Sulla configurabilità del reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale in caso di sospensione della misura

17 Dicembre 2018

La questione che le Sezioni unite penali sono chiamate a risolvere attiene alla possibilità di ritenere sussistente il reato di cui all'art. 75 del codice antimafia nei confronti di un soggetto destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, la cui esecuzione sia stata sospesa ai sensi dell'art. 15 del codice antimafia per effetto di detenzione di lunga durata, allorché ..
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La questione che le Sezioni unite penali sono chiamate a risolvere attiene alla possibilità di ritenere sussistente il reato di cui all'art. 75 del codice antimafia nei confronti di un soggetto destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, la cui esecuzione sia stata sospesa ai sensi dell'art. 15 del codice antimafia per effetto di detenzione di lunga durata, allorché – al momento della scarcerazione dello stesso e della nuova sottoposizione a misura – non si sia proceduto a rivalutazione della pericolosità sociale a cura del giudice della prevenzione.

Il contrasto nasce dalla necessità di adeguare la preesistente normativa in materia di prevenzione alle ricadute concrete della sentenza n. 291/2013 della Corte costituzionale, che ha imposto in tali ipotesi un riesame, anche officioso, della pericolosità sociale ai fini della nuova sottoposizione alla misura in precedenza applicata.

Com' è noto, l'art. 75 del d.lgs. 159/2011 punisce con l'arresto da tre mesi a un anno il contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale nonché, al comma 2, con la reclusione da uno a cinque anni colui che violi gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno nel comune di abituale dimora.

È, dunque, evidente che perché possano configurarsi tali fattispecie la misura di prevenzione deve essere concretamente in esecuzione, ovvero non sospesa come, ad esempio, accade in caso di carcerazione del sottoposto ai sensi dell'art. 15 citato, modificato in parte qua per effetto della sentenza n. 291/2013 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità della norma nella parte in cui non prevedeva che, nel caso in cui l'esecuzione di una misura di prevenzione personale restasse sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona a essa sottoposta, l'organo che aveva adottato il provvedimento dovesse valutare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato al momento dell'esecuzione della misura.

Il quadro è stato, di recente, completato per effetto della l. 161/2017 che, risolvendo alcuni problemi interpretativi posti dai giudici, ha interpolato l'art. 14 stabilendo, tra l'altro, che l'esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l'interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena e che, qualora essa si sia protratta per almeno due anni, il tribunale che ha applicato la misura debba appunto rivalutare in contraddittorio l'attualità della pericolosità sociale dell'interessato, ordinando con decreto l'esecuzione della misura nel caso in cui tale giudizio abbia esito positivo e revocandola, invece, qualora ritenga cessata la pericolosità originariamente sussistente.

La presente questione si colloca, quindi, nell'alveo del delineato contesto normativo e concerne la possibilità di ritenere integrato il reato di cui all'art. 75 nonostante l'interessato sia stato scarcerato e risottoposto a misura di prevenzione senza che abbia avuto luogo, né di ufficio né su iniziativa del prevenuto, il citato giudizio circa l'attuale persistenza della sua pericolosità sociale.

L'ordinanza di rimessione coglie l'esistenza di un contrasto interpretativo all'interno della Suprema Corte tra chi propende per dare una risposta favorevole al quesito, sostenendo che in assenza di rivalutazione (ovvero qualora tale rivalutazione sia stata compiuta da altro giudice, come quello di sorveglianza) non si sia determinata un'automatica sospensione dell'efficacia della misura già irrogata e chi, al contrario, afferma che nelle more di tale giudizio la misura resti sospesa, con conseguente impossibilità di violarne gli obblighi.

Va, peraltro, osservato che tutte le sentenze di seguito citate sono anteriori alla novella del 2017 che ha, probabilmente, contribuito a risolvere la questione chiarendo in modo testuale che in caso di detenzione l'esecuzione della sorveglianza speciale rimane sospesa e, all'esito del giudizio di riesame della pericolosità, il giudice dovrà ordinare con decreto l'esecuzione della misura, dal che si potrebbe desumere – a contrario – che la stessa, prima di tale decreto, risulti non immediatamente eseguibile.

Pertanto, per il futuro questioni analoghe potranno porsi unicamente per le misure di prevenzione applicate in virtù del sistema normativo previgente rispetto al codice antimafia, ovvero per quelle irrogate in base a proposte avanzate prima dell'ottobre 2011.

Orientamento contrario alla configurabilità del reato. La Corte di cassazione, in un primo arresto, ha concluso che l'intervento additivo della Corte costituzionale ha determinato un fondamentale mutamento del quadro normativo di riferimento, nel senso che in ipotesi di soggetto sottoposto a misura di prevenzione personale che, successivamente all'adozione della misura, sia stato assoggettato a misura cautelare personale ovvero all'espiazione di pena detentiva per un apprezzabile periodo temporale, potenzialmente idoneo a incidere sullo stato di pericolosità in precedenza delibato, la misura stessa deve considerarsi sospesa nella sua efficacia fino a quando il giudice della prevenzione non ne valuti nuovamente l'attualità, alla luce di quanto desumibile in favore del sottoposto dall'esperienza della carcerazione patita.

Da tanto discendeva che uno status di sottoposto a misura di prevenzione inefficace al momento dell'accertamento della condotta di cui all'art. 75 d.lgs. 159/2011, in quanto non sorretto dalla rivalutazione dell'attualità della pericolosità sociale a suo tempo ritenuta dal giudice che adottò il provvedimento di prevenzione, comportava l'esclusione della rilevanza penale della condotta stessa (così Cass. pen., Sez. I, 5 dicembre 2014, n. 6878; Cass. pen., Sez. I, 8 gennaio 2015, n. 22547; Cass. pen., Sez. I, 13 giugno 2016, n. 33345).

Corollario di tali affermazioni è il principio secondo il quale - in caso di sospensione dell'esecuzione di una misura di prevenzione per la detenzione del destinatario - la valutazione di attuale pericolosità sociale, una volta cessata la carcerazione che giustifica l'esecuzione differita della misura, spetta al giudice del procedimento di prevenzione che ha applicato la medesima misura; tuttavia, ove siano denunciate violazioni delle prescrizioni a essa inerenti con applicazione di correlati provvedimenti di coercizione personale, il giudice del procedimento cautelare, che ne sia stato richiesto, deve verificare se la valutazione di attualità della pericolosità sociale sia stata o meno compiuta dall'autorità giudiziaria competente, costituendo essa presupposto di legittimità dell'esecuzione del provvedimento di prevenzione, rimasto sospeso, come tale incidente sul rilievo penale delle violazioni contestate in sede cautelare, e non può rifiutare tale verifica sulla base di una mera delimitazione di competenze tra giudice della misura cautelare coercitiva e giudice della misura di prevenzione, eseguita a distanza di tempo dalla sua adozione (così Cass. pen., Sez. 1, 29 settembre 2015, n. 48686).

Orientamento favorevole all'integrazione del reato. A tale impostazione si contrappone quella, enunciata da Cass. pen., Sez. I, 9 marzo 2017, n. 2790, secondo cui il mancato riesame della pericolosità al momento della cessazione dello status detentionis non introduce alcun automatismo in funzione dell'illegittimità dell'applicazione della misura di prevenzione o della sua inesistenza. Ciò perché la fase di delibazione genetica sulla condizione di pericolosità soggettiva si è svolta con esito positivo e ne ha indotto l'applicazione nel caso concreto; piuttosto, rileva sul piano dell'esecuzione la persistenza del profilo in esame, tema il cui scrutinio è rimesso al giudice della misura stessa.

La Corte costituzionale, infatti, ha spiegato che spetta all'applicazione giudiziale verificare i casi in cui si sarebbe potuto ragionevolmente omettere il riesame di pericolosità (per la plausibile continuità di quella condizione, alla luce per esempio di una breve e intermedia congiuntura detentiva).

Sulla scorta di queste premesse, la Suprema Corte conclude che non possa sic et simpliciter affermarsi che la misura di prevenzione debba considerarsi automaticamente

illegittima, inesistente ovvero sospesa ex lege nella sua efficacia, pure a fronte della sua esecuzione, fino a quando il giudice della prevenzione non abbia rivalutato l'attualità della pericolosità del sottoposto.

L'impostazione segnalata è vieppiù convincente, secondo la Corte, in ragione dell'immediata esecutività dei provvedimenti che applicano la misura di prevenzione e della mancata previsione di un regime sospensivo degli effetti in caso di impugnazione

(art. 10 d.lgs. 159/2011)

In conclusione, si afferma che la mancanza del giudizio di riesame non equivale ad automatica inesistenza (originaria o sopravvenuta) del titolo genetico, ovvero a una sua

sospensione ex lege: il presupposto di pericolosità sociale, condizione strutturale essenziale della misura che trae genesi dal titolo originario, continua infatti a esistere, perché adottato nel concorso delle condizioni legittimanti e all'esito della verifica giurisdizionale.

Ciò finché il giudice funzionalmente competente non provveda a operare una rivalutazione di segno contrario, con conseguente configurabilità del reato di cui all'art. 75 nei confronti del soggetto che, scarcerato dopo un apprezzabile periodo di detenzione e risottoposto a misura, non avesse attivato il menzionato procedimento di riesame della pericolosità sociale (ed esso non fosse stato nemmeno iniziato ex officio dal tribunale che l'aveva irrogata).

Nello stesso senso si registra anche Cass. pen., Sez. I, 9 maggio 2017, n. 29197.

2.

All'udienza del 20 marzo 2018 la prima Sezione penale (ordinanza n. 16332, Pres. Di Tomassi, est. Vannucci) ha rimesso al Primo Presidente della Corte Suprema di cassazione un ricorso che ha proposto la seguente questione oggetto di contrasto giurisprudenziale: se sia configurabile il reato di cui all'art. 75 del codice antimafia nei confronti di un soggetto destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di detenzione di lunga durata, anche qualora al momento della risottoposizione alla misura non si sia proceduto di ufficio ad una rivalutazione dell'attualità e persistenza della sua pericolosità sociale ad opera del giudice prevenzione, in base ai principi affermati da Corte cost., n. 291 del 2013, e tale rivalutazione non sia stata dallo stesso sollecitata.

3.

Il primo Presidente della Corte Suprema di cassazione ha assegnato alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'udienza pubblica del 21 giugno 2018, un ricorso che propone la seguente questione di diritto, ritenuta dalla prima sezione penale oggetto di contrasto giurisprudenziale: se sia configurabile il reato di cui all'art. 75 del codice antimafia nei confronti di un soggetto destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza speciale, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di detenzione di lunga durata, anche in assenza di una rivalutazione dell'attualità e persistenza della sua pericolosità sociale ad opera del giudice prevenzione al momento della risottoposizione a misura.

4.

All'esito dell'udienza del 21 giugno 2018 la Suprema Corte a Sezioni unite ha deciso la questione posta al suo esame, stabilendo che il reato di cui all'art. 75 del decreto legislativo 159 del 2011 non sussiste in mancanza della rivalutazione dell'attualità e persistenza della pericolosità sociale del proposto.

Nell'attesa di leggere e commentare le motivazioni della sentenza, è possibile osservare in questa fase che la Corte sembrerebbe aver aderito all'orientamento più risalente, secondo il quale nelle more del giudizio volto alla verifica circa l'attualità della pericolosità sociale la misura di prevenzione resta sospesa, con conseguente impossibilità di violarne gli obblighi.

È probabile che sulla soluzione adottata abbia pesato la novella introdotta con la legge 61 del 2017 che, come accennato, ha chiarito esplicitamente che in caso di detenzione per espiazione di pena l'esecuzione della sorveglianza speciale rimane sospesa e, all'esito del giudizio di riesame della pericolosità, il giudice dovrà ordinarne con decreto l'esecuzione (art. 14, comma 2-ter, codice antimafia).

5.

In data 13 novembre 2018 sono state depositate le motivazioni della sentenza in esame, che la Suprema Corte aveva riservato all'esito dell'udienza del 21 giugno 2018; è pertanto oggi possibile analizzare e comprendere il percorso logico-giuridico che ha condotto le Sezioni unite a risolvere la questione loro sottoposta, affermando il principio di diritto secondo il quale «nei confronti di un soggetto destinatario di una misura di sorveglianza speciale, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di una detenzione di lunga durata, in assenza di una rivalutazione dell'attualità e persistenza della sua pericolosità sociale a opera del giudice della prevenzione, la momento della nuova sottoposizione alla misura non è configurabile il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, previsto dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 75».

La Corte opera, come sempre in questi casi, una sintetica ma completa ricostruzione del panorama normativo e giurisprudenziale, nazionale ed euro-unitario, al fine di stabilire in via preliminare le coordinate entro le quali perimetrare il ragionamento.

In ordine a tale ultimo aspetto, si evidenzia come la giurisprudenza di legittimità non abbia fornito un univoco indirizzo interpretativo; risultano, in particolare, ben quattro diversi orientamenti ermeneutici che la Corte riassume, per analizzarli e scegliere quello che ritiene più conforme al diritto.

Secondo un primo orientamento (cfr. Cass. pen., Sez. I, n. 6878/2014, dep. 2015, Villani) nell'ipotesi di soggetto sottoposto a misura di prevenzione il quale, successivamente all'adozione della misura, sia assoggettato a misura cautelare personale ovvero alla espiazione di pena detentiva per un apprezzabile periodo temporale - potenzialmente idoneo ad incidere sullo stato di pericolosità in precedenza delibato - la misura stessa deve considerarsi sospesa nella sua efficacia fino a quando il giudice della prevenzione non ne valuti nuovamente l'attualità alla luce di quanto desumibile in favore del sottoposto dalla esperienza di carcerazione patita.

La valutazione dell'attualità della pericolosità operata all'esito della causa di sospensione (e dello svolgimento di attività trattamentali e risocializzanti come quelle collegate alla detenzione), quindi, diviene secondo questa impostazione un vero e proprio presupposto dell'eseguibilità della misura.

Pertanto, fino a quando tale nuova valutazione non venga effettuata dal giudice della prevenzione, anche alla luce del comportamento tenuto nel corso dell'esecuzione della pena, non può considerarsi sussistente il reato di inosservanza delle prescrizioni di cui all'art. 75 del codice antimafia, non essendo possibile esigere il rispetto di obblighi relativi a una misura non concretamente eseguita, né eseguibile.

Un contrapposto orientamento, sostenuto da Cass. pen., Sez. I, n. 2790/2017, Greco, ritiene invece che la mancata rivalutazione della pericolosità non determina una sospensione ex lege della misura di prevenzione, perché il nuovo esame della pericolosità sociale del destinatario – rimesso alla competenza funzionale del giudice della misura – non assurge al rango di condicio sine qua non per l'esecuzione immediata della stessa, né la sua mancanza equivale all'automatica inesistenza (originaria o sopravvenuta) del titolo genetico.

Tale orientamento ermeneutico trova, invero, supporto normativo nella disposizione dell'art. 10 del d.lgs. 159, che prevede l'immediata esecutività dei provvedimenti che applicano le misure di prevenzione e che non sono sospesi neanche in caso di loro impugnazione.

Meno categorici gli altri due precedenti che le Sezioni Unite richiamano.

Cass. pen., Sez. II, n. 12915/2015, Rango, aveva infatti effettuato un distinguo tra l'ipotesi in cui lo stato detentivo fosse determinato dall'espiazione pena e quella connessa all'applicazione di una misura cautelare, partendo dal presupposto che mentre la detenzione per espiazione di pena incrementa la possibilità, favorita dal trattamento rieducativo individualizzato, che intervenga l'attenuazione o la cessazione della pericolosità sociale del sottoposto, invece la sottoposizione a misura cautelare personale non consente di ritenere superata o attenuata la presunzione di attualità della pericolosità sociale emessa in sede di applicazione, ponendosi addirittura come indiretta conferma della sussistenza di essa, avuto riguardo alla ritenuta sussistenza di esigenze cautelari riferibili anche alla personalità dell'indagato e al concreto rischio di commissione di gravi reati.

Secondo tale pronuncia, quindi, non occorre alcuna rivalutazione della pericolosità sociale nell'ipotesi in cui la sospensione sia stata determinata dall'applicazione di misura cautelare che, a differenza della detenzione in espiazione pena, non prevede alcun trattamento specificamente finalizzato al reinserimento sociale.

Infine, la Corte richiama un ultimo orientamento, definito intermedio, secondo il quale

la persistenza della pericolosità sociale può essere oggetto di una valutazione incidentale e, quindi, il giudizio circa la perdurante efficacia della sottoposizione alla misura di prevenzione dopo un periodo di detenzione deve essere rimesso al giudice di merito competente in sede penale per il reato di cui all'art. 75 codice antimafia (così Cass. pen., Sez. I, n. 11619/2017, dep. 2018, Iaria).

Compiuta una ricognizione dei diversi orientamenti, le Sezioni Unite passano ad esaminare i dati normativi stratificatisi negli anni, anche alla luce dell'opera della Consulta.

Sotto tale profilo, si chiarisce che la legge 1423 del 1956, art. 11 (ora trasfusa nell'art. 14 del codice cntimafia) prevede che la sorveglianza speciale comincia a decorrere dal giorno in cui il decreto è comunicato all'interessato; il comma 2 stabilisce che se nel corso del termine stabilito il sorvegliato commette un reato per il quale riporti successivamente condanna e la sorveglianza speciale non debba cessare, il termine ricomincia a decorrere dal giorno nel quale è scontata la pena.

Il successivo art. 12 della l. 1423 (ora art. 15 del d.lgs. 159) prevede, invece, che il tempo trascorso in custodia cautelare seguita da condanna o in espiazione di pena detentiva non è computato nella durata dell'obbligo del soggiorno; pertanto, l'effetto sospensivo del corso della misura di prevenzione era previsto (nella legge 1423 e nel testo originario del codice antimafia) solamente per il sopravvenire di una condanna da espiare, mentre sfuggiva alla disciplina l'ipotesi in cui la misura di prevenzione fosse applicata a un soggetto già ristretto in carcere.

Questa lacuna ordinamentale era stata colmata dalla giurisprudenza di legittimità che, con orientamento costante, aveva postulato la distinzione tra il momento applicativo della misura di prevenzione, nel quale occorre valutare il dato dell'attualità della pericolosità sociale, e quello esecutivo della stessa, in cui tale presupposto non rilevava.

In particolare, si era affermata l'incompatibilità del solo momento esecutivo della misura di prevenzione con lo stato di detenzione, chiarendo che la misura poteva avere materialmente inizio solo allorché lo stato di detenzione fosse cessato e ferma restando la possibilità per il soggetto di chiederne la revoca anticipata per l'eventuale venir meno della sua pericolosità, proprio in virtù dell'espiazione e dell'incidenza positiva sulla sua personalità della funzione risocializzante della pena.

Il “diritto vivente” aveva, insomma, dato una risposta alla problematica dell'applicazione delle misure di prevenzione dopo un periodo di detenzione, precisando che «dovendosi distinguere tra momento deliberativo e momento esecutivo della misura di prevenzione e attenendo la sua incompatibilità con lo stato di detenzione del proposto unicamente alla esecuzione della misura stessa, questa può avere inizio solo quando tale stato venga a cessare, ferma restando la possibilità per il soggetto di chiederne la revoca, per l'eventuale venire meno della pericolosità in conseguenza dell'incidenza positiva sulla sua personalità della funzione risocializzante della pena» (così Cass. pen., Sez. unite, n. 100281/2007, Gallo).

Per tale ragione, non rilevando la concreta eseguibilità della misura al momento della sua applicazione, essa era irrogabile anche nei confronti di persona detenuta in espiazione di pena (cfr. Cass. pen., Sez. unite, n. 6/1993, Tumminelli) e persino in presenza di una condanna all'ergastolo.

Il principio è stato recentemente ribadito da Cass. pen., Sez. VI, n. 40270/2018, secondo cui la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza è applicabile anche a persona detenuta in espiazione dell'ergastolo, rispetto alla quale il presupposto applicativo dell'attualità della pericolosità può essere valutato nonostante lo stato di detenzione, giacché la pena in questione - quantunque, in linea di principio, perpetua e, come tale, teoricamente ostativa all'esecuzione della misura di prevenzione - è di fatto suscettibile di estinzione attraverso numerosi istituti previsti dall'ordinamento penale e, quindi, non è incompatibile con l'eseguibilità della misura stessa, alla quale è possibile dare corso una volta cessato lo stato detentivo del condannato, sempre che ne permanga la pericolosità sociale.

Dal nuovo indirizzo giurisprudenziale discendeva, quindi, la conseguenza che la misura di prevenzione poteva essere messa in esecuzione anche a distanza di tempo rispetto alla sua deliberazione, senza alcun approfondimento in ordine alla persistente pericolosità della persona ad essa sottoposta.

La necessità di valorizzare, invece, l'attualità della pericolosità sociale al momento della concreta esecuzione della misura (come, peraltro, già previsto nel contiguo sistema delle misure di sicurezza) è stata oggetto della questione di costituzionalità sollevata dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere e decisa dalla Consulta con la sentenza 291 del 2013, dichiarativa dell'illegittimità costituzionale della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 12 (ora D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 15), nella parte in cui non prevedeva che - nel caso in cui l'esecuzione di una misura di prevenzione personale restasse sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta - l'organo che aveva adottato il provvedimento di applicazione dovesse valutare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato nel momento dell'esecuzione della misura.

In detta materia, pertanto, come in quella delle misure di sicurezza, la valutazione della pericolosità sociale deve essere effettuata due volte: nella fase deliberativa dal giudice della cognizione, che andrà a verificarne la sussistenza al momento della pronuncia del decreto di applicazione della misura, e in seguito dal giudice dell'esecuzione, cui competerà accertarne l'attualità allorché la misura, già disposta, debba essere materialmente eseguita.

Il decorso di un rilevante lasso di tempo tra l'applicazione della misura e la sua esecuzione - osserva la Consulta - in uno con la funzione rieducativa assegnata dalla Costituzione alla pena, incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell'atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile; diversamente opinando, infatti, si affermerebbe una presunzione di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivarrebbe alla negazione della sua stessa funzione, come visto sacralizzata invece addirittura nella nostra Carta fondamentale.

Pertanto, se presunzione vi deve essere, dopo l'espiazione di una pena essa andrà intesa come di avvenuta risocializzazione del condannato, dal che discende la necessità di una rinnovata valutazione della sua pericolosità sociale nella prospettiva dell' esecuzione della misura.

In questo senso deporrebbero anche le pronunce che in epoca recente hanno affermato la necessità di dimostrare l'attualità della pericolosità sociale in sede di applicazione della misura, superando la presunzione semel mafioso sempre mafioso elaborata da parte della giurisprudenza di legittimità, anche nei confronti dei soggetti qualificati come portatori di pericolosità sociale cd. qualificata perché appartenenti alla criminalità organizzata ex art. 4 comma 1 lett. a) del codice antimafia (si veda per tutte la recente sentenza delle Sezioni unite n. 111 del 30 novembre 2017 (dep. 2018), Gattuso).

Interessante pure l'excursus che operano le Sezioni unite sugli approdi ermeneutici della giurisprudenza europea sul tema dell'esigenza di una valutazione dell'attualità della pericolosità sociale del destinatario di una misura di prevenzione: invero, premessa la compatibilità del sistema prevenzionale con i principi della Cedu (cfr. ad esempio la sentenza della Corte Edu del 22 febbraio 1994, Raimondo c. Italia), la Corte di Strasburgo ha ribadito la necessità che i requisiti che giustificano l'iniziale applicazione della misura debbano permanere anche durante la sua esecuzione (si veda la pronuncia del 6 aprile 2000, Labita c. Italia).

La codificazione dell'evoluzione del diritto vivente si è completata con la legge17 ottobre 2017, n. 161, che con l'art. 4 ha introdotto nel corpo del d.lgs. 59 del 2011, art. 14, i commi 2-bis e 2-ter.

Con il comma 2-ter viene previsto che l'esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l'interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena, aggiungendo che la verifica della pericolosità avviene ad opera del tribunale, anche d'ufficio, dopo la cessazione della detenzione protrattasi per almeno due anni.

Il tribunale competente deve, ai fini del decidere, assumere le necessarie informazioni presso l'amministrazione penitenziaria e l'autorità di pubblica sicurezza.

Se la pericolosità sociale è cessata, il tribunale emette decreto con cui revoca il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione; se, invece, persiste, il tribunale ordina l'esecuzione della misura di prevenzione, il cui termine di durata continua a decorrere dal giorno in cui il decreto stesso è comunicato all'interessato.

La norma, come si vede, positivizza il concetto di consistente lasso di tempo tra deliberazione della misura e sua applicazione, che la Corte Costituzionale aveva ritenuto necessario per operare la riattualizzazione della pericolosità sociale, senza tuttavia determinarlo con precisione, e che legge quantifica invece in due anni.

Il comma 2-bis prevede, poi, che l'esecuzione della sorveglianza speciale resti sospesa durante il tempo in cui l'interessato è sottoposto alla misura della custodia cautelare; tuttavia, in tale caso, il termine di durata della misura di prevenzione continua a decorrere dal giorno nel quale è cessata la misura cautelare, con redazione di verbale di sottoposizione agli obblighi.

Le nuove norme, nel dare attuazione al contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 291 del 2013, completano quindi il disegno normativo, sciogliendo i residui dubbi interpretativi posti dalla giurisprudenza e innanzi riepilogati.

Al termine del percorso argomentativo or ora analizzato, le Sezioni Uunite giungono alla

soluzione del caso loro sottoposto, affermando di convenire con il primo orientamento ermeneutico citato.

Ciò in base a plurime ragioni, che la Corte rintraccia in tutte le diverse fonti analizzate: in primis, nella ricordata sentenza della Corte costituzionale secondo cui l'accertamento dell'attualità della pericolosità sociale costituisce un presupposto legittimante non solo per l'applicazione delle misure di prevenzione personali, ma anche per la loro materiale esecuzione, in analogia con quanto previsto in tema di misure di sicurezza; poi, nei più recenti approdi interpretativi della giurisprudenza di legittimità e di quella europea che hanno incrinato il concetto di presunzione di pericolosità, valorizzando invece l'esigenza di accertarne l'attualità e la persistenza caso per caso; infine, nella stessa evoluzione legislativa che, come visto, avalla l'interpretazione secondo cui la detenzione di durata apprezzabile determina una sospensione dell'esecuzione della misura che non cessa di per sé con la cessazione della detenzione, ma permane fino a quando il tribunale competente non accerti la persistenza della pericolosità dell'interessato.

Si richiamano, quindi, i tre “pilastri” della decisione: gli orientamenti costituzionali e convenzionali prima ricostruiti, la più recente giurisprudenza nazionale di legittimità in tema di attualità della pericolosità sociale e la recente evoluzione della legge sul punto.

Da ciò consegue che la nuova verifica da parte del giudice dell'esecuzione della prevenzione circa l'attualità della pericolosità sociale del destinatario - al momento in cui viene meno la causa di sospensione legata alla prolungata detenzione - costituisce ormai una vera e propria condizione di efficacia della (già irrogata) misura di prevenzione.

Tanto comporta che, in difetto di tale accertamento, non sussisterà il reato di cui all'art. 75 del codice antimafia perché - non avendo ancora efficacia il provvedimento genetico della misura e delle relative prescrizioni comportamentali - non sarà esigibile il loro rispetto da parte del destinatario e, correlativamente, la loro violazione non integrerà il fatto penalmente rilevante punito della citata norma incriminatrice.

La citata soluzione appare senza dubbio condivisibile e, anzi, finanche in qualche modo

“necessitata” all'indomani delle riforme apportate con la legge 161/2017 che davvero non sembrano lasciare spazio, specie con l'art. 14 comma 2 ter prima richiamato, a interpretazioni di segno diverso.

Parimenti indispensabile il richiamo, sul tema, alla sentenza della Consulta in materia di verifica della persistenza della pericolosità prima della esecuzione della misura.

Colpisce, invece, il riferimento alla sentenza n. 111/2018 (ric. Gattuso) che - se certo ribadisce la necessità di accertare il requisito dell'attualità della pericolosità del proposto anche in presenza di indizi di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso - lo fa chiaramente riferendosi non già al momento esecutivo della misura, cui attiene la presente questione, bensì al diverso momento deliberativo della stessa e alle valutazioni funzionali all'applicazione di misure di prevenzione.

Si tratta di un richiamo che può valere senza dubbio quale indicazione di massima sugli orientamenti del “diritto vivente”, ma che non spiega - a giudizio di chi scrive - un'efficacia dirimente ai diversi fini del giudizio di rivalutazione della pericolosità al momento dell'esecuzione della misura.

Ciò anche perché mentre la soluzione adottata in punto di esecuzione appare assolutamente chiara, all'indomani della novella del 2017, nel senso della non configurabilità di alcuna presunzione di persistenza della pericolosità e della correlativa necessità di un puntuale accertamento della stessa da parte del giudice dell'esecuzione, non altrettanto è a dirsi riguardo all'esistenza di meccanismi presuntivi circa la prova dell'attualità della pericolosità in fase deliberativa.

Infatti, sul punto la pur recente pronuncia delle Sezioni unite n. 111 è stata in qualche modo “smentita” (o almeno ridimensionata) dalla successiva n. 23128 del 15 marzo 2018 (ric. Formoso, Rv. 272880 – 01) della Seconda Sezione, che ha invece riaffermato l'esistenza di una presunzione, sia pur ovviamente iuris tantum, di pericolosità sociale in capo a soggetti appartenenti alle “mafie storiche” (mafia, camorra, 'ndrangheta e sacra corona unita), quanto meno in presenza di «elementi indicatori della persistenza e attualità del vincolo quali la rilevanza del tipo di contributo fornito all'associazione mafiosa e la condivisione del progetto antagonista e antistatuale dell'associazione mafiosa, manifestatosi nella reiterata commissione di crimini violenti finalizzati agli scopi criminali dell'associazione».

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