Appello del P.M. avverso la decisione che nega l'applicazione della confisca di beni

02 Maggio 2017

Il decreto con cui il giudice rigetta la richiesta del pubblico ministero di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca, anche qualora non preceduta da sequestro, è appellabile.
1.

Se sia ammissibile l'appello del pubblico ministero avverso il provvedimento che nega l'applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca dei beni.

Il sotto-sistema delle misure di prevenzione personali e patrimoniali è, da sempre, terreno di sperimentazione di nuovi strumenti di tutela di beni giuridici e di giurisprudenza pretoria, con tutti i rischi e (per alcuni) i vantaggi che ciò comporta. Nato per finalità di stigmatizzazione della marginalità sociale e semplificazione (per non dire marginalizzazione) dell'accertamento cognitivo a fini di repressione immediata della devianza “da strada”, rappresenta il settore dell'ordinamento penale (o parapenale) che più di ogni altro ha mutato volto nella seconda metà del secolo scorso e nei primi anni del nuovo millennio, nel costante tentativo di mantenere, da un lato, caratteri di efficacia nel contenimento delle forme più temibili di pericolosità individuale (la legge 575 del 1965 utilizza per la prima volta la parola mafia in un testo normativo), dall'altro di adeguarsi ai valori costituzionali di tutela della persona e di necessario apprezzamento di elementi di fatto a fini di emanazione di provvedimenti giurisdizionali incidenti su sfere giuridiche protette (libertà e proprietà).

In tale percorso, assistito dalla costante opera di concretizzazione della giurisprudenza (ordinaria e costituzionale), di fondamentale rilievo è stata l'opera di coordinamento e parziale innovazione normativa realizzata con l'emanazione del decreto legislativo 159 del 6 settembre 2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia), emesso sulla base della delega conferita al Governo ai sensi dell'art. 1 legge 136 del 13 agosto 2010.

Come è noto, l'emanazione del c.d. Codice antimafia ha comportato l'abrogazione, per assorbimento della relativa disciplina e parziale innovazione della medesima, delle leggi di riferimento “storico” del sistema della prevenzione personale e patrimoniale (la legge 1423 del 1956 e la legge 575 del 1965, integrata e modificata, quest'ultima, dalla legge 646 del 1982, solo per citare le principali) e la disciplina procedimentale è oggi contenuta esclusivamente in detto testo unico (pur se non sono mancati interventi aggiuntivi di estremo rilievo, tra cui quello operato con legge 228 del 2012 su aspetti transitori della disciplina della confisca e tutela dei diritti dei terzi creditori).

Ciò posto, la vigenza del nuovo corpus normativo, come è normale che sia, ha creato e sta creando nuovi dubbi interpretativi delle relative disposizioni, ormai affacciatisi, dato il tempo di vigenza, anche nella sede di legittimità.

Tra questi, va segnalato il contrasto interpretativo sorto in seno alle Sezioni semplici della Corte di cassazione in punto di appellabilità – da parte del pubblico ministero – della decisione di primo grado reiettiva di una domanda di confisca di beni, ove la stessa non abbia contestualmente comportato la revoca di un precedente provvedimento di sequestro.

Sul punto, va operata una premessa.

Il previgente sistema prevedeva un unico modello procedimentale, anche in riferimento alla fase delle impugnazioni.

La norma regolatrice era infatti rappresentata dall'art. 4 della legge 1423 del 1956, disposizione che regolamentava la fase delle impugnazioni in soli quattro commi (dal comma 9 al comma 12) l'ultimo dei quali contenente un rinvio alla disciplina processuale generale.

Si prevedeva, in tali disposizioni:

  • che la decisione di primo grado fosse comunicata al procuratore della Repubblica, al procuratore generale presso la Corte di appello e all'interessato, con facoltà per costoro di proporre ricorso alla Corte di appello, anche per il merito;
  • l'assenza di effetto sospensivo del ricorso in appello;
  • la ricorribilità in cassazione della decisione di secondo grado, per violazione di legge;
  • il rinvio alle norme del codice di rito penale, in quanto applicabili, ed in particolare a quelle riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi alle misure di sicurezza.

Tali scarne disposizioni, peraltro, andavano integrate dalla particolare previsione per cui, in caso di confisca, il provvedimento di primo e di secondo grado non poteva dirsi esecutivo se non irrevocabile. Ciò in rapporto a quanto previsto dall'art. 3-ter, comma 2 della legge 575 del 1965 (e succ. modif.), norma che trasferiva nel settore della prevenzione patrimoniale, con tale rilevante precisazione, l'applicabilità di quanto stabilito nel descritto articolo 4 della legge 1423 del 1956. Il primo comma di tale articolo 3-ter legge 575 del 1965) assoggettava, peraltro, espressamente al rimedio della impugnazione (anche nel merito) i provvedimenti di confisca, revoca del sequestro, restituzione della cauzione, liberazione delle garanzie, confisca della cauzione o esecuzione sui beni costituiti in garanzia.

Va altresì considerato che il citato rinvio alle norme in tema di misure di sicurezza (attuale art. 680 c.p.p.) consentiva di ritenere applicabili, già in riferimento alla previgente disciplina, le norme generali in tema di impugnazione, in quanto non espressamente derogate dalla disciplina di settore. Dunque senza dubbio potevano dirsi applicabili – tra le altre – le regole contenute nel codice di rito in tema di tassatività deli casi e dei mezzi di impugnazione, di interesse ad impugnare, di trasmissione ex officio del ricorso proposto a giudice incompetente, di estensione del potere di proporre impugnazione in capo al difensore del proposto all'atto del deposito del provvedimento, di modello legale dell'atto di impugnazione (con obbligatoria indicazione dei motivi), di inammissibilità della impugnazione, di condanna alle spese .

L'assetto sin qui descritto non è stato innovato in modo significativo – per quanto riguarda le impugnazioni c.d. ordinarie – dal decreto legislativo 159/2011.

La rilevante novità apportata dal codice antimafia riguarda infatti il particolare istituto della revocazione della confisca (art. 28 d.lgs.159/2011) che tuttavia possiede carattere di impugnazione straordinaria, assimilabile alla revisione di cui all'art. 630 c.p.p.

In particolare, va in sintesi ricordato, quanto alle impugnazioni ordinarie che:

a) la facoltà di impugnazione dei provvedimenti in tema di misure personali è prevista dall'articolo 10 in modo del tutto analogo alla previgente disciplina. Non vi è, in particolare, alcuna elencazione limitativa della tipologia dei provvedimenti impugnabili, il che comporta l'assoggettabilità al rimedio dell'appello di ogni decisione in tema di misura personale;

b) la facoltà di impugnazione dei provvedimenti in tema di misure patrimoniali è prevista dall'articolo 27, ai commi 1 e 2, d.lgs. 159/2011 in modo del tutto analogo alla previgente disciplina. Vi è elencazione dei provvedimenti impugnabili (alla lett. c)) in modo corrispondente al testo del previgente articolo 3-ter della legge 575 del 1965 e conseguente rinvio alle previsioni regolatrici della facoltà di impugnazione dei provvedimenti in materia di misure personali (art. 10).

Ciò posto, si è registrato contrasto interpretativo, tra le sezioni della Suprema Corte, su un tema specifico.

La disposizione dell'articolo 27, al comma 1, d.lgs. 159/2011indica tra i provvedimenti impugnabili, con il rimedio dell'appello e, successivamente, con il ricorso per cassazione, la revoca del sequestro (in modo, lo si ripete, conforme alla previgente disposizione) e non il diniego di confisca.

Secondo una prima opinione interpretativa, in ossequio al generale principio di tassatività dei casi e mezzi di impugnazione (art. 568 c.p.p.), tale conformazione normativa del potere di impugnazione, quanto alle decisioni patrimoniali, preclude l'appellabilità del semplice diniego di confisca che non comporti, contestualmente, la revoca del sequestro, previamente disposto nel corso del procedimento (in tal senso, la Sezione VI con la decisione del 17 ottobre 2013 n. 46478, ribadita dalla sentenza n. 26842 del 3 giugno 2015). L'argomento principale su cui si basa detto orientamento è il dato testuale: ubi lex voluit, dixit. A ciò si aggiunge la considerazione per cui la ratio della esclusione andrebbe ricercata nella minor fondatezza prognostica di una critica alla decisione. Se non vi è stato neanche il sequestro (provvedimento cautelare assoggettato a presupposti cognitivi più deboli) la critica alla mancata confisca appare prima facie meno fondata, il che giustifica, in tale prospettiva, l'eliminazione del controllo di merito sulla prima decisione, che resterebbe assoggettata (unico caso di ricorso diretto avverso la decisione di primo grado) al solo controllo di legittimità (si afferma, ai sensi della generale previsione di cui all'art. 666 c.p.p., norma applicabile al procedimento di prevenzione se non espressamente derogata).

Diversa opinione è stata espressa, sul tema, da altre sezioni della suprema Corte. Si è infatti affermato che la opzione prima ricordata finisce con il valorizzare in modo eccessivo e contrario al sistema del codice antimafia – nonché a principi costituzionali quali la parità di trattamento di situazioni analoghe – il mero dato testuale contenuto all'art. 27, comma 1, d.lgs. 159/2011 di per sé non decisivo a fini di effettiva identificazione dell'ambito oggettivo della impugnabilità.

Se è innegabile, infatti, che il Legislatore utilizzi la dizione revoca del sequestro, in sede descrittiva della serie dei provvedimenti impugnabili, tale espressione andrebbe intesa – in senso più ampio – quale diniego della domanda di ablazione patrimoniale, sia essa stata preceduta o meno dal provvedimento cautelare con funzione anticipatoria (il sequestro).

In tale opzione, pertanto, sostenuta dalla Sezione prima (decisioni n. 43794 del 24 settembre 2015 e n. 38028 del 25 maggio 2016), dalla Sezione quinta (decisioni n. 494 del 1 ottobre 2014; n. 6083 del 1 ottobre 2015) e dalla Sezione seconda (sentenza n. 26303 del 24 maggio 2016) la sola linea interpretativa sistematicamente e costituzionalmente accettabile è quella che consente la piena esplicazione del potere di critica – nel merito – da parte del pubblico ministero, della decisione reiettiva della confisca, con assoggettabilità anche di tale decisione (pur se non preceduta dal sequestro e dalla sua revoca) al rimedio dell'appello. Nessun rilievo può avere, in tale prospettiva, l'avvenuta emissione o meno del provvedimento di sequestro, ben potendo la decisione reiettiva della confisca essere fondata su una valutazione di insussistenza ab initio della pericolosità del soggetto proposto (presupposto sia del sequestro che della confisca, congiunta o disgiunta che sia quest'ultima) il cui potere di critica, nel merito, da parte dell'organo dell'accusa sarebbe illegittimamente sacrificato (anche in riferimento al necessario equilibrio dei poteri di critica spettanti alle parti processuali, espresso nella nota decisione numero 27/2007 della Corte costituzionale, con cui è stato rimosso, nel giudizio penale, il limite posto dal legislatore del 2006 alla appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del Pubblico Ministero) o irragionevolmente diversificato (con appellabilità della parte reiettiva della eventuale misura personale e sola ricorribilità della statuizione reitettiva patrimoniale). In ogni caso, si afferma che l'emissione del previo sequestro è da ritenersi solo eventuale – rispetto alla confisca (come stabilito nella ipotesi di confisca cd. estesa ai sensi dell'art. 12-sexies l. 356 del 1992 e succ. modif. da Sez. V n. 44900 del 21 novembre 2001 e da Sez. III n. 7079 del 23 gennaio 2013) e pertanto il suo diniego non assume alcuna valenza, in virtù delle molteplici ragioni per cui tale provvedimento (peraltro di competenza del medesimo giudice che decide l'intero procedimento di primo grado) potrebbe essere stato emesso.

Sullo sfondo, ci pare di intravedere diverse questioni di metodo.

La prima è di tecnica di redazione delle norme.

Non vi è dubbio che il riferimento testuale operato dal Legislatore (già nel testo previgente) alla impugnabilità della sola revoca del sequestro non è da ritenersi conforme alla logica e alle classificazioni dogmatiche del sistema processuale.

Va infatti ricordato che il sequestro è provvedimento di natura cautelare che viene emesso – anche se, in caso di prevenzione, dal medesimo giudice abilitato a decidere il primo grado di giudizio – in un contesto procedimentale per sua natura incidentale rispetto alla decisione di merito conclusiva del grado di giudizio.

L'oggetto della decisione di merito, conclusiva del procedimento principale non è – in altre parole – quello di conferma o meno del sequestro ma la sussistenza o meno dei presupposti per la confisca, che è istituto diverso ed autonomo rispetto al sequestro. Dunque il provvedimento impugnabile – in quanto conclusivo del giudizio di primo grado – per logica sistematica, doveva essere propriamente indicato dal Legislatore come la statuizione (positiva o negativa) sulla confisca. Ove la statuizione sia negativa, la revoca del sequestro è effetto della decisione finale di primo grado (similmente a quanto accade per le misure cautelari nel sistema processuale ordinario) ma non contenuto della medesima. E non si impugna un effetto ma la decisione principale, dunque il contenuto primario.

Dunque il conflitto interpretativo è figlio di una disarmonia espressiva legislativa.

Ciò tuttavia, e qui si apre una seconda questione di metodo, non semplifica più di tanto la futura soluzione del caso, posto che lì dove il Legislatore (pur in modo che appare quantomeno asistematico) compie una scelta espressiva ben precisa non è facile superare, in un contesto ispirato al principio di tassatività (art. 568 c.p.p.) il dato semantico utilizzato. Non può, pertanto, escludersi una futura rimessione del tema alla Corte costituzionale, lì dove le tecniche interpretative comuni finiscano con il cozzare con il dato testuale della disposizione.

2.

All'udienza del 12 ottobre 2016, la sesta Sezione penale della Corte di cassazione, investita dal ricorso proposto dal procuratore generale presso la Corte di appello di Firenze avverso un provvedimento con cui era stata disposta la conversione dell'appello (su diniego di confisca) in ricorso per cassazione, ha preso atto del contrasto interpretativo – insorto circa la ricorrenza della facoltà di impugnazione mediante appello, da parte del pubblico ministero, del provvedimento di diniego della confisca cui non si accompagni la contestuale revoca del sequestro – e, con ordinanza n. 48706/2016 dep. il 17 novembre 2016 ha rimesso – di ufficio – alle Sezioni unite la decisione sulla questione, ai sensi dell'art. 618 c.p.p. .

L'ordinanza ripercorre i contenuti delle decisioni in contrasto, rappresentando come risulti palese la incompatibilità fra le affermazioni di principio espresse dai contrapposti indirizzi.

3.

Il primo Presidente, nell'esercizio dei poteri previsti dall'art. 172 disp.att. c.p.p. ha ritenuto effettivo il segnalato contrasto, fissando al 23 febbraio 2017 l'udienza di trattazione del ricorso in camera di consiglio.

4.

All'udienza del 23 febbraio 2017 le Sezioni unite della Cassazione hanno hanno affermato che è appellabile il decreto con cui il giudice rigetta la richiesta del pubblico ministero di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca, anche qualora non preceduta da sequestro.

5.

In data 27 aprile 2017 è stata depositata la motivazione della decisione - n. 20215/2017 - risolutiva del conflitto prima illustrato (sui contenuti dell'art. 27 d.lgs. 159/2011), con cui le Sezioni unite della Suprema Corte hanno espresso il seguente principio di diritto:

« il decreto con cui il giudice rigetta la richiesta del pubblico ministero di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca, anche qualora non preceduta da sequestro, è appellabile ».

La motivazione realizza un'ampia ricognizione del sistema delle impugnazioni nel settore delle misure di prevenzione e fissa alcuni principi di estremo rilievo teorico e pratico, specie in tema di rapporti funzionali tra la misura cautelare del sequestro e l'emissione del provvedimento di confisca.

Riepilogati i termini del contrasto, le Sezioni unite evidenziano in primis che la tesi della mera ricorribilità (con ricorso per cassazione) del provvedimento di diniego della confisca non preceduto da revoca del sequestro non ha alcun aggancio normativo e sarebbe, pertanto, anch'essa contrastante con il generale principio di tassatività di casi e mezzi di impugnazione (art. 568 c.p.p.). Nel sistema delle impugnazioni in tema di misure di prevenzione è infatti esperibile il ricorso per cassazione solo avverso le decisioni emesse in secondo grado da parte della Corte di appello (art. 10 del d.lgs. 159/2011, norma espressamente richiamata nel corpo del successivo art. 27).

Il quesito sulla appellabilità del provvedimento - emesso dal tribunale - di diniego della domanda di confisca che non implichi, contestualmente, la revoca del sequestro, si traduce, pertanto, in quello sulla sua impugnabilità.

Ciò posto, viene osservato che al fine di orientare la interpretazione, occore riflettere essenzialmente sul rapporto esistente - in sede di prevenzione patrimoniale - tra i due provvedimenti del sequestro e della confisca.

In effetti, il primo quesito da risolvere concerne la stessa ammissibilità di una domanda di confisca, all'esito del procedimento di primo grado, che non sia stata preceduta dal provvedimento cautelare di sequestro sui medesimi beni.

È evidente, infatti, che lì dove si negasse tale possibilità, la domanda di confisca sarebbe - in quanto tale - inammissibile. Il contrasto interpretativo presuppone, dunque, la verifica positiva di detta possibilità. Solo in tal caso, infatti, il provvedimento che 'nega' la confisca non comporta contestualmente la revoca di un precedente sequestro e sorge il problema della sua impugnabilità nel merito.

A tale dubbio sistematico viene fornita risposta positiva.

In effetti, le decisioni citate a sostegno della tesi della necessaria correlazione tra confisca e previo sequestro (ivi compreso il dictum di Sez. unite, 13 dicembre 2000, Madonia) non possono essere ritenute di ostacolo alla emissione - contestuale - dei due provvedimenti in sede decisòria (confisca e contestuale sequestro, in virtù della non immediata esecutività della decisione in tema di ablazione patrimoniale) posto che sono in realtà intervenute sul problema della natura - ritenuta perentoria - del termine di efficacia del sequestro (attuale art. 24, comma 2, d.lgs. 159/2011) disposto nel corso del procedimento.

Nulla vieta, pertanto, che pur in assenza di un provvedimento di sequestro intervenuto nel corso del procedimento (o di emissione e successiva revoca del medesimo) possa domandarsi, all'esito della trattazione in contraddittorio, la confisca di beni, ove gli stessi siano sufficientemente individuati, come sostenuto già in alcuni arresti antecedenti (Sez. I, n. 15964 del 21 marzo 2013, Di Marco) e riproposto in alcune delle decisioni che hanno dato luogo al conflitto (Sez. I, n. 43796 del 24 settembre 2015, Buccellato) .

In tal caso, la decisione con cui si accoglie la domanda sarà, necessariamente, di confisca e contestuale sequestro dei beni (al fine di evitarne la dispersione, data la non immediata esecutività) mentre la decisione con cui si esprime l'assenza dei presupposti di confiscabilità, sarà - semplicemente - di diniego della domanda di confisca.

Chiarito tale punto preliminare, ne deriva l'effettivo apprezzamento di irragionevolezza della disciplina, lì dove si ritenesse preclusa la impugnabilità di tale tipologìa di decisione.

La irragionevolezza si coglie nel fatto che la possibilità - o meno - di impugnare il diniego della confisca viene rimessa ad una eventualità procedimentale (la previa esistenza del sequestro) che non assurge a presupposto legittimante la domanda di confisca, e pertanto due provvedimenti del tutto similari (diniego di confisca che implichi revoca di un sequestro/diniego di confisca che implichi rigetto implicito di un sequestro contestuale, n.d.r.) sarebbero trattati diversamente quanto ad esistenza del potere di impugnazione.

Il nodo viene sciolto evidenziandosi l'esistenza di una vera e provia "svista del Legislatore" posto che « [...] nella elencazione dei provvedimenti impugnabili (art. 27) non sono stati considerati tutti i possibili passaggi del procedimento applicativo delle misure di prevenzione patrimoniali ».

Tale lacuna, tra l'altro oggetto di una iniziativa legislativa tesa alla sua correzione, può essere risolta in via interpretativa, affermano le Sezioni unite, « attraverso il rinvio ai principi generali che regolano il sistema delle impugnazioni dei provvedimenti emessi in materia di misure di prevenzione personali ».

In effetti emerge che il Legislatore ha erroneamente considerato - per quanto detto in precedenza - la revoca del sequestro (assoggettata ad impugnazione) come unico provvedimento espressivo del diniego della proposta di applicazione della confisca.

Posto che così non è, va considerato - al fine di rispettare le ricadute del principio generale di tassatività, al contempo estraendo la reale voluntas legis - che la elencazione di cui all'art. 27, comma 1, riguardi essenzialmente il dovere di comunicazione alle parti dei provvedimenti ivi descritti, mentre la disposizione regolatrice della impugnabilità va individuata nell'art. 27, comma 2, norma che realizza un rinvio generale ai contenuti dell'art. 10 (in tema di misure personali). Ora, tale norma è formulata in modo particolarmente ampio e ricomprende sia i provvedimenti applicativi delle misure che quelli reiettivi.

Ciò consente di ritenere impugnabile con il rimedio dell'appello tutte le decisioni reiettive della domanda di confisca, abbiano o meno implicato la revoca di un precedente sequestro.

La decisione, pertanto, percorre con forza il sentiero della interpretazione sistematica (improntata a ragionevolezza) a scapito di quella meramente letterale della singola disposizione e si iscrive, pertanto, in un robusto filone giurisprudenziale di legittimità teso ad estrarre il contenuto della singola disposizione da un esame complessivo dei rapporti tra norme diverse ed affini. Sul tema, una compiuta espressione di tale criterio interpretativo può leggersi, tra le molte, in Sez. I, n. 28555 del 4 giugno 2001, ove si ribadisce come l'operazione interpretativa del dato normativo non possa ridursi alla esegesi testuale: l'art. 12 delle preleggipone quale parametro della interpretazione la ricerca dell'intenzione del Legislatore accanto a quella del significato proprio delle parole secondo la connessione di esse. E che la ricostruzione della obiettiva portata di una disposizione legislativa non possa ridursi alla mera esegesi del testo appare evidente quando si considera che essa è destinata, per propria natura, a conferire un preciso assetto agli interessi coinvolti nelle materie regolate, onde il delicato compito dell'interprete è quello di individuare la reale vis ac potestas'della norma, ossia l'effettivo contenuto precettivo nel quale si è obiettivata l'intenzione del Legislatore - facendo riferimento oltre che alla lettera della legge alla sua ratio e alla sua collocazione nel sistema, la cui linfa alimenta lo spirito della stessa norma, come parte del tutto.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.