrinsecare una supremazia idonea ad incidere sul procedimento formativo della volontà della persona offesa.

Negli anni successivi parte della giurisprudenza ha aderito al predetto indirizzo per cui l'abuso di autorità è stato ricollegato esclusivamente all'esercizio e alla strumentalizzazione di una posizione autoritativa di tipo formale o pubblicistica, in grado di costringere il soggetto passivo a compiere atti sessuali (Cass. pen., Sez. III, 22 maggio 2012, n. 36595; Cass. pen., Sez. IV, 19 gennaio 2012 n. 6982; Cass. pen., Sez. III, 11 ottobre 2011 n. 2681, secondo la quale la costrizione all'atto sessuale, mediante l'abuso di autorità, tale da invalidare il consenso, non può avere ad oggetto alcuna potestà di tipo privatistico; Cass., Sez. III, 19 giugno 2002, n. 32513).

Altra parte ha ritenuto che l'espressione abuso di autorità deve essere intesa come supremazia derivante da autorità, indifferentemente pubblica o privata, di cui l'agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (Cass. pen., Sez. III, 19 aprile 2012 n. 19419; Cass. pen., Sez. III, 3 dicembre 2008 n. 2119).

Recentemente Cass. pen. Sez. III, con la sentenza 27 marzo 2014 (dep. 3 settembre 2014, n. 36704) ha aderito alla soluzione seguita da Cassazione nella sentenza n. 19418/2012, che amplia il confine dell'abuso di autorità anche a soggetti non rivestenti una carica pubblica. Secondo la Corte, infatti, l'abuso di autorità vale quale mezzo di costrizione ulteriore ed alternativo rispetto alla violenza o minaccia nei riguardi di soggetto che, rispetto all'agente, si trova in una posizione di subalternità e di rispetto delle gerarchie.

Il concetto di autorità riferito al reato di violenza sessuale non può essere inteso nel senso formale di appartenenza ad un potere pubblico perché, a differenza del previgente art. 520 c.p. che faceva riferimento all'abuso di qualità del pubblico ufficiale, la nuova fattispecie delineata al primo comma dell'art. 609-bis c.p. ha un significato più ampio.

Sono ricompresi, infatti, tra i soggetti attivi ogni persona rivestita di un'autorità non connotata da una specifica qualifica (quindi anche privata). Ai fini penali ciò che rileva è che l'autorità esercitata costituisce il mezzo di dominio sulla vittima la cui incisività è tale da coartarne la volontà e/o condizionarne il comportamento. Mentre la normativa precedente parlava di pubblico ufficiale, così evocando il concetto di autorità correlato ad un pubblico potere, la nuova formulazione dell'art. 609-bis c.p., primo comma non si riferisce alla qualità del soggetto agente, ma al potere di supremazia da costui esercitato rispetto alla persona offesa ed all'abuso di esso quale strumento surrettizio per vincerne la resistenza.

Un ulteriore argomento a sostegno di questa interpretazione è costituito dal testo dell'art. 609-quater, comma 2, c.p. (atti sessuali con minorenne), in cui si fa un chiaro cenno all'uso di potere da parte di soggetto che si trova in una posizione di supremazia rispetto alla vittima minore e che non necessariamente riveste una funzione pubblica, come il convivente della madre del minore abusato.

Questa impostazione è stato successivamente ribadita dalla Cassazione, Sez. III, 30 aprile 2014, n. 49990, in cui è stato ravvisato il delitto di violenza sessuale nella condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti di una dipendente con mansioni di segretaria, condotta esplicatasi in una costrizione mediante abuso dell'autorità derivante dalla posizione di superiore gerarchico.

Da ultimo, però, ponendosi in contrasto con la sentenza n. 36704/2014, la suprema Corte è ritornata sui suoi passi affermando che l'abuso di autorità rilevante ai sensi dell'art. 609-bis, comma 1, c.p. presuppone nell'agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, che determina, attraverso la strumentalizzazione del potere esercitato, una costrizione della vittima a subire il compimento degli atti sessuali (Cass. pen., Sez. III, 24 marzo 2015, n. 16107, dep. 17 aprile 2015).

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