Il rito applicabile ai ricorsi per cassazione contro provvedimenti cautelari reali

Sergio Beltrani
06 Ottobre 2015

Nonostante due espresse pronunzie delle Sezioni unite (sentenze n. 4/1990, e n. 14/1993, Lucchetta), è all'improvviso riemerso in giurisprudenza un contrasto in merito al rito da seguire per la trattazione dei ricorsi in cassazione contro i provvedimenti in materia di misure cautelari reali. In generale, con riferimento ai ricorsi per cassazione contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, il rito previsto è quello di cui all'art. 611 c.p.p., camerale non partecipato, costituente forma speciale e generale per la sede di legittimità, "se non è diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall'art. 127 …".
1.

Nonostante due espresse pronunzie delle Sezioni unite (sentenze n. 4/1990 e n. 14/1993), è all'improvviso riemerso in giurisprudenza un contrasto in merito al rito da seguire per la trattazione dei ricorsi in Cassazione contro i provvedimenti in materia di misure cautelari reali.

In generale, con riferimento ai ricorsi per cassazione contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, il rito previsto è quello di cui all'art. 611 c.p.p., camerale non partecipato, costituente forma speciale e generale per la sede di legittimità, "se non è diversamente stabilito e in deroga a quanto previsto dall'art. 127 …".

Con riferimento ai ricorsi per cassazione contro provvedimenti in materia di misure cautelari reali, l'art. 325 c.p.p. stabilisce:

  • al comma 1, che il ricorso può essere proposto soltanto per violazione di legge (e non per tutti i casi previsti dall'art. 606, comma 1);
  • al comma 2, che la parte privata ha facoltà di ricorso immediato contro il provvedimento genetico, alternativo alla richiesta di riesame;
  • al comma 4, che il ricorso non sospende l'esecuzione dell'ordinanza impugnata.

Il punctum dolens è costituito dal comma 3, a norma del quale si applicano le disposizioni dell'art. 311, commi 3 e 4.

  • il comma 3 dell'art. 311 indica dove deve essere presentato il ricorso, l'informazione della sua presentazione all'autorità procedente, l'invio degli atti alla Corte di cassazione;
  • il comma 4 prevede che i motivi devono essere contestuali alla dichiarazione di impugnazione e che il ricorrente ha facoltà di enunciare motivi nuovi dinanzi alla Corte di cassazione, prima dell'inizio della discussione.

L'art. 325, comma 3, non richiama anche il comma 5 dell'art. 311, a norma del quale i ricorsi sono decisi entro trenta giorni, osservando le forme di cui all'art. 127 c.p.p.

Le Sezioni unite, con le sentenze n. 4 del 1990 e n. 14 del 1993, avevano concordemente ritenuto che il procedimento in camera di consiglio innanzi alla Cassazione relativamente ai ricorsi in materia di sequestri deve svolgersi nelle forme di cui all'art. 127 c.p.p., non in quelle di cui all'art. 611 dello stesso codice.

Si era, in particolare, osservato che milita in favore dell'applicazione della trattazione in “contraddittorio orale partecipato” del ricorso, secondo la generale previsione di cui all'art. 127, il rinvio operato dall'art. 325, comma 3, al precedente art. 311, comma 4, in quanto tale ultima norma, prevedendo una discussione necessariamente orale e la possibilità di enunciare motivi nuovi prima del suo inizio, delinea un modulo procedimentale incompatibile con quello dell'art. 611, basato unicamente su atti scritti.

Il mancato richiamo, da parte dell'art. 325, comma 3, del quinto comma dell'art. 311, aveva, inoltre, indotto a ritenere non operante il termine (di trenta giorni) per la decisione.

In difetto di rinvio, pur implicito, alle forme di cui all'art. 127 c.p.p., analogo a quello desunto dall'art. 325, comma 3, altra decisione delle Sezioni unite (sentenza n. 9857 del 2009) aveva ritenuto che il ricorso per cassazione contro l'ordinanza emessa dal Gip a norma dell'art. 263, comma 5, c.p.p. dovesse essere deciso in camera di consiglio con le forme del rito non partecipato di cui all'art. 611.

La VI Sezione, con ordinanza n. 399118 del 2015, ha ritenuto di non condividere tale ormai consolidato e da tempo non più discusso orientamento.

Preso atto del silenzio (e ti pareva …) delle Relazioni al Progetto preliminare ed al Testo definitivo del codice di procedura penale sul punto, si è osservato che le Sezioni unite 4/1990 e 14/1993 “spezzano” i due precetti contenuti dal quinto comma dell'art. 311, introducendo un criterio di approccio ermeneutico che sarebbe “obiettivamente opinabile”. Infatti, argomentano l'applicabilità del secondo precetto sulla base del riferimento che il richiamato comma 4 opera anche alla facoltà di enunciare i motivi nuovi prima della discussione. Ma escludono l'applicabilità del primo, perché "giustificato nel suo rigore solo per le misure di natura personale". Questa scissione, tuttavia, finisce con l'indebolire fortemente l'argomento a sostegno dell'insegnamento: il riferimento alla possibilità di presentare motivi nuovi fino alla discussione. Perché, deve essere osservato, la possibilità di presentare i motivi nuovi fino all'udienza e invece non oltre i quindici giorni precedenti, parrebbe trovare giustificazione solo in relazione alla necessità di fissare l'udienza nei trenta giorni dal pervenimento del fascicolo, in un contesto nel quale i tempi ravvicinati possono rendere i cinque giorni previsti dall'art. 127 troppo comprimenti un'efficace possibilità di introdurre argomenti nuovi a sostegno dei motivi già proposti (tale infatti è l'interpretazione consolidata di questa Corte anche sui motivi nuovi ex art. 311).

Proprio la brevità dei tempi di trattazione spiegherebbe, sul piano sistematico, la possibilità di presentare motivi nuovi fino all'udienza di discussione e la scelta palese (311, comma 5) del rito partecipato. In altri termini, i tempi sono brevissimi, il rito camerate non partecipato ordinario non permette, per i suoi tempi, un'efficace e tempestiva difesa: quindi, udienza partecipata e motivi fino alla discussione. Nel momento in cui, invece, secondo le Sezioni Unite citate (n. 4/1990 e n. 14/1993), non è applicabile il termine breve entro il quale l'udienza per la trattazione del ricorso in materia di cautela reale deve essere fissata, la possibilità di presentare motivi nuovi entro i cinque giorni usuali dell'art. 127, o alla stessa udienza, rimane soluzione interpretativa di non agevole giustificazione sistematica. Se, ancora, si tiene presente che per esplicita scelta del legislatore il ricorso ex art. 325 è consentito solo per violazione di legge e che, secondo l'interpretazione delle richiamate Sezioni Unite, lo stesso non deve essere trattato con l'urgenza propria dei ricorsi in tema di misure cautelari personali, si evidenziano due scelte legislative consapevolmente volte a dare una disciplina diversa alle due distinte tipologie di cautela.

Se ne dovrebbe desumere che la mancata previsione dell'esplicito rinvio alla sola disposizione che espressamente imponga il rispetto delle forme dell'art. 127 per la trattazione del ricorso contro provvedimenti in materia di misure cautelari personali, ovvero all'art. 311, comma 5, assume un rilievo oggettivo che non può (come in definitiva implicito nell'interpretazione delle Sezioni unite n. 4/1990 e n. 14/1993) essere necessariamente attribuito a scarsa qualità del dettato legislativo, ben risultando invece coerente con una scelta contraria esplicita in tale mancato richiamo, quella di rendere applicabile al ricorso per il sequestro preventivo l'ordinario contraddittorio scritto. Apparendo utile ribadire, ancora una volta, che qui non si tratta di sottrarre la decisione ad un contraddittorio successivo alla presentazione del ricorso, bensì di prevedere il generale modulo del contraddittorio scritto, pieno e discrezionale, in un contesto di sola violazione di legge. In altri termini, rovesciando il criterio ermeneutico seguito dalle Sezioni Unite citate, si ritiene che l'integrale contenuto del comma 4 dell'art. 311 assuma senso solo alla luce del successivo comma 5: perché è solo questo che, associando il rito ex 127 al termine di trenta giorni per la trattazione, dà ragione alla proposizione dei motivi nuovi fino all'udienza. Il comma 4, in definitiva, introduce un'eccezione alla disciplina dell'art. 127, comma 2, cod. proc. pen, che il comma 5, esso solo contenente l'esplicita deroga all'art. 311, dichiara applicabile per i ricorsi in tema di cautela personale.

Quale che sia la soluzione per la quale opteranno questa volta le Sezioni unite (il procedimento, già stato fissato - con immediato revirement - dalla VI Sezione con rito camerale non partecipato ex art. 611 c.p.p. e rimesso, in accoglimento della richiesta del P.G., alle Sezioni unite, per la risoluzione della questione controversa è stato fissato anche dinanzi a queste ultime con il medesimo rito) non può che evidenziarsi ancora una volta l'inadeguatezza, da diversi anni a questa parte, della tecnica di redazione delle norme.

Il quadro normativo applicabile al caso di specie appare emblematico:

  • il mancato rinvio dell'art. 325, comma 3, all'art. 311, comma 5, sembrerebbe dover escludere de plano l'adozione del rito camerale partecipato ex art. 127 c.p.p.;
  • il riferimento, contenuto nel richiamato comma 4 dell'art. 311, alla "discussione" sembrerebbe, tuttavia, legittimare la necessità dell'adozione di un contraddittorio orale partecipato, e non meramente cartolare;
  • il predetto rilievo potrebbe, peraltro, essere neutralizzato dalla considerazione che i rinvii sono sempre operati con la generale ed implicita clausola di compatibilità, e quindi, nel caso di specie, quello all'art. 311, comma 4, non comprenderebbe il riferimento alla discussione, perché essa – in virtù del mancato rinvio al successivo comma 5 - sarebbe destinata a non avere luogo: il rinvio dell'art. 325, comma 3, all'art. 311, comma 4, comporterebbe, pertanto, unicamente l'obbligo di enunciare i motivi contestualmente al ricorso, ovvero prima dell'inizio dell'udienza (non di discussione, che non è prevista, bensì) camerale non partecipata (e quindi, necessariamente, in forma scritta).

La questione quindi è come si procede in Cassazione in caso di ricorso in materia di misure cautelari reali?

Il 25 giugno 2015 si è svolta l'Assemblea Generale della Corte suprema di cassazione, convocata ai sensi degli artt. 93, comma 1 n. 3, e 94 ord. giud.

La relazione del Presidente coordinatore del gruppo di lavoro penale, dopo aver sottolineato che il progressivo incessante aumento dei ricorsi in materia penale, cui corrisponde un continuo aumento dei carichi di lavoro collettivo e individuale, è giunto a livelli non più sostenibili, e che tanto rischia di danneggiare irreparabilmente lo svolgimento del giudizio di cassazione, degradato a un semplice terzo grado del processo, e impedisce in prospettiva una adeguata risposta alla domanda di giustizia nell'adempimento del controllo di legittimità, aveva indicato, tra i rimedi immediatamente attuabili, senza bisogno di interventi normativi o amministrativi, l'adozione di forme meno gravose rispetto a procedimenti, come quelli relativi a misure cautelari reali, per i quali le attuali forme di svolgimento derivano da opzioni giurisprudenziali. A sostegno di tale proposta, si era, più in generale, osservato (§ 7 della Relazione) che con l'adozione di riti meno gravosi si intende richiamare la giurisprudenza della Cassazione a una sorta di rivoluzione copernicana nel suo pensiero, nel senso di introdurre tra le variabili da valutare anche il possibile aggravio di lavoro derivante dallo scegliere una soluzione ovvero un'altra, a parità di rispetto delle garanzie.

L'assunto appare quanto meno opinabile: se, da un lato, ai sensi dell'art. 65 od. giud., la corte suprema di Cassazione, organo supremo della giustizia, ha il compito di assicurare la esatta osservanza e l'uniforme osservanza della legge, in ciò non potendo venire condizionata dalle possibili conseguenze, in termini di aggravio del proprio carico di lavoro, delle interpretazioni – ritenute corrette - della legge, dall'altro non appare sostenibile che la trattazione con rito camerale partecipato (e quindi con contraddittorio orale), o non partecipato (e quindi con contraddittorio esclusivamente scritto), offra alle parti le medesime garanzie. Né, d'altro canto, sembra possibile ritenere con fondamento che la possibile partecipazione delle parti al procedimento camerale si ponga in contrasto con l'esigenza della ragionevole durata del processo, l'unica costituzionalizzata (art. 111, comma 2, Cost.), e quindi l'unica che può, ed anzi deve, condizionare l'interprete.

L'Assemblea generale aveva, peraltro, conclusivamente auspicato l'adozione di riti meno gravosi rispetto a procedimenti, come quelli relativi a misure cautelari reali, per i quali le attuali forme di svolgimento derivano da orientamenti giurisprudenziali.

In un momento nel quale l'opinione pubblica reclama con forza sempre maggiore la certezza del diritto, in ogni sua applicazione, ed in opresenza di un quadro normativo obiettivamente non chiaro, né in un senso, né nell'altro, è tutta da verificare l'opportunità di rimettere in discussione uno dei pochi arresti giurisprudenziali che appariva ormai non più discusso, per giunta nella prospettiva di pervenire ad un assetto procedimentale deteriore per le parti private. E comunque, non ci sentiamo di condivedere l'idea che, sottraendo alle parti il diritto di illustrare oralmente i ricorsi in materia di misure cautelari reali si possa contribuire a risolvere i problemi (che sono tanti) della suprema Corte di cassazione: al contrario, si corre il rischio di ingenerare in taluno il convincimento che l'esercizio dei diritti di difesa, nelle forme più ampie, possa essere considerato come una inutile perdita di tempo. Il che non deve essere.

2.

All'udienza camerale 15 settembre 2015, la VI Sezione penale ha rimesso al Primo Presidente della Corte Suprema di cassazione un ricorso in relazione alla seguente questione ritenuta oggetto di contrasto giurisprudenziale:

se il rito da seguire in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell'art. 325 c.p.p. deve svolgersi nel rispetto delle forme previste dall'art. 611 o dall'art. 127 c.p.p.

3.

Il Primo Presidente della Corte Suprema di cassazione ha assegnato alle Sezioni unite, fissando per la trattazione l'udienza camerale non partecipata del 17 dicembre 2015, un ricorso che propone la seguente questione, ritenuta dalla VI Sezione penale oggetto di contrasto giurisprudenziale:

se il rito da seguire in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell'art. 325 c.p.p. deve svolgersi nel rispetto delle forme previste dall'art. 611 o dall'art. 127 c.p.p.

4.

All'udienza 17 dicembre 2015, le Sezioni Unite penali hanno deciso che, in caso di ricorso per cassazione proposto a norma dell'art. 325 c.p.p., la Corte di cassazione deve procedere in camera di consiglio osservando la procedura c.d. non partecipata di cui all'art. 611 c.p.p.

5.

Il 30 dicembre 2015 è stata depositata la sentenza n. 51207/2015, con la quale le Sezioni unite penali della Corte di cassazione, chiamate a stabilire se, in caso di ricorso per cassazione proposto in materia cautelare reale a norma dell'art. 325 c.p.p., si proceda ex art. 611 c.p.p. (rito camerale non partecipato), oppure ex art. 127 c.p.p. (rito camerale partecipato), hanno deciso che si procede con il rito camerale non partecipato.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.