Illecita concorrenza con minaccia e violenza. Divergenze giurisprudenziali su ambito e portata della condotta

Marzia Minutillo Turtur
05 Dicembre 2018

Il tema della portata della nozione di atti di concorrenza risulta controverso nell'elaborazione giurisprudenziale. Da una parte si ritiene che tale nozione non possa che essere limitata al concetto enucleato dal disposto dell'art. 2598 c.c., dall'altra si evidenzia come...
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Il tema della portata della nozione di atti di concorrenza risulta controverso nell'elaborazione giurisprudenziale. Da una parte si ritiene che tale nozione non possa che essere limitata al concetto enucleato dal disposto dell'art. 2598 c.c., dall'altra si evidenzia come gli atti concorrenza debbano essere individuati con riferimento anche alla disciplina delle intese restrittive della libertà di concorrenza e degli abusi di posizione dominante ex art. 2 e 3 l. n. 287 del 1990, con interpretazione estensiva della nozione di violenza e minaccia anche alle condotte intimidatrici tipiche delle organizzazioni mafiose.

La Sez. II della Corte di cassazione con sentenza n. 30406/2018, P.M. in proc. Sergi, ha affermato che «Integra il delitto di cui all'art. 513-bisc.p. qualunque comportamento violento o minatorio posto in essere nell'esercizio di attività imprenditoriale al fine di acquisire una posizione dominante non correlata alla capacità operativa dell'impresa». (In motivazione la Corte ha chiarito che la nozione di atti di concorrenza deve essere interpretata tenendo conto non soltanto delle indicazioni di cui all'art. 2598 c.c., ma anche delle intese restrittive della libertà di concorrenza e degli abusi di posizione dominante descritti negli artt. 2 e 3 della legge 287 del 1990)., nonché che «In tema di concorrenza sleale ex art. 513-bisc.p., la minaccia può essere costituita anche dalla mera evocazione del patrocinio di gruppi organizzati noti per la consumazione reiterata di reati contro la persona».

Si tratta dell'ultima affermazione massimata di un principio controverso in giurisprudenza.

Ricorrono infatti numerose pronunce nello stesso senso che tendono a estendere il concetto di atti di concorrenza sleale oltre l'ambito strettamente civilistico (Cass. pen., 450/1995; Cass. pen., n. 13691/2005; Cass. pen., n. 44169/2008, Casss. pen., n. 15781/2015; Cass. pen., n. 18122 del 2016; Cass. pen., n. 49365/2016; Cass. pen., n. 9513/ 2018), a fronte di altre decisioni che invece si assestano non solo su un'interpretazione più restrittiva e limitata al codice civile degli atti di concorrenza ma anche nell'individuazione del genere di violenza o minaccia che integra la condotta descritta dall'art. 513-bis c.p.(Cass. pen., n. 16195/2013; Cass. pen., n. 29009/2014; Cass. pen., n. 3868/2015; Cass. pen., n. 44698/2015; Cass. pen., n. 49365/2016).

In particolare la decisione recente della Sez. II della Corte di cassazione ha richiamato previamente l'orientamento che ritiene che l'art. 513-bis c.p. punisca esclusivamente le condotte illecite tipicamente concorrenziali – come il boicottoaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto a contrattare – realizzati con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale ma non anche le condotte intimidatorie finalizzate a ostacolare o a coartare l'altrui libera concorrenza, e però poste in essere al di fuori dell'attività concorrenziale in senso tecnico, ferma restando la riconducibilità di queste condotte ad altre fattispecie.

Viene evidenziata dalla decisione la ratio dell'interpretazione in questione, ovvero la volontà di garantire la tassatività della previsione, con la conseguenza che non può apparire conforme al testo normativo estendere la nozione di atti di concorrenza agli atti di violenza o minaccia al fine di evitare problemi di violazione del principio di legalità e di tassatività, nell'impossibilità di prescindere dall'elemento oggettivo della incriminazione nel suo nucleo fondamentale, cioè la realizzazione di un atto di concorrenza. Tale conclusione viene giustificata e richiamata anche in considerazione della collocazione sistematica della previsione tra i reati contro l'industria e il commercio, con un condotta che sarebbe dunque tesa a scoraggiare mediante violenza o minaccia l'altrui concorrenza e che ha come scopo la tutela dell'ordine economico, e dunque il normale svolgimento delle attività produttive ad esso inerenti. Nel considerare l'eventuale ricorrenza di distinte condotte a carattere intimidatorio (anche collegate ad una eventuale contiguità a note associazioni criminali e gruppi organizzati), tale orientamento esclude che integrino la previsione di cui all'art. 513 bis c.p. e sostiene invece la ricorrenza di un comportamento che potrebbe rientrare nell'ambito dell'art. 629 c.p., in concorso eventualmente con quella di illecita concorrenza. Nello stesso senso si sottolinea inoltre come diversi siano i beni giuridici protetti e dunque l'ambito delle due disposizioni sia da valutare in concorso formale tra loro (Cass. pen., Sez. VI, n. 44698/2015; Cass. pen., Sez. II, n. 9763/2015; Cass. pen., Sez. III, n. 16195/2013; Cass. pen., Sez. II, n. 29009/2014).

La Sez. II aderisce tuttavia al diverso orientamento secondo il quale sono da considerare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti, sia attivi che impeditivi dell'altrui concorrenza, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, che sono idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, in danno dell'imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa. In tal senso si è ritenuta integrata la condotta di cui all'art. 513-bis c.p. nel caso di imposizione sul mercato di propria attività, in via esclusiva o prevalente, da parte di soggetto che si avvale della forza intimidatrice del sodalizio mafioso a cui risulta continguo (Cass. pen., Sez. II, n. 15781/2015).

Precisa dunque la decisione della Sez. II come i profili problematici e interpretativi che riguardano l'art. 513-bis c.p. si concentrano fondamentalmente sull'identificazione degli atti di concorrenza, che secondo il primo indirizzo sono solo quelli inquadrabili nella nozione tradizionale di concorrenza, mentre secondo l'orientamento più estensivo si devono considerare comprese in tale nozione anche le condotte disciplinate in epoca successiva di acquisizione e abuso di posizione dominante rinvenibili negli art. 2 e 3 della legge n. 287 del 1990, che consentono di ritenere illeciti sia i cartelli di imprese finalizzati a inibire l'attività imprenditorile delle ditte che non hanno partecipato all'accordo di cartello, che l'abuso di posizione dominante.

È da sottolineare che questo diverso orientamento, volto a determinare una più ampia definizione degli atti di concorrenza – ritenuta illegittima dall'orientamento contrapposto per difetto di tassatività – non accede ad un'interpretazione estensiva per cui l'art. 513-bis c.p. consentirebbe di colpire indiscriminatamente tutti gli atti di minaccia caratterizzati dal dolo specifico di minare la concorrenza.

La decisione della Sez. II infatti precisa come questo più ampio panorama interpretativo tende in realtà a tipizzare in modo più puntuale l'atto di concorrenza illecita, tenendo conto del più articolato complesso normativo nel quale questo si colloca, con imprescindibile riferimento non solo all'art.2598 c.c. ma anche agli art. 101 e 102 T.F.Ue e alla legge 287/1990, giungendo così ad identificarlo in «qualunque atto attivo o impeditivo che consenta l'acquisizione di una posizione dominante non correlata alla capacità operativa dell'impresa». Non si punisce quindi qualunque comportamento violento o intimidatorio ma esclusivamente quelli posti in essere in via attiva o impeditiva nell'esercizio dell'attività imprenditoriale al fine di ottenere una posizione dominante non correlata alla capacità operativa dell'impresa, così ricomprendendo nella nozione anche i cartelli di imprese e l'abuso di posizione dominante.

In tale contesto la decisione sottolinea come «quanto alla identificazione del comportamento con efficacia intimidatoria“ le mafie storiche abbiano un capitale criminale la cui evocazione sortisce un effetto coercitivo parificabile, se non superiore a quello che si ottiene attraverso il ricorso a forme di minaccia tipica; l'evocazione del capitale criminale delle mafie storiche consente una semplificazione dell'azione criminale in quanto l'effetto intimidatorio si raggiunge attraverso l'evocazione della riconosciuta capacità criminale di gruppi organizzati noti per la consumazione reiterata di efferati crimini contro la persona e non richiede lo spiegamento delle energie coercitive che sono necessarie per l'efficacia di una minaccia ordinaria».

Una lettura siffatta appare fortemente innovativa e chiarificatrice, in profonda continuità con altre decisioni, anche risalenti, della stessa Sez. II, che hanno ricostruito in modo analitico la genesi della previsione di cui all'art. 513-bis c.p. (Cass. pen., Sez. II, n. 13691/2005; ma anche Cass. pen., Sez. III, n. 44169/2008, e infine Cass. pen., Sez. VI, n. 38551/2018), chiarendo che la ratio della norma risiede nell'assicurare che la concorrenza sia non solo libera, ma anche liberamente attuata, sicchè la finalità deve essere individuata non solo nella mera repressione di forme di concorrenza sleale già previste dal codice civile, e in quella sede tutelate, ma anche di forme di concorrenza tese ad impedire che tramite comportamenti violenti o intimidatori siano eliminati gli stessi presupposti della concorrenza, al fine di acquisire illegittimamente posizioni di preminenza o di dominio di un settore economico.

Le fonti di matrice comunitaria hanno di fatto portato a ribadire questa interpretazione in un contesto normativo più ampio ed eurounitario (Cass. pen., Sez. II, n. 15781/2015,). In tal senso un punto interpretativo fondamentale è stata ritenuta la legge 464 del 1982, c.d. legge La Torre, originariamente caratterizzata dalla finalità di reprimere la concorrenza illecita realizzata con metodi violenti, ossia tipici delle organizzazioni criminose e segnatamente mafiose, la quale tuttavia nella sua definitiva formulazione ha introdotto la disposizione dell'art. 513-bis c.p. estendendo gli atti di violenza o minaccia oltre il mero riferimento alla criminalità organizzata, al chiaro fine di estendere ancor più la portata della previsione in questione (in modo molto chiaro dal punto di vista ricostruttivo della disciplina in questione Cass. pen., Sez. III, n. 44169/2008). Ciò nel senso di impedire che tramite comportamenti violenti o intimidatori siano eliminati i presupposti stessi della concorrenza e la libertà delle persone di determinarsi in questo settore (ad esempio esercitando un ribasso dei prezzi). Anche la dottrina ha infatti sottolineato, proprio analizzando l'origine della previsione in questione, come più che a migliorare la posizione di un concorrente rispetto a un altro, si tende a rimuovere le condizioni che rendono possibile la stessa capacità di autodeterminarsi dei soggetti economici. Il che si collega all'interpretazione che ha ritenuto ricorrere un valido esercizio di violenza a tal fine sia quando la violenza sia esercitata in maniera diretta contro l'imprenditore concorrente, che quando il fine del controllo e del condizionamento delle attività commerciali, industriali o produttive, sia perseguito indirizzando la violenza o minaccia anche nei confronti di soggetti terzi comunque legati, come clienti o collaboratori, da rapporti economici o professionali con l'imprenditore concorrente (Cass. pen., Sez. I, n. 19713/2005).

Assai rilevante appare, nell'ambito di tale orientamento, la considerazione emergente da altre decisioni (Cass. civ., Sez. I, n.14394/2012; Cass. pen., Sez. II, n. 15781/2015) secondo la quale occorre considerare come la previsione sulla base della normativa comunitaria e delle previsioni di cui alla l. 287 del 1990 evidenzi che ai numeri 1) e 2) ricorrono casi tipici di concorrenza sleale c.d. parassitaria, ovvero attiva, mentre al n. 3) si concretizza e manifesta una norma di chiusura secondo la quale sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l'altrui azienda. In tal senso (Cass. civ., Sez. I, n. 26652/2014) si è chiarito come si tratti di comportamenti diversi e distinti da quelli tipizzati ai numeri 1) e 2), costituenti una ipotesi autonoma di concorrenza sleale, “ alternativa all'altra”.

La Sez. VI sopra richiamata ha conseguentemente affermato il principio di diritto secondo il quale nella nozione di atti contrari alla correttezza professionale ai sensi dell'art. 2598 c.c. devono farsi rientrare non solo quegli atti che direttamente sono tesi a distruggere l'attività del concorrente, ma anche quei comportamenti che sono diretti ad evitare che possa essere esercitato un atto di concorrenza lecita, come quello della ricerca di acquisizone di nuove fette di mercato, con chiaro riferimento anche agli atti “impeditivi” delle svolgimento dell'altrui concorrenza. Tale decisione tende dunque a ricondurre a sistema quel contrasto indicato nella recente desione della Sez. II, poiché anche un'intimidazione posta in essere richiamando la contiguità con un sodalizio mafioso può rappresentare una vera e propria attività impeditiva nella ricerca di acquisizione di nuove fette di mercato, considerata la portata ampiamente evocativa di un tale genere di minaccia.

Un ulteriore apporto alla tesi seguita dalla Sez. II, richiamata nelle sue diverse sfumature, emerge anche dalla lettura della motivazione della decisione della Sez. II, n. 15881/2015. Tale pronuncia richiama lo scopo di tutela dell'ordine economico che caratterizza la previsione di cui all'art. 513 c.p. e l'ampia portata della tutela apprestata dall'ordinamento con l'introduzione della legge La Torre, con previsione di concetto esteso di minaccia e violenza non limitato alla sola attività posta in essere dai gruppi mafiosi, ai quali originariamente si riferiva. Dunque una visione tendente a includere ogni tipo di attività così caratterizzata, anche se non direttamente a contatto con gruppi mafiosi, ma certamente comprensiva di attività che si fondino e traggano forza proprio da una vicinanza di tal genere. Un ambito di applicazione quindi ancora più esteso rispetto alla mincaccia e violenza realizzata dalla criminalità organizzata. Questo arresto giurisprudenziale ricostruisce poi in modo completo ed analitico l'inserimento della previsione dell'art. 513 bis c.p. nell'ambito delle previsioni di cui all'art. 101 e 102 del T.F.Ue con l'affermarsi, anche in dottrina di un concetto di concorrenza inteso come concorrenza effettiva (o efficace) in senso dinamico, tra imprese che competono liberamente nel mercato, che si esercita con l'innovazione (attraverso la ricerca e lo sviluppo), ma alle quali non è consentito consolidare posizioni di privilegio, grazie all'azione dei poteri pubblici in materia di regolazione. Dunque secondo la nuova impostazione derivante dalla normativa introdotta con il T.F.Ue si rifiuta il modello antico di concorrenza in base al quale era il mercato a dover regolare spontaneamente la concorrenza tra le imprese, ma devono necessariamente sussistere delle strutture preposte alla sorveglianza del mercato, con la conseguenza che si ritengono atti anti concorrenziali non solo quelli compiuti dall'imprenditore in positivo, ma anche quelli in negativo, diretti cioè contro gli imprenditori concorrenti. Ciò perché entrambi i comportamenti sono diretti ad acquisire il predominio sul mercato estromettendo illecitamente i concorrenti, con la conseguente definizione dei comportamenti negativi come atti definiti di illecita concorrenza “per impedimento”. La tendenza a considerare dunque pienamente rilevanti anche i comportamenti impeditivi, con ciò superando il disposto riferibile esclusivamente all'art. 2598 c.c., emerge, a parere del collegio, anche dalla previsione di cui all'art. 120 T.F.Ue, che rappresenta una sorta di norma fondante del sistema volto a bloccoare attività di illecita concorrenza. In particolare: - dall'art. 120 secondo il quale gli Stati membri e l'Unione agiscono nel rispetto dei principi di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un efficace allocazione delle risorse, conformememnte ai principi di cui all'art. 119 «l'azione degli Stati membri è […] è fondata sullo stretto cordinamento delle politiche economiche.. sulla definizione di obiettivi comuni, […] conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza»; - infine dall'art. 16 Cedu che afferma che è riconosciuta la libertà di impresa conformememnte al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali).

Questa complessiva considerazione dell'attività d'impresa e della libera concorrenza a livello comunitario consente quindi (anche ai sensi degli art. 81 e 82 che richiamano una serie di atti concorrenziali sia attivi che impeditivi) di giungere ad una interpretazione decisamente più ampia di atti di concorrenza, per ivi ricomprendervi “ tutti quegli atti che siano idonei a falsare il mercato e a consentire ad un imprenditore di acquisire in danno di altri imprenditori, illegittime posizioni dominanti senza alcun merito derivante dalla propria capacità”.

Considerata dunque, ai sensi degli art. 11 e 117, comma 1, della Costituzione, la prevalenza della normativa comunitaria su quella interna, l'ambito applicativo dell'art. 2598 c.c. viene così individuato in virtù del disposto del terzo comma, che rappresenta una norma di chiusura, che fondamentalmente lascia all'interprete la possibilità di stabilire di volta in volta se determinati comportamenti debbano o meno essere considerati contrari ai principi della correttezza professionale. Una volta ritenuto il terzo comma come riferito a mezzi diversi e distinti da quelli tipici previsti dai n.1) e 2) si lascia all'interprete la possibilità di considerare i «possibili casi alternativi, per i quali è necessaria la prova in concreto dell'idoneità degli atti ad arrecare pregiudizio al concorrente».

Viene quindi ritenuta in via di progressivo superamento la concezione che tende a limitare la definizione degli atti di concorrenza sleale in modo ristretto, con riferimento alla previsione dei primi due numeri dell'art. 2598 c.c., per giungere a considerare la piena ricorrenza di una forma di illecita concorrenza nel caso in cui il mancato rispetto di norme pubblicistiche integra “l'ipotesi di concorrenza sleale allorché la violazione abbia prodotto un vantaggio concorrenziale che non si sarebbe avuto se la norma fosse stata osservata”, considerato che si tratta di un comportamento che si inquadra «in una più complessa attività illecita che, creando un malizioso e artificaile squilibrio delle condizioni di mercato è idoneo a riflettersi nella fera patrimoniale del concorrente e a danneggiare la sua impresa» (Cass. civ. 19720/2008).

È dunque la stessa interpretazione della Corte di cassazione in sede civile che consente di giungere, secondo la pronuncia della Sez. 2, alle conclusioni per cui – seppure la normativa penale non consente di definire in modo certo e univoco, in mancanza di definizione esplicita, il concetto di atti di concorrenza - la stessa normativa comunitaria consente il superamento in via evolutiva dell'orientamento restrittivo nella lettura dell'art. 2598 c.c., con considerazione di comportamenti sia attivi che impeditivi dell'altrui concorrenza che, commessi dall'imprenditore con violenza o minaccia, sono idonei a falsare il mercato e a consentire l'acquisizione di illegittime posizioni di vantaggio (e dunque caratterizzati dalla presenza di minaccia e violenza del più diverso genere perché non tipizzati, Cass. pen., Sez. II, n. 18122/2016, Cass. pen., Sez. II, n. 9513/2018 sempre in ordine all'essersi l'imprenditore avvalso della forza intimidatrice del sodalizio mafioso al quale risulta continguo).Emerge dunque dalla complessiva riscostruzione sopra riportata una considerazione anche dell'utilizzo del metodo di intimidazione mafioso come forma di effettiva lesione della libera concorrenza altrui, in modo impeditivo e indiretto (Cass. pen., Sez. II, n. 6462/2010, Cass. pen., Sez. II, n. 9513/2018, Cass. pen., Sez. II, n. 13691/2005; Cass. pen. Sez. III, n. 44169/2008, Cass, pen., Sez. III, n. 3868/2015).

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