Reato continuato commesso da recidivo e operatività del limite minimo dell'aumento di pena di un terzo

Andrea Pellegrino
28 Luglio 2016

Con ordinanza n. 18935 in data 12 aprile 2016, la quinta Sezione della suprema Corte ha rimesso alle Sezioni unite la seguente questione se il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave, previsto dall'art. 81, comma 4, c.p. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all'art. 99, comma 4, c.p., operi anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.
1.

Sull'interpretazione dell'art. 81, comma 4, c.p. si segnalano due opzioni interpretative differenti.

Secondo il primo – maggioritario – orientamento, per il reato continuato, il limite minimo per l'aumento stabilito dalla legge nei confronti dei soggetti per i quali sia stata ritenuta sussistente la contestata recidiva reiterata opera anche quando il giudice abbia considerato la stessa recidiva equivalente alle riconosciute attenuanti e non abbia proceduto all'aggravamento della pena correlato alla suddetta circostanza (così, Cass. pen., Sez. VI, 13 giugno 2011, n. 25082; conformi, Cass. pen., Sez. III, 28 settembre 2011, n. 431; Cass. pen., Sez. VI, 21 novembre 2012, n. 49766; Cass. pen., Sez. V, 7 giugno 2013, n. 48768; Cass. pen., Sez. feriale, 11 settembre 2014, n. 53573; Cass. pen., Sez. IV, 28 maggio 2015, n. 36247).

A sostegno di tale orientamento, si è ritenutoche, ai fini dell'aumento minimo di un terzo della pena per il reato più grave tra quelli in continuazione, la mancata applicazione della recidiva specifica reiterata (art. 99, comma 4, c.p.) non sia equiparabile all'ipotesi in cui tale aggravante sia ritenuta equivalente alle riconosciute attenuanti e si è precisato che è errata l'affermazione che la recidiva, in tali casi, debba ritenersi non incidente in concreto sull'entità della pena, trattandosi, al contrario, di aggravante riconosciuta e che, per tale ragione, non ha consentito l'effetto di decurtazione della pena riconducibile alle attenuanti. L'orientamento in parola ritiene non condivisibile l'opinione contraria in considerazione del fatto che, proprio il bilanciamento in equivalenza della recidiva con eventuali attenuanti, è sintomo inequivocabile del suo riconoscimento ai fini della commisurazione del trattamento sanzionatorio, sul quale incide in maniera concreta impedendo l'effetto di decurtazione della pena riconducibile alle stesse attenuanti. Si è inoltre posto in risalto che, ai fini del riconoscimento della correttezza della tesi che vuole l'operatività del limite ex art. 81, comma 4, c.p. in caso di bilanciamento equivalente della recidiva con le attenuanti, la recidiva deve ritenersi accertata nei suoi presupposti, ritenuta dal giudice ed applicata anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l'effetto alleviatore di una circostanza attenuante: anche in tal caso essa determina, infatti, tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio.

Pertanto, salvi i casi in cui il giudice di merito, esercitando il discrezionale potere di apprezzamento della gravità della condotta criminosa, abbia in modo espresso escluso la contestata recidiva, in quanto reputata non sintomatica di più accentuate colpevolezza e pericolosità dell'imputato, così radicalmente espungendola dal regime sanzionatorio applicabile, la recidiva medesima conserva inalterati gli effetti ulteriori (rispetto a quello suo proprio di addizione della pena base del reato) da essa derivanti ed incidenti sul regime sanzionatorio latamente inteso, quale quello, tra gli altri, previsto dal novellato art. 81, comma 4, c.p.: ciò sia che, in un eventuale giudizio di bilanciamento con possibili circostanze aggravanti, la recidiva reiterata sia stata stimata subvalente, sia che sia stata stimata equivalente rispetto alle attenuanti. In siffatta situazione la recidiva non può certo giudicarsi vanificata, poiché essa – come detto – è stata sia ritenuta (quale indice di maggior gravità del contegno criminoso del soggetto recidivo), sia in concreto applicata nel giudizio.

Secondo un orientamento da ritenersi minoritario (cfr., come prima pronuncia in tal senso, Cass. pen., Sez. V, 24 gennaio 2011, n. 9636), si afferma invece che, in tema di reato continuato e di bilanciamento con giudizio di equivalenza della recidiva reiterata di cui all'art. 99, comma 4, c.p. con un'attenuante, il limite di aumento, ex art. 81, comma 4, c.p., non inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave e previsto dalla legge nei confronti, appunto, dei soggetti recidivi reiterati, non è applicabile quando il giudice non abbia ritenuto la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la sanzione per i reati in continuazione o in concorso formale, escludendone così in relazione ad essi l'applicazione. La suprema Corte, nel caso di specie, ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha concesso all'imputato l'attenuante di cui all'art. 62, n. 4 c.p., ritenuta equivalente alle contestate aggravanti, tra cui la recidiva specifica reiterata, che sostanzialmente è stata ritenuta non incidente in concreto sull'entità della pena. Tale opzione (relativa alla non operatività del limite minimo per l'aumento previsto dall'art. 81, comma 4, c.p., nei confronti dei soggetti per i quali sia stata ritenuta la contestata recidiva reiterata, nel caso in cui il giudice ritenga la stessa equivalente alle circostanze attenuanti) è stata successivamente ribadita nella sentenza della Cass. pen., Sez. V, 27 gennaio 2015, n. 22980. La motivazione della sentenza da ultimo citata ritiene tale orientamento più aderente al dettato costituzionale, atteso che il giudizio di bilanciamento, nel quale la recidiva è ritenuta aggravante equivalente alle attenuanti riconosciute, è espressione dell'esercizio del potere del giudice di commisurare il trattamento sanzionatorio al caso concreto e di eliminare, quindi, tutti gli effetti pregiudizievoli della stessa recidiva.

Nella predetta sentenza, si richiamano, poi, le valutazioni espresse dalle Sezioni unite (Cass. pen., 27 maggio 2010, n. 35738) e la statuizione relativa al fatto che la recidiva reiterata di cui all'art. 99, comma 4, c.p. opera quale circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole di natura facoltativa, nel senso che è consentito al giudice di escluderla motivatamente e considerarla tamquam non esset ai fini sanzionatori, per affermare che anche il limite all'aumento ex art. 81 c.p. non inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave, previsto dalla legge nei confronti dei soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99 c.p., comma 4, deve considerarsi inoperante quando il giudice non abbia ritenuto la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la sanzione per i reati in continuazione o in concorso formale e, quindi, in concreto non l'abbia applicata; ciò perché – si dice – non v'è ragione per non equiparare l'esclusione della recidiva alle ipotesi in cui questa sia stata ritenuta equivalente alle riconosciute attenuanti, giacché essa, in tali casi, è stata considerata non incidente in concreto sull'entità della pena. Un'ulteriore pronuncia è poi intervenuta nel corso del 2015 a sostenere l'opzione minoritaria (Cass. pen., Sez. V, 26 giugno 2015, n. 43040) e a ribadire la non operatività del limite in caso di giudizio di bilanciamento, facendo leva su di un'articolata motivazione che analizza anzitutto il dato semantico offerto dallo stesso legislatore (applicare la recidiva, tenuto conto della sua particolare natura di circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole starebbe necessariamente a significare infliggere l'aumento di pena che ad essa si collega come conseguenza tipica del riconoscimento della sua configurabilità, poiché quest'ultima, pur rappresentando il presupposto necessario per la sua applicazione, si distingue dall'applicazione stessa innanzitutto sul piano del significato proprio delle parole); quindi, si valorizzano ragioni di ordine logico-giuridico, passando in rassegna disposizioni processuali nelle quali il verbo applicare è utilizzato in senso di concretamente irrogare una pena o un trattamento sanzionatorio; infine, si motiva l'adesione all'indirizzo minoritario, affermando, un argomento a contrario: ed infatti – si dice – la tesi opposta, che fonda il proprio ragionamento sulla considerazione che la recidiva sia stata, al tempo stesso, ritenuta ed applicata anche nel caso in cui venga valutata equivalente ad una o più circostanze attenuanti con essa concorrenti, perché comunque impedirebbe la diminuzione di pena prevista per le attenuanti (ci si confronta apertamente in sentenza con le affermazioni in tal senso di Cass. pen., Sez. un., n. 35738 del 2010 cit. e di Cass. pen., Sez. un., n. 17 del 1991), sembra proporre una soluzione, che, da un lato non tiene adeguatamente conto della distinzione ontologica tra il momento in cui la recidiva viene riconosciuta e quello della sua applicazione nel significato in precedenza indicato; dall'altro, si pone in contraddizione con il generale principio del favor rei, determinando un irragionevole e contraddittorio inasprimento del trattamento sanzionatorio, conseguente al limite minimo dell'aumento per la continuazione stabilito dall'art. 81, co. 4, c.p., anche nel caso in cui, attraverso il giudizio di equivalenza, si affievolisce quella “più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo”, espressa dalla recidiva di cui all'art. 99, co. 4, c.p.: in tal modo, infatti, due situazioni molto differenti tra loro, perché legate ad una diversa valutazione della personalità del reo e della gravità del reato (quali oggettivamente sono, rispettivamente, il giudizio di prevalenza ovvero di equivalenza della recidiva di cui all'art. 99, co. 4, c.p., rispetto alle circostanze attenuanti eventualmente con essa concorrenti, diversamente considerate dallo stesso legislatore, che vieta il primo, ma consente il secondo), vengono immotivatamente assimilate ai fini dell'inasprimento del trattamento sanzionatorio, contemplato dall'art. 81, co. 4, c.p.

2.

Con ordinanza n. 18935 in data 12 aprile 2016, la quinta Sezione della suprema Corte ha rimesso alle Sezioni unite la seguente questione se il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave, previsto dall'art. 81, comma 4, c.p. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all'art. 99, comma 4, c.p., operi anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.

3.

Con provvedimento in data 9 maggio 2016, il primo Presidente, preso atto dell'esistenza del contrasto giurisprudenziale, ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite penali fissando per la trattazione la pubblica udienza del 23 giugno 2016.

4.

All'udienza 23 giugno 2016, le Sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno preso la seguente decisione:

in tema di reato continuato, l'aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave, previsto dall'art. 81, comma 4, c.p. nei confronti dei soggetti ai quali è stata “applicata” la recidiva di cui all'art. 99, comma 4, c.p. opera anche quando la predetta recidiva sia ritenuta dal giudice equivalente alle circostanze attenuanti eventualmente concorrenti.

5.

Con sentenza n. 31669 (ud. 23 giugno 2016, dep. 21 luglio 2016, Filosofi), le Sezioni unite penali della suprema Corte hanno statuito che Il limite di aumento di pena non inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave, di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, stesso codice, opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.

La suprema Corte, dopo aver dato atto ed illustrato i termini del contrastante panorama giurisprudenziale esistente sulla questione, ha evidenziato come dovesse ritenersi del tutto pacifico che, con la riforma del 2005, il Legislatore abbia inteso intervenire con maggior rigore nei confronti del recidivo, discostandosi quindi dai diversi criteri che avevano ispirato il precedente intervento modificativo ad opera del d.l. 11 aprile 1974, n. 99, convertito dalla legge 7 giugno 1974, n. 220, prevedendo, in linea generale, più consistenti aumenti di pena ed altri effetti decisamente sfavorevoli, lasciando al giudice un ambito di azione più limitato nella graduazione della pena, come è appunto avvenuto con il limite imposto dall'art. 81, quarto comma, c.p.

Invero, il problema del limite di aumento minimo di pena a titolo di continuazione in caso di recidiva reiterata si pone solo nell'ipotesi in cui quest'ultima sia ritenuta dal giudice ed utilizzata nel giudizio di bilanciamento tra circostanze: da qui la necessità dell'individuazione della corretta accezione del verbo applicare utilizzato dall'art. 81, quarto comma, c.p.

Ritengono le Sezioni unite che l'aggravante della recidiva è riconosciuta ed applicata non soltanto quando è produttiva del suo effetto tipico di aumento dell'entità della pena, ma anche quando, in applicazione dell'art. 69 c.p., si determinino altri effetti, quali la neutralizzazione di una circostanza attenuante concorrente atteso che la recidiva richiede, da parte del giudice, un accertamento complesso e articolato, inerente la maggiore colpevolezza e l'aumentata capacità a delinquere, che solo se negativo esclude ogni conseguenza e che, invece, permane e sopravvive comunque alla valutazione comparativa operata nel giudizio di bilanciamento, perché, quando questo avviene, la recidiva è stata già riconosciuta ed applicata, essendole stata attribuita quell'oggettiva consistenza che consente il confronto con le attenuanti concorrenti: attività successiva, questa, rimessa alla discrezionalità del giudice.

Nell'operare il giudizio di comparazione, la recidiva si è già esaurita esplicando i suoi effetti “comparativi” ponendo nel nulla gli effetti (di diminuzione di pena) che sarebbero conseguiti al riconoscimento delle circostanze attenuanti concorrenti, evidenziandosi come anche in altre occasioni in cui la giurisprudenza di legittimità ha affrontato questioni comunque riferite alla recidiva, si è ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determini conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva. Ragionamento che non si pone in contraddizione con il principio del favor rei, dal momento che il giudice può tanto escludere radicalmente la recidiva, quanto ritenerla sussistente e confrontarla con le circostanze concorrenti, con esiti diversi circa la dosimetria della pena.

La decisione delle Sezioni unite appare ampiamente condivisibile.

Invero, ai fini dell'aumento minimo di un terzo della pena per il reato più grave tra quelli in continuazione, la mancata applicazione della recidiva specifica reiterata (art. 99, comma 4, c.p.) non è equiparabile all'ipotesi in cui tale aggravante sia ritenuta equivalente alle riconosciute attenuanti dovendosi ritenere errata l'affermazione contraria secondo cui la recidiva, in tali casi, deve ritenersi come non incidente in concreto sull'entità della pena: trattasi, al contrario, di aggravante riconosciuta e che, per tale ragione, non ha consentito l'effetto di decurtazione della pena riconducibile alle attenuanti. Invero, proprio il bilanciamento in equivalenza della recidiva con eventuali attenuanti, è sintomo inequivocabile del suo riconoscimento ai fini della commisurazione del trattamento sanzionatorio, sul quale incide in maniera concreta impedendo l'effetto di decurtazione della pena riconducibile alle stesse attenuanti. Conseguentemente, salvi i casi in cui il giudice di merito, esercitando il discrezionale potere di apprezzamento della gravità della condotta criminosa, abbia in modo espresso "escluso" la contestata recidiva in quanto reputata non sintomatica di più accentuate colpevolezza e pericolosità dell'imputato, così radicalmente espungendola dal regime sanzionatorio applicabile, la recidiva medesima conserva inalterati gli effetti ulteriori (rispetto a quello suo proprio di addizione della pena base del reato) da essa derivanti ed incidenti sul regime sanzionatorio latamente inteso, quale quello, tra gli altri, previsto dal novellato art. 81, comma 4, c.p.: ciò sia che, in un eventuale giudizio di bilanciamento con possibili circostanze aggravanti, la recidiva reiterata sia stata stimata subvalente, sia che sia stata stimata equivalente rispetto alle attenuanti. In siffatta situazione, la recidiva non può certo giudicarsi vanificata, poiché essa – come detto – è stata sia ritenuta (quale indice di maggior gravità del contegno criminoso del soggetto recidivo), sia in concreto applicata nel giudizio.

Le stesse Sezioni unite, come accennato in precedenza, hanno evidenziato come la giurisprudenza di legittimità, allorquando si è trovata ad affrontare in passato questioni riferite alla recidiva, ha più volte ritenuto che il giudizio di bilanciamento con altre circostanze concorrenti non determina conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva. E così, esemplificativamente, in tema di prescrizione, si è affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (cfr., Cass. pen., Sez. VI, 16 settembre 2015, n. 39849; Cass. pen., Sez. II, 18 giugno 2013, n. 35805; Cass. pen. Sez. I, 18 giugno 2009, n. 26786; cass. pen., Sez. V, 26 giugno 2008, n. 37550).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.