Appello avverso l'ordinanza applicativa di una misura cautelare. L'inammissibilità può essere dichiarata de plano?

Emilia Conforti
11 Gennaio 2019

Se l'appello avverso un'ordinanza applicativa di una misura cautelare – nella specie, una misura interdittiva disposta a carico di una società – possa essere dichiarato inammissibile anche senza formalità ex art. 127, comma 9, c.p.p., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito...
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Le Sezioni unite della Suprema Corte sono chiamate a intervenire sul contrasto inerente l'osservanza delle forme procedimentali prodromiche alla declaratoria di inammissibilità di cui all'art. 127 c.p.p. dell'impugnazione proposta dinnanzi al tribunale del riesame.

In particolare, con ordinanza emessa in data 19 gennaio 2018 (dep. in data 7 giugno 2018), n. 26032 la sesta Sezione della Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni unite penali il seguente contrasto interpretativo:

«se l'appello avverso un'ordinanza applicativa di una misura cautelare – nella specie, una misura interdittiva disposta a carico di una società – possa essere dichiarato inammissibile anche senza formalità ex art. 127, comma 9, c.p.p., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa».

La soluzione assume notevoli risvolti pratici in ordine alla possibilità per le parti di essere avvisate della data dell'udienza e, quindi, della eventuale sanabilità della riscontrata irregolarità del rapporto processuale.

Inoltre, sebbene in termini più generali, la questione sottende diversi e complessi piani e istituti.

Da un lato, infatti, risulta coinvolto il rapporto esistente fra l'art. 127 c.p.p. in materia di procedimenti camerali e l'art. 591, comma 2, c.p.p., concernente le forme e le modalità della declaratoria di inammissibilità.

Dall'altro, sulla scorta della fattispecie concreta da cui si è originata l'ordinanza di rimessione alle Sezioni unite - avente ad oggetto la misura interdittiva cautelare del divieto di contrarre con la P.A., subordinata al deposito di una cauzione e alla prova di adempimento di un piano strategico di intervento presentato dall'ente, applicata alla società Romeo Gestioni Spa – il contrasto interpretativo sottende anche il tipo di rapporto, se di contatto, intersezione o divergenza, del procedimento di impugnazione dei provvedimenti che applicano le misure cautelari agli enti collettivi – la cui applicazione, ex art. 47 comma 2 decreto legislativo n. 231 del 2001 prevede un contraddittorio "anticipato" delle parti – rispetto ai principi che governano la rilevazione delle cause di inammissibilità e la verifica della persistenza dell'interesse a impugnare.

Infatti, nel caso dell'adozione delle misure cautelari nei confronti degli enti collettivi l'applicazione della misura non è rimessa a una decisione de plano, pronunciata dal giudice inaudita altera parte, ma si fonda sulla valorizzazione del contributo dialettico offerto dalle parti quale strumento più efficace per porre il giudice nella condizione di adottare una misura interdittiva, che, come è intuibile, può avere conseguenze particolarmente invasive sulla vita e sulle modalità di funzionamento della persona giuridica.

Ciò posto e scendendo più nel dettaglio, alle radici del contrasto si registrano due orientamenti, l'uno, ispirato ad una lettura semplificata delle norme in gioco, che valorizza il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, ex art. 111 Cost. e la insanabilità dei profili di inammissibilità dell'impugnazione, l'altro teso a offrire una lettura costituzionalmente orientata dei principi e delle norme che regolano la materia.

La posizione della declatoria de plano. Secondo l'orientamento giurisprudenziale che privilegia una lettura semplificata della procedura – sostenuto, tra gli altri, da Cass. pen., Sez. III, n. 34823/2017, Cass. pen., Sez. II, n. 18333/2016; Cass. pen., Sez. II, n. 22165/2013 – la inammissibilità dell'istanza di riesame, concernendo la irregolarità della impugnazione da un punto di vista oggettiva e soggettiva del provvedimento, dell'interesse ad impugnare, della legittimazione attiva nonchè dei tempi e delle forme dell'atto di impugnazione, va dichiarata de plano, senza necessità di fissare l'udienza camerale e di avvisare i difensori.

In tal caso, si valorizza e trova applicazione l'art. 127, comma 9, c.p.p. secondo cui l'inammissibilità dell'atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura, salvo che sia diversamente stabilito.

Tale soluzione valorizza il contenuto testuale delle norme di riferimento quali l'art. 127 e l'art. 324 c.p.p. che, si osserva, altrimenti risulterebbero disapplicate.

Inoltre, in relazione alla eccezione del principio del contraddittorio contemplato dall'art. 111, comma 2, Cost. i sostenitori di tale posizione ermeneutica rilevano che l'art. 127 c.p.p. rappresenti una deroga, non irragionevole e coinvolgente il valore costituzionale della ragionevole durata del processo, al principio ivi enunciato.

Infatti, l'art. 111, comma 2, Cost. enuncia un principio generale che richiede una norma di legge che lo declini: nel sistema processuale la regola generale normativamente prevista è quella della dichiarazione di inammissibilità de plano, “salvo che” la legge disponga diversamente proprio in applicazione del principio costituzionale fissato dall'art. 111 Cost.

Inoltre, tale orientamento sostiene che il diritto al contraddittorio debba essere garantito nei procedimenti in cui l'intervento delle parti all'udienza camerale possa introdurre elementi utili alla decisione, diversamente dalle ipotesi di inammissibilità in cui l'interlocuzione postuma delle parti non è idonea a sanare i vizi di ammissibilità dell'impugnazione posto che in tal caso si è al cospetto di un vizio genetico del rapporto di impugnazione che, in quanto tale, preclude l'instaurarsi di un valido rapporto processuale.

La posizione che ritiene necessaria l'udienza camerale partecipata. Diversa è la soluzione interpretativa sostenuta dal secondo orientamento – fra gli altri, Cass. pen., Sez. III, n. 11690/2015; Cass. pen., Sez. II, n. 4260/2014 – secondo cui, considerato che l'art. 111 Cost. garantisce il contraddittorio nell'ambito di ogni procedimento penale, principale o incidentale, sia di merito che di legittimità, la declaratoria di inammissibilità dell'istanza di riesame proposta avverso una misura cautelare reale deve essere pronunciata non già de plano ma nel contraddittorio delle parti ex artt. 324, comma 6, e 127, comma 1, c.p.p., ossia all'esito dell'udienza camerale partecipata.

Tale posizione fa leva su una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 324 e 127 c.p.p. e del principio del contraddittorio contenuto nell'art. 111 Cost., che impone di leggere diversamente la regola contenuta nell'art. 127, comma 9, c.p.p., secondo la quale la inammissibilità dell'atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura, salvo che sia altrimenti stabilito.

In particolare, si osserva che il parametro normativo di riferimento immediatamente applicabile e che "stabilisce altrimenti" sarebbe proprio l'art. 111, comma 2, Cost., il quale impone in maniera solenne la garanzia del contraddittorio per ogni procedimento, principale o incidentale, di merito o di legittimità e, quindi, anche per ogni ordinanza dichiarativa di inammissibilità dell'impugnazione.

Inoltre, secondo tale indirizzo giurisprudenziale, una soluzione ermeneutica del tipo così prospettato risulta coerente con la possibilità di proporre ulteriori motivi di gravame in udienza, in quanto la presenza del difensore o dell'interessato potrebbe anche consentire al tribunale del riesame di individuare meglio l'oggetto dell'impugnazione.

Gli istituti coinvolti e i profili rilevanti nella risoluzione del contrasto giurisprudenziale. Come anticipato, il contrasto giurisprudenziale in esame sottende l'analisi di ulteriori profili suscettibili di incidere in maniera significativa nella soluzione interpretativa della Suprema Corte e che, sulla scorta della diffusa trattazione dell'ordinanza di rimessione, appare necessario richiamare.

La pronuncia delle Sezioni unite, infatti, ricade in un sistema in cui, accanto al modello camerale tipico di cui all'art. 127 c.p.p., l'ordinamento prevede anche altri schemi camerali atipici e la distinzione fra le cause originarie e sopravvenute di inammissibilità, unitamente alla recente riforma della declaratoria di inammissibilità nel giudizio di Cassazione, conduce a ritenere che non per tutte le cause di inammissibilità è possibile agire de plano ed in assenza di contraddittorio.

Al contempo, deve considerarsi che risulta peculiare il procedimento di adozione dei provvedimenti cautelari nei confronti delle persone giuridiche e la incidenza , sul procedimento di impugnazione, della intervenuta revoca della misura, trattandosi di istituto che, nel caso di responsabilità degli enti disciplinata dal d.lgs 231/2001, come vedremo, opera in maniera peculiare in relazione alla estinzione della misura cautelare applicata.

(Segue). Il raccordo fra la declaratoria di inammissibilita' delle cause di impugnazione e l'udienza camerale di cui all'art. 127 c.p.p. In particolare, quanto al raccordo fra la declaratoria di inammissibilità delle cause di impugnazione e la necessità che queste vengano rilevate e dichiarate nel rispetto delle forme previste dall'art. 127 c.p.p. deve osservarsi che la giurisprudenza (cfr. da ultimo, Cass. pen., Sez. VI, n. 48752/2013) appare pacifica nel ritenere che il provvedimento, in tali evenienze, non deve essere preceduto dagli adempimenti previsti in via generale dall'art. 127 c.p.p. per i procedimenti in camera di consiglio, né, in particolare, dall'avviso alle parti della data dell'udienza (Cass. pen., Sez. V, n. 1041/1992).

L'art. 127 c.p.p., infatti, non si ritiene applicabile a tutti i casi nei quali il giudice delibera in camera di consiglio ma solo a quelli per i quali la legge espressamente prevede l'applicazione di tale procedura.

A ciò si aggiunga che l'art. 591, comma 2, c.p.p., norma generale in tema di inammissibilità del gravame, si limita a disporre, per quel che attiene alla forma e alle modalità di pronunzia della declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione, che il giudice, anche d'ufficio, la dichiara con ordinanza, senza richiamare le previsioni dettate dall'art. 127 c.p.p.

In tal senso, le Sezioni unite (Cass. pen., Sez. unite., n. 14991/2006, De Pascalis) hanno affermato che, quando il Legislatore vuole che si proceda nel contraddittorio delle parti, prevede espressamente il procedimento in camera di consiglio.

Di conseguenza, debbono ritenersi radicalmente escluse le forme del rito camerale di cui all'art. 127 c.p.p. nel caso in cui difetti l'indicazione normativa che la decisione deve essere adottata all'esito di un procedimento in camera di consiglio, oppure la disposizione di specie stabilisca che il giudice delibera "senza formalità", o faccia uso di altre analoghe espressioni.

Ciò posto, in tale cornice devono essere valutati due ulteriori aspetti che assumono rilevanza nell'elaborazione della soluzione ermeneutica delle Sezioni unite.

In particolare, giova evidenziare che, accanto al modello camerale tipico delineato dall'art. 127 c.p.p., il sistema contempla anche altri schemi procedimentali atipici che si distinguono a seconda del differente grado di garanzia del contraddittorio che in essi è assicurato e che risultano in linea con l'elaborazione giurisprudenziale sul “diritto a un tribunale” offerta dalla Corte Edu (Corte Edu, 16 giugno 2015, Mazzoni c. Italia, n. 20485/06; Corte Edu, 15 settembre 2016, Trevlsanato c. Italia, n. 32610/07).

Quest'ultima, in relazione al “diritto a un tribunale”, di cui il diritto di accesso costituisce un aspetto particolare, sostiene trattarsi di un diritto non assoluto ma suscettibile di limitazioni, soprattutto per quanto riguarda le condizioni di ricevibilità di un ricorso, da parte dello Stato nei limiti in cui esista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi utilizzati e lo scopo perseguito (Corte Edu, 19 febbraio 1998, March Gallego S.A. c. Spagna, § 34).

Di conseguenza, si sostiene che il diritto di accesso viene leso quando la sua regolamentazione cessa di essere utile agli scopi della certezza del diritto e della buona amministrazione della giustizia e costituisce una sorta di barriera che impedisce alla parte in causa di vedere la sostanza della sua lite esaminata dall'autorità giudiziaria competente (Corte Edu, Khalfaoul c. Francia, 14 dicembre 1999, n. 34791/97; Corte Edu, 20 aprile 1999, Mohr c. Lussemburgo, n. 29236/95).

Risultano dunque coerenti con queste linee interpretative gli schemi procedimentali atipici diversi dall'art. 127 c.p.p. contemplati dall'ordinamento.

Tali sono, ad esempio, quelli previsti da a) norme nelle quali il riferimento al procedimento in camera di consiglio è rafforzato dall'espresso richiamo alle forme dell'art. 127 (artt. 32, comma 1; 41, comma 3; 263, commi 2 e 5; 269, comma 2; 309, comma 8; 310, comma 2; 311, comma 5; 324, comma 6), ovvero, pur non essendo seguito da analogo rinvio neppure è connotato da formule derogatorie del contraddittorio eventuale, che autorizzano il giudice a deliberare senza la osservanza di alcuna formalità; b) le norme che, pur facendo riferimento al procedimento in camera di consiglio, prevedono, viceversa, la specifica deroga all'osservanza delle forme di cui all'art. 127 c.p.p. (art. 624, comma 3); c) le norme che non prescrivono la procedura in camera di consiglio, nè le forme dell'art. 127 e neppure il generico obbligo di sentire le parti (ad es., in tema di applicazione e di estinzione delle misure cautelari personali, gli artt. 292, comma 1, 299, comma 3, e 306, comma 1: il giudice provvede con ordinanza), così da ritenersi tacitamente autorizzata la deliberazione de plano, ovvero prevedono espressamente la esclusione del contraddittorio e l'adozione del provvedimento de plano mediante le perifrasi senza formalità di procedura, senza ritardo, anche d'ufficio (artt. 36, comma 3; 127, comma 9; 591, comma 2; 625-bis, comma 4, c.p.p.); d) le norme, infine, che semplificano il contraddittorio camerale secondo forme più deboli, anche se non necessariamente cartolari, rispetto a quelle previste dall'art. 127 (artt. 304, comma 3; 305, comma 2; 406, comma 4, e, precipuamente, 611, comma 1, per il procedimento camerale davanti la Corte di cassazione), ovvero lo rafforzano mediante la prescritta partecipazione necessaria delle parti (artt. 391, comma 1; 401, comma 1; 420; 469; 666, comma 4).

Inoltre, deve considerarsi che in seno alla disciplina generale della inammissibilità contemplata dall'art. 591 c.p.p. l'evoluzione giurisprudenziale ha ritenuto immanente nel sistema la dicotomia tra cause originarie e sopravvenute di inammissibilità, sottolineando come la mancata enunciazione dei motivi costituisca una causa originaria di inammissibilità dell'impugnazione, preclusiva anche della applicabilità dell'art. 129 c.p.p., perché inidonea ad introdurre un nuovo grado di giudizio, e altresì individuando, come ulteriore causa di inammissibilità originaria, la mancanza di specificità dei motivi, così da coinvolgere nel regime della inammissibilità originaria anche i vizi concernenti i motivi di ricorso.

La suesposta distinzione, considerata la reale consistenza e il tenore della irregolarità presentata dall'instaurando rapporto processuale, produce effetti notevoli sulla necessità che la declaratoria di tale vizio avvenga o meno in contraddittorio fra le parti.

La giurisprudenza ha, invero, individuato diverse ipotesi di inammissibilità originaria, alla stregua del principio di unicità dell'atto di impugnazione, ravvisandola nella mancanza dei motivi (Cass. pen., Sez. VI, n. 6327/1994), ovvero nella non specificità degli stessi (Cass. pen., Sez. III, n. 4957/1994), nell'assenza di legittimazione al gravame (Cass. pen., Sez. II, n. 4822/1991), nella mancanza di interesse al gravame, purchè non sopravvenuta alla proposizione dell'atto di impugnazione (arg., a contrario, da Sez. unite, n. 10/1995), nel qual caso ci si troverebbe dinanzi a un'ipotesi di inammissibilità sopravvenuta (Sez. unite., n. 20/1996; Sez. unite, n. 7/1997).

In relazione a tale ultimo profilo e, dunque, con specifico riguardo alla definizione e all'ambito di applicazione delle cause di inammissibilità sopravvenuta, deve osservarsi che le Sezioni unite (n. 6624/2011) hanno affermato che l'interesse richiesto dall'art. 568, comma 4, c.p.p., quale condizione di ammissibilità dell'esercizio del diritto d'impugnazione, deve essere connotato dai requisiti della concretezza e dell'attualità, e deve sussistere non soltanto all'atto della proposizione dell'impugnazione, ma persistere fino al momento della decisione, perché questa possa potenzialmente avere una effettiva incidenza di vantaggio sulla situazione giuridica devoluta alla verifica del giudice dell'impugnazione (Cass. pen., Sez. unite, n. 10372/1995; Cass. pen., Sez. unite, n. 20/1996).

Di conseguenza, con riferimento a quest'ultimo aspetto, la Corte ha delineato la categoria della carenza d'interesse sopraggiunta, il cui fondamento risiede nella valutazione negativa della persistenza, al momento della decisione, dell'interesse all'impugnazione, la cui attualità è venuta meno a causa della mutata situazione di fatto o di diritto intervenuta medio tempore, che assorbe e supera la finalità perseguita dall'impugnante.

Ciò può avvenire perché lo scopo perseguito dall'impugnante ha già trovato concreta attuazione (si pensi, in materia di revoca di misura interdittiva, alla sopravvenuta estinzione della medesima nel corso del procedimento d'impugnazione), oppure perché ha perso ogni rilevanza (si pensi, in tema di scadenza dei termini di durata massima della custodia cautelare in carcere, alla intervenuta sentenza di condanna irrevocabile a pena detentiva superiore al presofferto).

A fronte di tali esemplificative situazioni si è affermato che il rapporto processuale d'impugnazione, concepito come prosecuzione del rapporto processuale originario, inevitabilmente perde di significato e non può trovare ulteriore spazio, essendo intervenuto, per eventi verificatisi medio tempore, il superamento del punto controverso in conseguenza della "cristallizzazione" del rapporto giuridico di base (Cass. pen., Sez. unite, n. 6624/2011, Marinaj).

In tale prospettiva, la Suprema Corte sostiene che l'interesse all'impugnazione deve essere valutato alla stregua dell'intero complesso delle norme che regolano gli effetti dell'atto impugnato (Cass. pen., Sez. unite, n. 20/1993, Durante) e che lo stesso deve essere individuato attraverso un criterio di misurazione visto sia in negativo (la rimozione di un pregiudizio), che in positivo (il conseguimento di una utilità), ponendo in comparazione fra loro dati processuali concretamente individuabili: il provvedimento impugnato e quello che il giudice ad quem potrebbe emanare in accoglimento dell'impugnazione (Cass. pen., Sez. unite, n. 6624/2011, Marinaj)..

Di conseguenza, deve concludersi che la verifica della sussistenza dell'interesse all'impugnazione può non risolversi in un'operazione di agevole e pronta definizione ma spesso richiede un accertamento complesso circa l'individuazione dei suoi presupposti, la cui puntuale ricostruzione ben difficilmente potrebbe essere svolta ed approfondita nell'ambito di una procedura sottratta alla piena esplicazione del contraddittorio con le parti.

Da ultimo, deve rilevarsi che in tale solco sembra porsi anche la recente riforma legislativa che ha investito le procedure di verifica dell'ammissibilità del ricorso in Cassazione, attraverso la disposizione dì nuovo conio di cui all'art. 610, comma 5-bis, c.p.p., introdotta dall'art. 1, comma 62, della legge 23 giugno 2017, n. 103.

La riforma, infatti, è imperniata sulla distinzione tra cause di inammissibilità diagnosticabili oggettivamente (inammissibilità c.d. formali) e cause di inammissibilità per riscontrare le quali siano invece necessarie valutazioni che superino l'evidenza o comunque l'oggettività delle situazioni che vengono in rilievo.

Il Legislatore ha, dunque, inteso differenziare le cause di inammissibilità in ragione della loro complessità di accertamento, prevedendo, per quelle immediatamente riconoscibili e difficilmente contestabili, l'inutilità o comunque l'antieconomicità dell'intervento, sia pure cartolare, del ricorrente, e, al contempo, sollevando la Corte di cassazione dall'obbligo di attivazione della procedura camerale e dall'espletamento degli incombenti relativi alla comunicazione degli avvisi.

In termini generali, si ritiene che l'introduzione di un sistema di tal genere sia in grado di incidere sul piano applicativo non solo sui meccanismi di rilevazione delle singole cause di inammissibilità nel giudizio di cassazione, ma, potenzialmente, risulta suscettibile di estendersi, come criterio orientativo di verifica, anche alle modalità di trattazione dei procedimenti, principali o incidentali, di merito.

(Segue). I rapporti con l'impugnazione delle misure cautelari applicate agli enti collettivi d.lgs. 231/2001. Così delineato il quadro dei principi che governano la rilevazione delle cause di inammissibilità dell'impugnazione e i profili problematici relativi alla verifica della persistenza dell'interesse a impugnare, l'ordinanza di rimessione si spinge ad analizzare il tipo di rapporto, se di contatto o di divergenza, profilabile con le peculiarità che connotano i procedimenti di applicazione – di spiccata connotazione dialogica – e impugnazione delle misure cautelari applicate nei confronti degli enti collettivi, così come disciplinati dal d.lgs. 231/2001, e, dell'eventuale incidenza sul rapporto processuale del particolare operare della revoca – causa di estinzione della misura cautelare applicata – contemplata nel decreto in esame agli artt. 17 e 49 e 45 e 50.

Va premesso che nel sistema di responsabilità degli enti collettivi delineato dal d.lgs. 231/2001 il peculiare modo di operare degli istituti codicistici è, anzitutto, rilevabile dal sistema delle impugnazioni delle misure cautelari applicate nei confronti dell'ente collettivo che, ex art. 52, non contempla il riesame ma prevede esclusivamente la possibilità di proporre l'appello e il ricorso per cassazione, disciplinati attraverso un complesso sistema di richiami normativi alle disposizioni di cui agli artt. 322-bis, commi 1-bis e 2, e 325 c.p.p..

In particolare, quanto all'appello, si osserva che il richiamo non condizionato ai commi 1-bis e 2 dell'art. 322-bis c.p.p. impone di seguire, attraverso il rinvio all'art. 310, che, a sua volta, richiama l'art. 309 c.p.p., le forme e le cadenze temporali tipiche dell'appello in materia di misure cautelari reali, con la conseguenza che l'applicazione del relativo modello procedimentale deve svolgersi con le forme previste dall'art. 127 c.p.p. (art. 310, comma 2, c.p.p.), ivi compresa quella della possibile dichiarazione di inammissibilità anche senza formalità, ai sensi dell'art. 127, comma 9, c.p.p..

Peculiare è, altresì, il procedimento applicativo delle misure cautelari che risulta basato sulla previsione di un contraddittorio "anticipato" delle parti e senza che, come vedremo, questo voglia significare che l'ente rinunci preventivamente alla contestazione dei presupposti di legittimità della misura nel caso in cui venga avanzata la richiesta di realizzazione degli adempimenti riparatori al cui perfezionamento la legge condiziona l'escluslone delle sanzioni interdittive.

In particolare, si osserva che proprio le conseguenze particolarmente invasive che possono scaturire per la vita e il funzionamento della persona giuridica dall'adozione di una misura interdittiva sono alla base dell'art. 47, comma 2 secondo cui «se la richiesta di applicazione della misura cautelare è presentata fuori udienza, il giudice fissa la data dell'udienza e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all'ente e ai difensori. L'ente e i difensori sono altresì avvisati che, presso la cancelleria del giudice, possono esaminare la richiesta dal pubblico ministero e gli elementi sui quali la stessa si fonda».

Di conseguenza, l'adozione della misura non è rimessa a una decisione de plano, pronunciata dal giudice inaudita altera parte, ma si fonda sulla valorizzazione del contributo dialettico offerto dalle parti.

Inoltre, in tale cornice normativa si colloca la figura della revoca che, come vedremo, può costituire il risultato di una valutazione ex ante, nel caso in cui il giudice ritenga insussistenti ab origine i presupposti legittimanti il provvedimento cautelare, ovvero ex post, nel caso in cui questi ultimi, pur sussistenti al momento della disposizione della cautela, siano successivamente venuti meno.

Nella struttura del decreto, la finalità dell'istituto è quella di incentivare il ravvedimento post factum dell'ente secondo una logica premiale che mira a privilegiare la compensazione dell'offesa rispetto alla mera punizione dell'illecito: se la società adempie tempestivamente ed in modo corretto, il giudice revoca la misura cautelare e ordina la restituzione della somma depositata o la cancellazione dell'ipoteca, mentre in caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine fissato, la misura cautelare viene ripristinata e la somma depositata, o per la quale è stata data garanzia, viene devoluta alla cassa delle ammende, art. 49, comma 3.

Se si realizzano le condizioni previste dall'art. 17 interviene la fattispecie estintiva della misura, sicchè il giudice ne dispone la revoca insieme alla restituzione della cauzione ovvero la cancellazione dell'ipoteca, mentre la fideiussione prestata si estingue.

Inoltre, nel momento in cui il giudice prende cognizione della vicenda per valutare la condotta dell'ente alla luce dei parametri dettati dall'art. 49, può disporre la revoca della misura cautelare anche a prescindere dalla valutazione positiva di idoneità e tempestività delle attività riparatorie, ogni qual volta ritenga siano venute meno, anche alla luce di fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità della cautela.

Ciò accade perché l'art. 50, comma 1, del d.lgs. in esame consente un'immediata decisione liberatoria, anche d'ufficio, nelle ipotesi in cui il quadro indiziarlo della responsabilità sia del tutto mancante, anche per fatti sopravvenuti, ovvero quando non risulti più attuale l'originaria individuazione delle esigenze cautelari, o, ancora, al verificarsi delle condizioni stabilite dall'art. 17.

L'art. 49, comma 4, del decreto in esame, ripropone, a sua volta, all'interno del procedimento incidentale finalizzato alla sospensione della misura cautelare su richiesta dell'ente, la medesima regola fissata dalla norma generale dell'art. 50, comma 1, secondo cui s'impone la revoca della misura allorchè intervengano gli adempimenti di cui al citato art. 17, ossia il risarcimento del danno, la messa a disposizione del profitto, l'adozione e l'efficace attuazione dei c.d. compliance programs.

Nonostante lo stretto collegamento con l'art. 49 si sostiene che la revoca disciplinata nell'art. 50, comma 1, rappresenti un istituto a sé, operante anche in conseguenza dell'adempimento delle condotte riparatorie prescritte dall'art. 17, avuto riguardo al fatto che le stesse possono maturare durante tutto il periodo di applicazione della misura, anche a prescindere dalla richiesta di sospensione formulata ai sensi dell'art. 49, comma 1.

In relazione al rapporto di concorrenza o di alternatività fra le ipotesi di revoca delle misure cautelari applicate agli enti collettivi cui fa riferimento l'art. 50 e, quindi, da un lato, la revoca per mancanza, anche sopravvenuta, delle condizioni di applicabilità di cui all'art. 45 e, dall'altro, la revoca disposta in presenza delle condizioni disciplinate dal combinato disposto degli artt. 17 e art. 49 (sospensione delle misure cautelari su richiesta dell'ente di realizzare gli adempimenti di tipo riparatorio cui può essere condizionata l'esclusione delle sanzioni interdittive a norma dell'art. 17, con la successiva revoca della misura cautelare, in presenza dell'accertata verificazione della condizione sospensiva) l'ordinanza di rimessione osserva che proprio dal tenore letterale dell'art. 50 sembra evincersi che il legislatore abbia inteso porre in alternativa, quali fattori di revoca della misura cautelare applicata, l'effettuazione degli adempimenti in questione e la mancanza sopravvenuta delle condizioni indicate dal precedente art. 45, tra le quali è compreso anche il rischio di recidiva.

Ed in effetti, muovendo da tale opzione ermeneutica la Suprema Corte (cfr. Sez. VI, n. 18635/2014) ha conseguentemente affermato il principio secondo cui la revoca della misura interdittiva può essere disposta, nel caso di sospensione della misura cautelare concessa ai sensi dell'art. 49 in esame, anche qualora il rischio di recidiva cessi per fattori sopravvenuti e diversi dall'attuazione delle misure riparatorie volte all'eliminazione delle carenze organizzative.

La ritenuta alternatività delle ipotesi di revoca previste dall'art. 50 potrebbe indurre a ritenere, unitamente al rilievo dell'effetto immediato della vicenda estintiva della cautela, che il provvedimento debba adottarsi de plano, risultando difficile configurare, prima facie, un contraddittorio orale anticipato alla stregua di quanto previsto dall'art. 47 in sede di applicazione della misura.

Tuttavia, da questa prospettiva deve considerarsi un ulteriore profilo connesso che è quello dello stampo dialogico cui risulta ispirato proprio il procedimento di applicazione delle misure cautelari nei confronti degli enti che, come visto, si fonda sulla esigenza di un contraddittorio anticipato rispetto all'adozione della cautela e senza che ciò significhi che l'ente rinunci preventivamente a contestare i presupposti di legittimità della misura nel caso in cui venga avanzata la richiesta di realizzazione degli adempimenti riparatori al cui perfezionamento la legge condiziona l'esclusione delle sanzioni interdittive.

Così opinando, si osserva che ben potrebbe ritenersi sussistente la permanenza dell'interesse ad impugnare al fine di ottenere una decisione sulla legittimità della misura interdittiva anche in presenza della sua intervenuta revoca, nel caso in cui ad una eventuale pronuncia in sede di gravame possa ricollegarsi una situazione di vantaggio, ovvero una concreta ed attuale incidenza sulla posizione complessiva del ricorrente, con effetti significativi, ad esempio, sul mantenimento o meno di cauzioni provvisorie prestate a mezzo di fideiussioni per la partecipazione a gare d'appalto, sulla eventuale restituzione di cospicue somme di denaro già versate per ottenere la sospensione della misura interdittiva, ovvero per dimostrare l'insussistenza del profitto.

Per quanto in questa sede di interesse, si deve, pertanto, concludere che il sopravvenire della fattispecie estintiva della misura cautelare potrebbe richiedere, quale causa sopravvenuta di inammissibilità del ricorso, lo svolgimento di una puntuale opera di verifica in ordine alla realizzazione delle condizioni previste dalla connessa disposizione di cui all'art. 17, sì da imporre un approfondito accertamento sulla persistenza o meno dell'interesse ad impugnare, suscettibile di realizzarsi nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie della difesa solo in un contraddittorio camerale in forma partecipata.

2.

Con ordinanza emessa del 19 gennaio 2018 (dep. in data 7 giugno 2018), n. 26032, la sesta Sezione penale della Cassazione ha rimesso alle Sezioni unite la questione controversa:

«se l'appello avverso un'ordinanza applicativa di una misura cautelare possa essere dichiarato inammissibile anche senza formalità ex art. 127, comma 9, c.p.p., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa».

3.

Il primo Presidente della Cassazione ha fissato per il 27 settembre 2018 l'udienza davanti alle Sezioni unite per la discussione della questione:

«se l'appello avverso un'ordinanza applicativa di una misura cautelare possa essere dichiarato inammissibile anche senza formalità ex art. 127, comma 9, c.p.p., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa».

4.

All'udienza del 27 settembre 2018 le Sezioni unite penali hanno affermato i seguenti principi di diritto:

«l'appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie d.lgs. 231 del 2001, ex art. 17, poste in essere dalla società indagata, non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall'art. 127, comma 9 ma, considerando che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale, deve essere deciso nell'udienza camerale e nel contraddittorio delle parti, previamente avvisate».

«la revoca della misura interdittiva disposta a seguito di condotte riparatorie poste in essere d.lgs. 231/2001, ex art. 17, intervenuta nelle more dell'appello cautelare proposto nell'interesse della società indagata, non determina automaticamente la sopravvenuta carenza di interesse all'impugnazione».

5.

Con motivazione depositata in data 14 novembre 2018, le Sezioni unite, nel dirimere il contrasto interpretativo illustrato, hanno articolato e sviluppato il percorso argomentativo che ha condotto alla enucleazione dei suddetti principi di diritto condividendo la premessa concettuale dell'ordinanza di rimessione secondo la quale il rapporto processuale non può considerarsi impermeabile agli eventi che possono verificarsi medio tempore.

Di conseguenza, l'interesse all'impugnazione richiesto dall'art. 568 c.p.p., comma 4, deve persistere al momento della decisione, secondo una valutazione che ponga in comparazione dati processuali concretamente individuabili, quali il provvedimento impugnato e quello che il giudice ad quem potrebbe emanare a seguito dell'accoglimento dell'impugnazione.

In base a tali premesse e nell'ottica di una lettura sostanziale degli istituti coinvolti nella fattispecie in analisi e valorizzando anche il peculiare dinamismo del sistema cautelare degli enti, le Sezioni unite hanno proceduto ad analizzare la compatibilità di tale sistema, tanto in fase applicativa che di impugnazione, con il sistema espresso dal diritto vivente in materia di interesse a impugnare.

Il motivo di tale scelta redazionale deriva, da un lato, dalla connotazione potenzialmente sostanziale dell'interesse alla pronuncia nel caso di impugnazione di provvedimento cautelare – valutato anche alla luce degli arresti interpretativi più recenti in materia – che, tendenzialmente, rimane insensibile alla revoca del provvedimento impugnato sopravvenuta nel frattempo e, dall'altro, dal richiamo, mediante rinvii, nel sistema delle impugnazioni cautelari degli enti dell'art. 127, comma 9, c.p.p. ove è prevista la dichiarazione di inammissibilità "anche senza formalità", disposizione che ha originato il contrasto interpretativo ricordato dalla Sezione rimettente.

Di conseguenza, le Sezioni unite si sono dapprima soffermate sull'esame del procedimento applicativo delle misure cautelari interdittive a carico degli enti collettivi, ex artt. 17 e 49 d.lgs. 231/2001 – posto che, come vedremo il sistema già in questo momento contempla la possibilità che le stesse vengano revocate - e, in seguito, hanno analizzato il sistema delle impugnazioni contemplato dall'art. 52.

In particolare, quanto all'applicazione delle misure cautelari interdittive, le Sezioni unite ne sottolineano la peculiarità del procedimento caratterizzato da un contraddittorio anticipato il cui apporto conoscitivo risulta importante anche nell'ottica delle condotte riparatorie in grado di eliminare le sanzioni.

Il sistema, infatti, prevede che la società possa avanzare istanza di sospensione della misura interdittiva (art. 49), rendendosi disponibile all'adozione di condotte riparatorie.

È, dunque, in tale momento che si inserisce la possibilità della revoca della misura atteso che il giudice della cautela, se ritiene di accogliere la richiesta, determina una somma di denaro a titolo di cauzione e dispone la sospensione della misura indicando il termine per la realizzazione delle condotte riparatorie, di cui all'art. 17.

Ne consegue che, se la società adempie tempestivamente e in modo corretto, il giudice, verificata l'efficace attuazione del programma di riparazione, dispone la revoca della misura (ai sensi del d.lgs. 231/ 2001, art. 49, comma 4). Analogamente, l'art. 50, comma 1, prevede che la revoca delle misure cautelari possa conseguire nel caso in cui risulti la mancanza, originaria o sopravvenuta, dei presupposti applicativi oltre che nel caso di avvenuta esecuzione delle condotte riparatorie.

Sul punto, la giurisprudenza (Cass. pen., Sez. VI, n. 18634/2015, Rosi S.P.A.) ha affermato che la cessazione del rischio di recidiva, rilevante per l'applicazione di una misura cautelare, può essere determinata non solo dall'attuazione delle attività riparatorie previste dall'art. 17 cit., ma anche da comportamenti di altro tipo stante quanto indicato dall'art. 50, comma 1 che, ai fini della revoca dei provvedimenti cautelari, pone in alternativa la ricorrenza delle ipotesi ex art. 17 alla mancanza sopravvenuta delle condizioni di applicabilità previste dall'art. 45 del medesimo decreto.

In tal senso, la Suprema Corte in altro arresto (Cass. pen., Sez. VI, n. 18635/2015) ha affermato che la revoca della misura interdittiva può essere disposta, nel caso di sospensione della misura cautelare concessa ai sensi del d.lgs. 231 del 2001, art. 49, anche qualora il rischio di recidiva cessi per fattori sopravvenuti e diversi dall'attuazione delle misure riparatorie volte all'eliminazione delle carenze organizzative.

Le Sezioni unite, condividendo le valutazioni dell'ordinanza di rimessione, hanno osservato che l'intero sistema cautelare delle misure cautelari interdittive di cui al d.lgs. 231/2001 si fonda su una tutela rafforzata del contraddittorio che permette all'indagato di intervenire sin dal momento dell'adozione della misura cautelare e che costituisce vero e proprio momento di interlocuzione tra le parti e il giudice.

Tale aspetto dimostra, dunque, che, nell'ambito della disciplina cautelare prevista dal d.lgs. 231/2001, l'attuazione del contraddittorio assume una specifica valenza, rispetto all'analoga fase processuale prevista dal codice di rito per l'adozione di misure cautelari nei confronti delle persone fisiche.

Infatti, l'interlocuzione tra l'ente e l'organo giudicante garantisce non solo finalità direttamente difensive ma, nell'ottica di una inedita dinamica cautelare, consente al giudice di graduare la misura interdittiva applicata che risulta permeabile rispetto all'adozione di condotte riparatorie, quale la scelta dell'ente di dotarsi di uno strumento organizzativo in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società.

A ciò si aggiunga che, il sistema delineato dagli artt. 49 e 50 del d.lgs. 231/2001, persegue la finalità di contemperare la soddisfazione delle esigenze cautelari con quelle che possono essere le rilevanti ricadute, sul piano economico-imprenditoriale e occupazionale, derivanti dall'applicazione anche temporanea delle misure interdittive, idonee a incidere sulle capacità economiche di società inserite nel contesto produttivo.

Pertanto, afferma la Suprema Corte, non vi è alcuna dipendenza né alcun automatismo fra la richiesta di sospensione della misura che viene avanzata dall'ente e la volontà di azionare e coltivare l'impugnazione della misura cautelare applicata.

La richiesta di sospensione, infatti, non implica affatto la rinunzia, da parte della società, a contestare la fondatezza della domanda cautelare, atteso che la disponibilità a porre in essere condotte riparatorie è possibile dipenda dalla primaria esigenza dell'ente di scongiurare l'applicazione di misure interdittive che possono determinare la stasi del ciclo produttivo e la paralisi dell'attività economica.

Di conseguenza, deve rilevarsi che l'intervenuta sospensione del provvedimento interdittivo, ai sensi dell'art. 49, cit., come pure la revoca per effetto dell'adozione delle condotte riparatorie, costituiscono evenienze compatibili con il perdurare dell'attualità dell'interesse in capo alla società a coltivare l'appello cautelare.

Tale interesse, infatti, permane non solo per contestare l'originaria legittimità del provvedimento ma anche in relazione a effetti che, rispetto alla legittima applicazione della misura potrebbero definirsi secondari, quale l'ottenimento della restituzione delle somme versate proprio al fine di ottenere la sospensione della misura o la rimozione di altre possibili conseguenze dannose.

Siffatta conclusione vale anche per altre ipotesi, caratterizzate da un effetto restitutorio, puntualmente indicate nella pronuncia in esame.

In particolare, la Suprema Corte si riferisce al caso in cui la società risarcisca il danno (d.lgs. 231/2001, ex art. 17, comma 1, lett. a) al fine di ottenere la restituzione dell'importo versato, a quello della messa a disposizione del profitto, posto che l'art. 17, comma 1, lett. c), d.lgs. cit., prevede espressamente che l'ente per beneficiare del trattamento premiale metta a disposizione il profitto conseguito.

Al riguardo, le Sezioni Unite hanno, infatti, richiamato la posizione giurisprudenziale secondo cui anche la messa a disposizione del profitto rientra tra i modelli compensativi dell'offesa (Cass. pen. Sez. unite, n. 26654/2008, Fisia Impianti S.P.A.).

In tal caso, ove risultasse l'insussistenza originaria dei presupposti per l'adozione della misura cautelare, il giudice dovrebbe disporre la restituzione delle somme messe a disposizione dall'ente.

Infine, analoghe conclusioni valgono nel caso della rimozione di quelle ulteriori conseguenze dannose derivanti per la società dall'applicazione della misura relative alla avvenuta comunicazione del provvedimento applicativo di misure cautelari interdittive all'autorità di controllo o di vigilanza sull'ente, secondo quanto sancito dall'art. 84 d.lgs. 231 del 2001.

Quanto al sistema delle impugnazioni delle richiamate misure cautelari a carico degli enti, l'art. 52, comma 1, prevede unicamente la possibilità di proporre appello contro tutti i provvedimenti in materia secondo l'osservanza delle disposizioni di cui all'art. 322-bis, commi 1-bis e 2, c.p.p. mentre, il comma 2, dell'art. 52, stabilisce che contro il provvedimento emesso ai sensi del comma 1, può essere proposto ricorso per cassazione, secondo la disciplina di cui all'art. 325 c.p.p..

Il sistema applicativo e di impugnazione delle misure cautelari fin qui delineato, caratterizzato dalla concreta possibilità di sopravvivenza dell'interesse alla pronuncia nel caso di revoca del provvedimento impugnato, risulta coerente con i principi generali vigenti in relazione all'interesse a impugnare e alle formalità necessarie che presiedono al suo rilevamento.

In particolare, gli approdi interpretativi concernenti l'incidenza della revoca della misura sul procedimento di impugnazione attivato nelle more risultano coerenti con l'elaborazione giurisprudenziale inerente i criteri che informano e presiedono alla valutazione dell'interesse a impugnare richiesto dall'art. 568, comma 4, c.p.p. come condizione di ammissibilità dell'esercizio del diritto ad impugnare.

Sul punto le Sezioni unite richiamano l'elaborazione interpretativa fornita da precedente arresto (Cass. pen., Sez. unite, n. 6624/2011, Marinaj) che ha separato la nozione dell'interesse alla impugnazione da quella civilistica della soccombenza e, al contempo, ha enucleato la figura della carenza di interesse sopraggiunta.

In particolare, le Sezioni unite hanno osservato che con riferimento alle molteplici situazioni che caratterizzano il procedimento penale nelle sue varie articolazioni, l'interesse alla impugnazione non può essere ancorato semplicisticamente al concetto di soccombenza, che è proprio del sistema delle impugnazioni civili, ma deve essere costruito in chiave utilitaristica, nel senso che deve essere orientato a rimuovere un pregiudizio e ad ottenere una decisione più vantaggiosa rispetto a quella della quale si sollecita il riesame.

Inoltre, si è evidenziato che l'interesse richiesto dall'art. 568, comma 4, c.p.p. deve essere connotato dai requisiti della concretezza e dell'attualità e deve sussistere non soltanto all'atto della proposizione dell'impugnazione ma persistere fino al momento della decisione, perchè questa possa potenzialmente avere una effettiva incidenza di vantaggio sulla situazione giuridica devoluta alla verifica del giudice dell'impugnazione.

Con riguardo a tale ultimo profilo è stata enucleata la categoria della carenza d'interesse sopraggiunta il cui fondamento giustificativo viene individuato nella valutazione negativa della persistenza, al momento della decisione, dell'interesse all'impugnazione, la cui attualità è venuta meno a causa della mutata situazione di fatto o di diritto intervenuta medio tempore, che assorbe e supera la finalità perseguita dall'impugnante, come nel caso di scadenza dei termini di durata massima della custodia cautelare in carcere.

Di conseguenza, le Sezioni unite hanno affermato il principio in base al quale, in materia di impugnazioni, la nozione della carenza d'interesse sopraggiunta va individuata nella valutazione negativa della persistenza, al momento della decisione, di un interesse all'impugnazione, la cui attualità è venuta meno a causa della mutata situazione di fatto o di diritto intervenuta medio tempore, assorbendo la finalità perseguita dall'impugnante, o perchè la stessa abbia già trovato concreta attuazione, ovvero in quanto abbia perso ogni rilevanza per il superamento del punto controverso.

Ulteriori conferme di coerenza del sistema cautelare operante per gli Enti vengono tratte, inoltre, dall'elaborazione giurisprudenziale concernente il rapporto tra revoca delle misure cautelari, personali e reali, e interesse all'impugnazione.

A tal fine la Suprema Corte ha richiamato due precedenti arresti a Sezioni unite che hanno diversamente declinato l'effetto del sopraggiungere delle revoca della misura cautelare personale e della misura cautelare reale rispetto al procedimento di impugnazione.

In particolare, in relazione alle misure cautelari personali, le Sezioni unite hanno richiamato il principio, vero e proprio ius receptum, in base al quale l'interesse dell'indagato a ottenere una pronuncia in sede di impugnazione dell'ordinanza che impone la custodia cautelare permane anche nel caso in cui essa sia stata revocata nelle more del procedimento incidentale de libertate, sempre che la decisione di annullamento della misura possa costituire per l'interessato, ai sensi dell'art. 314, comma 2, c.p.p. presupposto del diritto ad un'equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente, essendo stato il provvedimento coercitivo emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p. Cass. pen., Sez. unite, n. 26795/2006; Cass. pen., Sez. unite, n. 7931/2010 e Cass. pen., Sez. unite., n. 21/1998 ).

Diversamente per le misure cautelari reali, rispetto alle quali la giurisprudenza si è pure soffermata sulla persistenza dell'interesse all'impugnazione, nel caso in cui il bene sia stato restituito nelle more del procedimento di impugnazione.

Sul punto, le Sezioni unite hanno affermato che, una volta restituita la cosa sequestrata, la richiesta di riesame del sequestro, o l'eventuale ricorso per cassazione contro la decisione del tribunale del riesame deve ritenersi inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse (Cass. pen., Sez. unite, n. 18253/2008, Tchmil).

Inoltre, in relazione al caso specifico relativo all'intervenuta restituzione di supporti informatici previa estrazione di copia del contenuto della memoria, le Sezioni unite hanno richiamato e sostenuto la validità dell'arresto che ha ritenuto configurabile la persistenza dell'interesse ad impugnare anche a seguito della restituzione del bene, precisando che è ammissibile il ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del tribunale del riesame di conferma del sequestro probatorio di un computer o di un supporto informatico, nel caso in cui ne risulti la restituzione previa estrazione di copia dei dati ivi contenuti, sempre che sia dedotto l'interesse, concreto e attuale, alla esclusiva disponibilità dei dati (Cass. pen., Sez. unite, n. 40963/2017, Andreucci).

Venendo, poi, al “momento” processuale e alle formalità che presiedono ed operano per procedere alla declaratoria di inammissibilità dell'appello, le Sezioni unite hanno affermato che non può essere pronunciata in esito a modelli procedimentali semplificati.

Ciò si spiega, come visto, proprio in virtù delle specifiche conseguenze sostanziali derivanti in capo all'ente dalla misura interdittiva, pure revocata, per effetto delle condotte riparatore e, dunque, della sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante alla decisione, quale, ad esempio, la restituzione della cauzione versata al momento della sospensione della misura cautelare.

Tale assunto, precisano le Sezioni unite, non si traduce nella delegittimazione degli schemi procedimentali atipici, in cui il modello camerale delineato dall'art. 127 c.p.p. viene diversamente declinato a seconda del grado di garanzia del contraddittorio, dovendo ribadirsi la validità dell'insegnamento espresso sempre dal Supremo Consesso (Cass. pen., Sez. unite, n. 14991/2006, De Pascalis), che, in conformità dei principi Cedu elaborati sul punto (cfr. Corte Edu, 16 giugno 2015, Mazzoni c. Italia, n. 20485/06) riconosce la legittimità di schemi procedimentali atipici.

Si osserva, invero, che la decisione adottata de plano, in materia di inammissibilità dell'impugnazione, non è di per sè lesiva delle garanzie di contraddittorio presidiate dall'art. 111 Cost., comma 2, ove è stabilito che ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale.

Il canone costituzionale di cui all'art. 111 Cost., comma 2, infatti, non preclude l'operatività del disposto di cui all'art. 127 c.p.p., comma 9, che consente al giudice di provvedere alla dichiarazione di inammissibilità dell'impugnazione "anche senza formalità di procedura".

Il diritto vivente, si osserva, contempla vari schemi e diverse fasi procedimentali, definibili a garanzie attenuate, che risultano coerenti con la nozione di contraddittorio rinvenibile dal dettato costituzionale, con specifico riferimento al profilo riguardante l'interlocuzione tra le parti ed il giudice in posizione di terzietà.

Inoltre, in tema di dichiarazione di inammissibilità dell'impugnazione, la conferma della compatibilità di schemi procedimentali semplificati con il principio costituzionale del contraddittorio è rappresentata anche dalle modifiche introdotte nel 2017 in tema di ricorso per cassazione.

In particolare, l'art. 610, comma 5-bis, c.p.p., novellato dalla l. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 62, stabilisce che la Corte di cassazione dichiara l'inammissibilità del ricorso «senza formalità di procedura e, quindi, de plano nei casi previsti dall'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. a), limitatamente al difetto di legittimazione, b), c), esclusa l'inosservanza delle disposizioni dell'art. 581 c.p.p., e d)» .

Ricadono in tale previsione le c.d. cause di inammissibilità cosiddette formali, comprendenti il difetto di legittimazione, l'inoppugnabilità del provvedimento, la violazione delle norme concernenti la presentazione o la spedizione dell'atto di impugnazione, l'inosservanza dei termini per impugnare e la rinunzia, laddove per le altre cause di inammissibilità , quali la mancanza di interesse o l'inosservanza dei requisiti formali e contenutistici dell'atto di impugnazione prescritti dall'art. 581 c.p.p., devono viceversa essere seguite le ordinarie cadenze procedimentali previste dall'art. 610, comma 1, c.p.p..

Sulla scorta delle valutazioni fin qui rassegnate la Suprema Corte conclude, dunque, ritenendo che nei casi di revoca delle misure interdittive a carico dell'ente, a seguito di condotte riparatorie e di situazioni ad esse dalla Corte assimilate in virtù dell'effetto restitutorio è da escludere la possibilità di una declaratoria di inammissibilità dell'appello cautelare pronunciata senza formalità.

Le molteplici conseguenze, comunque ricollegabili alla misura interdittiva revocata per effetto delle condotte riparatore, integrano, come visto, altrettanti profili di ordine sostanziale, potenzialmente idonei a fondare un perdurante interesse all'impugnazione.

Di conseguenza, deve essere garantita alla parte deducente la facoltà di interlocuzione, anche al fine di offrire al tribunale specifiche indicazioni sulla attualità dell'interesse ad ottenere una decisione sulla originaria legittimità del provvedimento cautelare, se pure caducato o revocato.

L'ente, infatti, ribadiscono le Sezioni unite, ha diritto alla restituzione della cauzione versata al momento della sospensione della misura cautelare poi revocata e tale elemento, che si colloca nel peculiare rapporto dialogico tra la società e l'autorità giudiziaria, conduce ad apprezzare la persistenza dell'interesse all'impugnazione, inteso come possibile situazione di vantaggio derivante dalla decisione.

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