Le Sezioni unite sulla tipicità delle coltivazioni “domestiche” e sulla offensività delle coltivazioni debellate prima della maturazione delle piante

Michele Toriello
19 Maggio 2020

Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e...
1.

Secondo il tenore letterale del Testo Unico, è illecita e penalmente rilevante ogni condotta di coltivazione di stupefacenti, indipendentemente dalla sua estensione (il reato è dunque configurabile non solo in presenza di grosse piantagioni, ma anche ove una singola pianta sia fatta crescere in vaso sul balcone o sul terrazzo della propria abitazione) e dallo scopo avuto di mira dall'agente (la coltivazione non rientra, infatti, tra le cinque condotte descritte dall'art. 75 del Testo Unico - importazione, esportazione, acquisto, ricezione, detenzione - in relazione alle quali l'accertata destinazione dello stupefacente al consumo personale degrada il reato ad illecito amministrativo): si è, invero, al cospetto di un reato di pericolo astratto, nel quale la soglia dell'incriminazione è stata anticipata, a cagione della ritenuta maggiore idoneità lesiva della condotta, che - a differenza della semplice detenzione, ed al pari della produzione e della fabbricazione - immette nel mercato nuovi ed ulteriori quantitativi di sostanza stupefacente, incrementando il pericolo di circolazione e diffusione delle droghe, e, correlativamente, il rischio per la pubblica salute, tradizionalmente individuata quale bene giuridico protetto, unitamente alla sicurezza pubblica ed all'ordine pubblico.

L'impianto normativo ha resistito alle censure di costituzionalità sollevate nel 1995 e nel 2016: con la sentenza n. 360 del 24 luglio 1995 la Consulta ha ritenuto non irragionevole la scelta di sanzionare penalmente anche la coltivazione c.d. domestica, poiché, diversamente dalla detenzione, la coltivazione non ha un nesso di immediatezza con l'uso personale (“il che giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”), non consente di esprimersi con certezza circa la destinazione del prodotto (“nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente .. la valutazione prognostica della destinazione della sostanza. Invece nel caso della coltivazione non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e ciò ridonda in maggiore pericolosità della condotta stessa”), ed incrementa il grado di offesa ai beni giuridici protetti (“l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili”).

Ad analoghe conclusioni è, più di recente, giunta la sentenza n. 109 del 20 maggio 2016, nelle cui motivazioni si è ribadito che “la strategia d'intervento volta a riservare .. un trattamento meno rigoroso al consumatore dello stupefacente – lasciando, peraltro, ferma la qualificazione delle sue scelte in termini di illiceità – non esclude che il legislatore, nell'ottica di prevenire i deleteri effetti connessi alla diffusione dell'abitudine al consumo delle droghe, resti libero di non agevolare (e, amplius, di contrastare) i comportamenti propedeutici all'approvvigionamento dello stupefacente per uso personale. Allo stesso modo in cui detta strategia non rende illegittima la sottoposizione a pena del cedente al minuto che fornisce la sostanza al tossicofilo, malgrado ciò si risolva in un evidente ostacolo all'approvvigionamento .., essa non impedisce neppure al legislatore di considerare penalmente rilevante, ex se, l'attività intesa a produrre nuova droga”.

Negli stessi termini si sono pronunciate le Sezioni unite, con le sentenze gemelle Di Salvia e Valletta (nn. 28605 e 28606 del 24 aprile 2008): ribadito che l'ipotesi criminosa è espressione di una notevole anticipazione della tutela penale, e che la natura di reato di pericolo astratto risponde alle “esigenze di tutela della salute collettiva”, bene giuridico primario che legittima il legislatore ad anticiparne la protezione “ad uno stadio precedente il pericolo concreto”, il massimo consesso nomofilattico ha ritenuto che l'impossibilità di determinare ex ante la potenzialità drogante ricavabile dalla coltivazione, e l'assenza di un nesso di immediatezza tra coltivazione e consumo, rendono del tutto ipotetiche e comunque non affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga (all'uso personale piuttosto che alla cessione). Peraltro, poiché la coltivazione non rientra tra le condotte in relazione alle quali è ammessa la prova della destinazione della droga all'uso personale, e dunque non è sanzionabile in via amministrativa ai sensi dell'art. 75 del Testo Unico, ove la coltivazione “domestica” fosse ritenuta penalmente irrilevante, essa non sarebbe sanzionabile neppure in via amministrativa: il che sarebbe illogico e paradossale. Dunque, “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”.

La giurisprudenza di legittimità dell'ultimo decennio – nel dare continuità ai principi espressi dalle pronunce appena illustrate – ha, tuttavia, con sempre maggiore frequenza ed efficacia moderato la rigorosa affermazione della rilevanza penale di ogni condotta, anche se “domestica”, di coltivazione, riguardando la fattispecie incriminatrice alla luce del principio di necessaria offensività della condotta, in forza del quale non è concepibile un reato senza lesione o messa in pericolo del bene giuridico protetto.

Come è noto, il principio di offensività - frutto di una raffinata combinazione ermeneutica degli articoli 13, 25 comma 2, e 27 della Costituzione - non opera solo sul piano della previsione normativa, quale precetto rivolto al legislatore affinché preveda fattispecie che esprimano un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse meritevole di tutela penale (c.d. offensività in astratto), ma si riverbera sulla quotidiana applicazione giurisprudenziale delle norme, quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il reato contestato all'imputato abbia effettivamente leso o quanto meno messo in pericolo quel bene o interesse (c.d. offensività in concreto): secondo l'impostazione preferibile (cd. concezione realistica del reato), la mancanza di offensività non esclude la tipicità della condotta, ma fa rifluire la fattispecie nella figura del reato impossibile (art. 49, secondo comma, c. p.).

La declinazione della fattispecie in esame quale reato di pericolo astratto – reputata insindacabile dalla Corte costituzionale - non preclude, dunque, l'imprescindibile verifica della concreta offensività della condotta, come concordemente ed espressamente statuito dalle citate sentenze della Corte Costituzionale (nella sentenza n. 360/1995 può leggersi della “necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile”; in quella n. 109/2016 si è statuito che “compete al giudice verificare se la singola condotta di coltivazione non autorizzata, contestata all'agente, risulti assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità”), e delle Sezioni Unite [“in ossequio .. al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva. La condotta è «inoffensiva» soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell'offesa)]”, e come ribadito dalla sentenza Caruso (“la ricostruzione sistematica del reato di coltivazione di stupefacenti, in termini di pericolo presunto, trova adeguato temperamento nella valorizzazione dell'offensività «in concreto», quale criterio interpretativo affidato al giudice, il quale è tenuto a verificare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene-interesse tutelato”), onde evitare che finisca per essere punito il mero “pericolo del pericolo”, ossia il pericolo che l'esito positivo della coltivazione possa mettere in pericolo il bene giuridico oggetto di tutela.

Quattro (o, meglio, tre, come si sta per precisare) sono i tradizionali ambiti di operatività del principio di offensività:

1) coltivazioni che avvengano con tecniche o in ambienti tali da precludere lo sviluppo e la maturazione delle piante: vengono in rilievo la mancata corrispondenza della pianta al tipo botanico, ed il positivo accertamento di inidonee modalità di coltivazione o di sfavorevoli condizioni ambientali, che comportano la radicale inettitudine della coltivazione..., anche per le modalità seguite, a giungere a maturazione ed a produrre sostanza stupefacente” (Cass. pen., Sez. VI, n. 36419/2014); a ben vedere, tuttavia, se non vi sono le condizioni perché la pianta germogli, fiorisca e produca il principio attivo, si è in presenza di una condotta che (prim'ancora che possa iniziarsi a ragionare di concreta offensività) non corrisponde al fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice;

2) coltivazioni dalle cui piante sia possibile trarre principio attivo così esiguo da non poter avere effetti droganti: in applicazione di una regola di giudizio che vale per ogni attività incriminata dall'art. 73 del Testo Unico, non può ritenersi concretamente offensiva dei beni giuridici protetti dalla norma la condotta che abbia avuto ad oggetto una sostanza caratterizzata dal principio attivo così esiguo, da non poter in alcun modo incidere sull'assetto neuropsichico dell'assuntore; il principio è stato incidentalmente ribadito dalla sentenza delle Sezioni unite in commento (“il reato non potrà essere ritenuto sussistente qualora si verifichi ex post che la coltivazione ha effettivamente prodotto una sostanza inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”. Al fine di escludere la punibilità rileva dunque “un eventuale risultato finale della coltivazione che … abbia un contenuto in principio attivo troppo povero per la utile destinazione all'uso quale droga”), ed ha trovato spesso applicazione nella giurisprudenza di legittimità con riferimento alla condotta in esame (cfr. Cass. pen., Sez. VI, n. 33835/2014, relativa alla coltivazione di due piante, con principio attivo ricavabile pari a mg. 20: la Corte ha accolto il ricorso del Procuratore Generale, annullando senza rinvio la sentenza di condanna dell'imputato, rilevando che “la offensività in concreto manca quando il prodotto finale non abbia alcuna capacità drogante”; Cass. pen., Sez. VI, n. 22110/2013, relativa alla coltivazione di tre piante, con principio attivo non indicato: “ragionevolmente... il giudice di merito... ha riconosciuto, a fronte delle oggettive circostanze del fatto e della stessa modestia dell'attività posta in essere nella coltivazione domestica di tre piantine di marijuana poste in altrettanti vasetti in casa dell'imputato, una condotta che, a prescindere dalla destinazione del ricavando prodotto a meri fini personali difettava di una apprezzabile potenzialità offensiva in punto di capacità drogante della cennata coltivazione domestica”; Cass. pen., Sez. III, n. 13107/2013, relativa alla coltivazione di una pianta, con principio attivo ricavabile pari a mg. 18,44: “non è quindi riscontrabile offensività nella condotta tenuta dall'imputato … dovendosi ritenere che tale condotta non abbia inferto lesione alcuna al bene giuridico protetto dal d.P.R. n. 309 del 1990, art. 73”; Cass. pen., Sez. IV, n. 25674/2011, relativa alla coltivazione di una pianta, con principio attivo ricavabile pari a mg. 16 mg: “condotta del tutto inoffensiva dei beni giuridici tutelati dalla norma incriminatrice”);

3) piccole coltivazioni “domestiche” destinate a soddisfare il consumo del solo coltivatore: l'orientamento, inaugurato da Cass. pen., Sez. VI, n. 5254/2016, reputa in concreto inoffensive le piccole coltivazioni (una, due piante o poco più), realizzate con modalità rudimentali (come nel classico esempio della pianta messa a dimora nel vaso collocato sul balcone dell'abitazione), quando siano acquisiti elementi sufficienti per affermare che il relativo prodotto non sarebbe mai entrato nella disponibilità di persone diverse dall'agente (ad es. prova dello stato di tossicofilia del coltivatore; mancato rinvenimento di qualsivoglia materiale utilizzabile per il confezionamento di singole dosi da destinare allo spaccio); in casi del genere, invero, pur essendosi in presenza di una condotta astrattamente idonea ad integrare la fattispecie incriminatrice, se ne dovrebbe apprezzare la concreta e radicale inidoneità ad offendere i beni giuridici protetti: quello della salute pubblica (la condotta è idonea a ledere solo la salute individuale dell'agente), e quelli dell'ordine e della sicurezza pubblici (del tutto indifferenti ad una condotta che esaurisce il suo disvalore all'interno dell'abitazione nella quale il tossicofilo ha avviato la sua piccola piantagione); si tratta, tuttavia, di orientamento avversato dalla tradizionale giurisprudenza di legittimità che, dando rigoroso seguito ai principi affermati da Corte costituzionale e Sezioni unite, ritiene che la punibilità debba prescindere da qualsiasi considerazione relativa all'estensione del terreno, al numero delle piante coltivate, alle tecniche più o meno rudimentali utilizzate, alla destinazione finale del raccolto (cfr., tra le più recenti, Cass. pen., Sez. IV, n. 38844/2019, relativa alla coltivazione in abitazione di 8 piante di cannabis: “la coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti costituisce reato indipendentemente dalla circostanza che il prodotto della coltivazione sia destinato o meno ad un uso esclusivamente personale..., essendo irrilevante, ai fini della sussistenza del reato, la distinzione fra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica”; Cass. pen., Sez. III, n. 23805/2019, relativa alla coltivazione in abitazione di 17 piante di cannabis: integra il reato “qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”; Cass. pen., Sez. VI, n. 14948/2019, relativa alla coltivazione in abitazione di due piante di cannabis: la Corte ha rigettato il ricorso nel quale, tra l'altro, il difensore dell'imputato si rifaceva alla “risalente ed ormai superata distinzione... fra coltivazione domestica e tecnico-agraria”);

4) coltivazioni scoperte, e dunque definitivamente neutralizzate, in epoca anteriore rispetto a quella nella quale le piante sarebbero giunte a maturazione: poiché la condotta di coltivazione - come testualmente affermato dalle Sezioni unite Di Salvia e Valletta - è punibile fin dal momento della messa a dimora dei semi, si è tradizionalmente ritenuto che la mancata maturazione della pianta non possa essere invocata per affermare l'inoffensività della condotta; in tal caso, peraltro, l'irrilevanza penale rifluirebbe da circostanze non solo del tutto estranee rispetto alla condotta dell'imputato, ma anche oggettivamente arbitrarie e casuali: di fatto, l'epoca dell'intervento repressivo della polizia giudiziaria diventerebbe decisivo ai fini dell'incriminazione, determinando, se eccessivamente anticipato, l'assoluzione dell'imputato.

Dunque, secondo il consolidato orientamento di legittimità, l'offensività della condotta di coltivazione sussiste ogni volta che si accerti la semplice idoneità della pianta a produrre principio attivo, poiché ciò che rileva è la conformità della pianta al tipo botanico, la sua concreta idoneità a giungere a maturazione producendo la sostanza stupefacente, la quantità di principio attivo potenzialmente ricavabile, indipendentemente da quella materialmente ricavata.

Negli ultimi anni ha tuttavia trovato spazio, nella giurisprudenza della Suprema Corte, l'orientamento che fa discendere dalla attuale assenza di principio attivo – da qualunque fattore essa dipenda - la radicale inidoneità della condotta a ledere il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Al centro dell'indagine, ha ammonito la Corte nella pronuncia che ha con le più persuasive argomentazioni alimentato il contrasto giurisprudenziale (Cass. pen., Sez. V, n. 2618/2016), devono esservi i generali principi in tema di offensività della condotta, trascurando i quali si correrebbe il rischio di una “applicazione eccessivamente anticipata della tutela penale”, tale da ricomprendere nel fuoco dell'incriminazione condotte prive della capacità di ledere effettivamente i beni giuridici oggetto di tutela: in ossequio a quei principi non può riconoscersi alcuna attitudine concretamente offensiva ad una condotta che abbia ad oggetto una sostanza priva di principio attivo, né vi è motivo – alla luce di una indagine condotta dall'angolo visuale del bene giuridico protetto – di riconoscere rilevanza penale a condotte che quella attitudine offensiva avrebbero potuto avere ma non hanno in concreto avuto, essendo impraticabile un accertamento “a futura memoria”, che si concentri su ciò che sarebbe stato trascurando ciò che è realmente stato.

Secondo questo orientamento, dunque, la verifica dell'offensività non può essere proiettata al momento in cui le piante avrebbero completato il ciclo di maturazione: ove – come nel caso della pronuncia innanzi citata – venga contestato all'imputato di aver coltivato piante neppure germogliate (il caso di specie era relativo a “piantine minuscole contenute in bicchierini da caffè non giunte a maturazione”, che “non avevano nessun effetto drogante, come è stato accertato dalla relazione del RIS”), non può essere dato spazio ad un accertamento “ipotetico”, che ometta la necessaria “valutazione in concreto sulla offensività della condotta”, così giungendo ad affermare la rilevanza penale di una condotta “di cui non risulta dimostrata la capacità di mettere in pericolo il bene tutelato”.

Deve pertanto “escludersi che per la punibilità di tale condotta sia sufficiente la verifica che sia stata coltivata una pianta conforme al tipo botanico, in quanto va comunque accertata la sussistenza della offensività in concreto, nel senso che anche in presenza del perfezionamento dell'azione tipica, il giudice deve escludere la punibilità se la condotta è in concreto inoffensiva”.

Il principio è stato, più di recente, ribadito da Cass. pen., Sez. III, n. 28151/2019, che ha annullato con rinvio la sentenza di condanna dell'imputato tratto a giudizio – tra l'altro - per la coltivazione di una pianta di cannabis: “la sentenza impugnata... ha ritenuto la concreta offensività, in assenza di accertamento di principio attivo, dal grado di sviluppo che «lascia presagire l'attitudine a produrre sostanza drogante», motivazione ipotetica e non congrua, dovendo il giudizio, necessariamente fondato su dati fattuali ricavabili dalla situazione concreta, esprimere gli elementi in forza dei quali si ritenga, in termini di concretezza, l'attitudine, della coltivazione, ad avere effetto drogante”.

2.

La Terza Sezione della Suprema Corte, con ordinanza n. 35436 dell'11 giugno 2019, depositata il 2 agosto 2019, ha sollecitato un nuovo intervento delle Sezioni unite in materia.

Il ricorso oggetto del suo scrutinio era stato presentato dall'imputato condannato per avere illecitamente coltivato “due piante di marijuana” in “avanzata fase di crescita”, “l'una alta un metro e con diciotto rami, l'altra, alta 1,15 mt., con venti rami”: i giudici di merito avevano ritenuto la condotta non solo tipica ma anche concretamente offensiva, dando continuità al più rigoroso orientamento in base al quale “l'offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti”.

Nell'esaminare il motivo del ricorso relativo alla dedotta inoffensività della condotta, la Corte ha evidenziato che i giudici di merito avevano ritenuto irrilevante l'indagine circa il grado di maturazione delle piante, mentre l'imputato aveva “contestato la correttezza giuridica di tale conclusione invocando l'applicazione dell'opposto indirizzo ermeneutico che non si <accontenta> della mera conformità al tipo botanico, ma pretende l'accertamento in concreto della idoneità della piantina a produrre effetto drogante. La questione, del resto, era stata devoluta in appello in termini sostanzialmente sovrapponibili, avendo l'imputato dedotto: a) la totale mancanza di infiorescenze, sintomo di assenza di principio attivo; b) il mancato accertamento della idoneità in concreto delle piantine a produrre un effetto drogante”.

La Corte ha, altresì, dato atto anche di un contrasto giurisprudenziale ravvisabile tra le sentenze che hanno ritenuto che “ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l'offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell'obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente (Cass. pen., Sez.VI, n. 35654 del 28/04/2017, Nerini, Rv. 270544; Cass. pen., n. 53337 del 23/11/2016, Trabanelli, Rv. 268695; Cass. pen., Sez.VI, n. 52547 del 22/11/2016, Losi, Rv. 268938; Cass. pen., Sez.VI, n. 25057 del 10/05/2016, Iaffaldano, Rv. 266974; Cass. pen., Sez.III, n. 23881 del 23/02/2016, Damioli, Rv. 267382)”, e quelle che hanno, invece, ritenuto che “ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato(Cass. pen., Sez.III, n. 36037 del 22/02/2017, Compagnini, Rv. 271805; Cass. pen., Sez.VI, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168; Cass. pen., Sez.VI, n. 5254 del 10/11/2015, Pezzato, Rv. 265641; Cass. pen., Sez.VI, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170)”.

La questione controversasottopostaall'esame del massimo consesso nomofilattico è stata, dunque, così sintetizzata:

se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, è sufficiente che la pianta sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l'attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.

3.

Con decreto del Primo Presidente Aggiunto del 10 ottobre 2019, il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite Penali, per l'udienza del 19 dicembre 2019.

4.

All'esito della camera di consiglio del 19 dicembre 2019, le Sezioni unite hanno affermato i seguenti principi di diritto:

Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore.

5.

I principi di diritto affermati dalla sentenza Caruso.

La piccola coltivazione “domestica” messa a dimora dal tossicofilo non integra il fatto tipico. La sentenza Caruso, n. 12348/2020, è stata depositata il 16 aprile 2020.

Nelle sue motivazioni viene ritenuto imprescindibile “punto di partenza di ogni riflessione” l'esatta identificazione della stessa nozione di coltivazione, e dunque la delimitazione dei confini del fatto tipico: aspetto, evidentemente, prodromico alla ricostruzione del più o meno ampio ambito di operatività del principio di offensività, e dunque meritevole di approfondimento pur se non oggetto di specifica devoluzione da parte dei giudici remittenti.

Ebbene, la Corte ha innanzi tutto ribadito la sicura estraneità al fatto tipico – per evidente assenza dell'oggetto materiale della condotta – delle condotte riguardanti piante non conformi al tipo botanico, e piante che, pur conformi al tipo botanico, sono irrimediabilmente inidonee a giungere a maturazione (per problemi agronomici, per questioni ambientali, per le cattive tecniche di coltivazione): “perché vi sia una coltivazione penalmente rilevante è necessario, non solo che la stessa abbia per oggetto una pianta che sia in concreto idonea a produrre sostanze vietate, ma anche che siano utilizzate, a tal fine, strumentazioni e pratiche agricole tecnicamente adeguate”.

Ha, poi, ritenuto doverosa una rivisitazione degli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi in tema di distinzione tra coltivazione “domestica” e coltivazione “imprenditoriale”.

Si deve, in proposito, rammentare che, al fine di mitigare il rigore che si trae dall'interpretazione letterale della norma incriminatrice, per lungo tempo una giurisprudenza – per lo più di merito - rimasta sempre minoritaria, operando sul versante della tipicità, ha sostenuto che l'art. 73 d. P. R. n. 309/1990 non si riferisce alla condotta del tossicofilo che metta a dimora poche piante all'esclusivo scopo di soddisfare il suo proprio consumo.

Si è, in particolare, teorizzata la necessità di distinguere le condotte di “coltivazione domestica”, configurabile quando un soggetto mette a dimora - spesso neppure in piena terra ma in vasi collocati su balconi o terrazzi - poche piantine di sostanze stupefacenti, da quelle di “coltivazione in senso tecnico”, configurabile in presenza di colture di maggiori dimensioni: quella “domestica”, pur essendo naturalisticamente una condotta di coltivazione, non integrerebbe gli estremi della fattispecie tipica (dovendosi, piuttosto, ritenere species del più ampio genus della detenzione), poiché, quando si riferisce alla “coltivazione”, la legge sugli stupefacenti – ivi compresa la norma incriminatrice dell'art. 73 - intende fare esclusivo riferimento alle ipotesi di coltivazione “imprenditoriale” descritte dagli articoli 26 e seguenti del Testo Unico.

L'orientamento, inaugurato da due pronunce di legittimità della Sesta Sezione del 1994 (12 luglio 1994, Gabriele: “nel caso della coltivazione c.d. domestica, qualora il tossicodipendente metta a dimora in vasi detenuti nella propria abitazione alcune piantine di sostanze stupefacenti o psicotrope, si esula dalla nozione di coltivazione tecnico-agraria di cui agli artt. 26-28 d.P.R. n. 309/90 … la condotta può essere inclusa in un'ipotesi di detenzione per uso personale, colpita solo con sanzioni amministrative”; in termini anche Cass. pen., Sez. VI, n. 6347/1994), fu tuttavia indebolito dalla sentenza n. 360/1995 della Corte costituzionale, e definitivamente depotenziato dalle citate sentenze delle Sezioni unite Di Salvia e Valletta, che ritenneroarbitraria, in quanto non legittimata da alcun riferimento normativo, la distinzione tra “coltivazione in senso tecnico-agrario” ovvero “imprenditoriale”, e “coltivazione domestica”: qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato dal dato essenziale e distintivo — rispetto alla detenzione — di “contribuire ad accrescere... la quantità di sostanza stupefacente esistente”, il che giustifica la previsione di “un trattamento sanzionatorio diverso e più grave”. Se, cioè, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di impedire che la droga giunga al consumatore, non può che condividersi il rigore nei confronti di una condotta, come quella della coltivazione (anche se “domestica”), che inevitabilmente finisce per accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente in natura. Dunque, “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale”. Da ultimo, la citata sentenza n. 109/2016 della Corte costituzionale ha giudicato l'incriminazione della condotta di coltivazione “domestica” rispettosa del principio di offensività, ritenendo – come si è già detto – non arbitraria né irragionevole che la condotta – in vista delle spiccate esigenze di tutela dei beni giuridici protetti – sia punita “a prescindere dalla destinazione del prodotto”.

Ebbene, le Sezioni unite Caruso ritengono chel'affermazione della rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale … debba essere rivista”.

Non viene ripercorsa la strada, giustamente da tempo abbandonata, che vede nella coltivazione del tossicofilo una species del più ampio genus della detenzione; non può, invero, dubitarsi della autonomia concettuale delle due condotte, già correttamente valorizzata dalla sentenza Di Salvia: “si tratta di un inquadramento che deve essere in questa sede confermato, in quanto corretto sul piano letterale e sistematico. Esso si basa, innanzitutto, sul dato normativo del d.P.R. n. 309 del 1990, art. 28, comma 1 il quale equipara la coltivazione delle piante vietate indicate nel precedente art. 26 alla fabbricazione illecita di sostanze stupefacenti. Tale previsione è doppiata da quella del cit. d.P.R., art. 73, comma 1, che punisce espressamente la coltivazione di sostanze stupefacenti distinguendola dalla detenzione, di cui al successivo comma 1 bis (n.d.r.: evidente la svista delle Sezioni unite, che intendevano fare riferimento all'art. 75, comma 1 bis, e non all'oramai inesistente – perche travolto dalla sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale – art. 73, comma 1 bis) punita nei limiti in cui lo stupefacente appaia destinato ad uso non esclusivamente personale; limitazione non prevista per la coltivazione. Anche dopo le modifiche introdotte dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, e i successivi interventi normativi sul sistema, il legislatore persiste, dunque, nell'intenzione di equiparare la coltivazione non autorizzata alla produzione o fabbricazione non autorizzate .., per le quali l'eventuale destinazione ad uso personale non assume efficacia scriminante. Il sistema è completato dal successivo art. 75 dello stesso d.P.R., che qualifica quali illeciti amministrativi, escludendoli dall'ambito di applicazione del diritto penale, l'importazione, esportazione, acquisto, ricezione, detenzione di stupefacenti ad uso personale, senza estendere tale esclusione alla coltivazione, produzione o fabbricazione (in tal senso, ampiamente, Corte Cost., n. 109 del 2016). Ne consegue che la coltivazione non può essere ritenuta una sottospecie della detenzione, come tale punibile solo in quanto vi sia stata effettiva produzione di sostanza dotata di efficacia drogante, perché una tale interpretazione... oltre a scontrarsi con il tenore letterale di una pluralità di disposizioni normative, si pone in rotta di collisione con la chiara scelta del legislatore di punire ogni forma di produzione di stupefacenti, se necessario, anticipando la tutela al momento in cui si manifesta un pericolo ragionevolmente presunto per la salute”.

Le Sezioni unite propugnano, tuttavia, una interpretazione restrittiva della norma incriminatrice, che – “nell'ottica garantista di un corretto bilanciamento fra ampiezza e anticipazione della tutela” – va a contemperare il rilevante arretramento della soglia della punibilità derivante dalla natura di reato di pericolo astratto: dunque, “ferma restando la sua autonomia concettuale, la nozione giuridica di coltivazione deve... essere circoscritta, per dare spazio alla distinzione tra coltivazione «tecnico-agraria» e coltivazione «domestica», seppure nell'ambito di una ricostruzione sistematica parzialmente diversa rispetto a quella proposta dalla giurisprudenza che ha valorizzato tale distinzione”.

Ad avviso della Corte “deve essere dato rilievo, a tal fine, al d.P.R. n. 309 del 1990, art. 27, il quale, ai fini dell'autorizzazione alla coltivazione, fa riferimento anche alle «particelle catastaliP e alla «superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione», mentre i successivi artt. 28, 29 e 30 richiamano le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle «coltivazioni autorizzate» e le eccedenze di produzione «sulle quantità consentite»; elementi evocativi di una coltivazione «tecnico-agraria», di apprezzabili dimensioni e realizzata per finalità commerciali, non limitata, dunque, all'ambito domestico. D'altra parte, la stessa sentenza Di Salvia, nel sottolineare la distinzione ontologica fra coltivazione e detenzione, afferma che la coltivazione, a differenza della detenzione, è attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti; ma tale affermazione non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l'intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti. La prevedibilità della potenziale produttività è, quindi, uno dei parametri che permettono di distinguere fra la coltivazione penalmente rilevante, dotata di una produttività non stimabile a priori con sufficiente grado di precisione, e la coltivazione penalmente non rilevante, caratterizzata da una produttività prevedibile come modestissima”.

Dunque, quando l'art. 73 del Testo Unico parla di “coltivazione”, non fa riferimento alle coltivazioni “domestiche”, ma solo a quelle “tecnico-agrarie”.

Consapevole della estrema vaghezza della linea di discrimine così individuata, la Corte puntella il suo argomentare con il riferimento ad elementi oggettivamente verificabili: “si tratta... di un parametro che, per poter operare con sufficiente certezza, deve essere ancorato a presupposti oggettivi in parte già individuati dalla giurisprudenza (ex plurimis, Cass. pen., Sez.III, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino, Rv. 255427; Cass. pen., Sez.VI, n. 6753 del 09/01/2014, M., Rv. 258998; Cass. pen., Sez.VI, n. 33835 del 08/04/2014, Piredda, Rv. 260170 e Cass. pen., Sez.VI, n. 8058 del 17/02/2016, Pasta, Rv. 266168) - che devono essere tutti compresenti, quali: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell'attività nell'ambito del mercato degli stupefacenti, l'oggettiva destinazione di quanto prodotto all'uso personale esclusivo del coltivatore. A contrario, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l'intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché - come appena visto - la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l'uso personale”.

Viene dunque affermato il seguente principio di diritto: devono... ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore.

Ad avviso delle Sezioni unite vanno, pertanto, espunte dall'area dell'incriminazione – perché non corrispondenti al fatto tipico descritto dalla norma incriminatrice - le condotte di messa a dimora di poche piante, con tecniche rudimentali, da parte di soggetti tossicofili non legati ad ambienti di spaccio: l'articolo 73 del Testo Unico non fa, invero, riferimento a queste coltivazioni di tipo “domestico”, ma bensì solo a quelle, più ampie, di carattere commerciale o imprenditoriale.

La soluzione – pur perseguendo condivisibili intenti di giustizia sostanziale – non appare soddisfacente, né da un punto di vista letterale, né da un punto di vista sistematico.

Quanto al primo aspetto, occorre rammentare che il Testo Unico detta la disciplina relativa alla coltivazione di sostanze stupefacenti nell'art. 26, a mente del quale “è vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all'art. 14, ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all'art. 27, consentiti dalla normativa dell'Unione europea. Il Ministro della sanità può autorizzare istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali di ricerca, alla coltivazione delle piante sopra indicate per scopi scientifici, sperimentali o didattici”.

Ulteriori disposizioni sono contenute negli articoli 17 (“chiunque intenda coltivare... sostanze stupefacenti o psicotrope, comprese nelle tabelle di cui all'articolo 14 deve munirsi dell'autorizzazione del Ministero della sanità”), 16 (“l'elenco aggiornato degli enti e delle imprese autorizzati alla coltivazione... di sostanze stupefacenti o psicotrope, con gli estremi di ciascuna autorizzazione e con la specificazione delle attività autorizzate, è pubblicato annualmente, a cura del Ministero della sanità, nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana”), 27 (sul contenuto della richiesta di autorizzazione alla coltivazione e sulla estensione della validità dell'autorizzazione), 28 e 29 (in tema di vigilanza, controlli e sanzioni), 30 (in tema di eccedenze di produzione).

Ad avviso delle Sezioni unite, dal combinato disposto degli articoli 26 - 30 e 73 del Testo Unico si ricava che la coltivazione “domestica” non integra il fatto tipico: quando il legislatore parla di coltivazione, lo fa esclusivamente per riferirsi ad un'attività di natura imprenditoriale, come lascia intendere l'impiego – negli articoli 26 - 30 - di locuzioni e concetti che evocano l'ampiezza della piantagione e la natura professionale dell'attività svolta (“particelle catastali”, “superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione”, “locali destinati alla custodia”, “vigilanza e controllo di tutte le fasi della coltivazione fino all'avvenuta cessione del prodotto”, ”eccedenze di produzione”, “quantità consentite”).

Ebbene, non può negarsi che le locuzioni enfatizzate nella sentenza Caruso facciano riferimento ad una coltivazione "tecnico-agraria"; la ragione è evidente: si tratta delle disposizioni relative alle attività di coltivazione – sicuramente connotate da professionalità - autorizzate dal Ministro della salute ai sensi dell'art. 17, e già soggette al particolare sottosistema sanzionatorio delineato dagli articoli 28 e 30, che prevede:

  • un illecito penale per il soggetto autorizzato che per colpa produce sostanze stupefacenti o psicotrope superando di oltre il 10% le quantità consentite (art. 30 cpv.);
  • un illecito amministrativo per il soggetto autorizzato che “non osserva le prescrizioni e le garanzie cui l'autorizzazione è subordinata” (art. 28 cpv.);
  • il sequestro e la confisca delle piante illegalmente coltivate (art. 28, terzo comma);
  • il soggetto che, non autorizzato, coltivi le piante indicate nell'art. 26, è infine “assoggettato alle sanzioni penali ed amministrative stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse (art. 28, primo comma).

È sufficiente leggere l'incipit della norma incriminatrice dell'art. 73 per comprendere che, per converso, essa fa riferimento a qualsivoglia soggetto, ad eccezione proprio di colui che sia stato autorizzato ai sensi dell'art. 17 (“chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva … sostanze stupefacenti o psicotrope”).

La coltivazione della quale si occupa l'art. 73 non è, dunque, quella (già sanzionata attraverso gli articoli 28 e 29) della quale si occupano gli articoli 26 e seguenti: i termini utilizzati negli articoli 26 e seguenti nulla possono dirci in merito al tipo di coltivazione sanzionato dall'art. 73; essi, al più, illustrano che la coltivazione autorizzata ha necessariamente natura imprenditoriale; ma, di certo, non permettono di sostenere che anche la coltivazione descritta nella norma incriminatrice debba necessariamente avere natura imprenditoriale.

Da un punto di vista sistematico, è sufficiente osservare che l'esegesi proposta dalle Sezioni unite non è affatto idonea ad espungere dall'area della rilevanza penale la condotta del tossicofilo che impianti una piccola coltivazione domestica: nessuna interpretazione “restrittiva” è, invero, possibile in relazione alle condotte di produzione e/o estrazione, ossia alle attività – tutte incriminate dall'art. 73 - necessarie a ricavare dalla pianta il principio attivo la cui assunzione determina gli effetti stupefacenti; il tossicofilo dovrebbe dunque limitarsi a mettere a dimora la piantina di cannabis, ad innaffiarla ed a vederla crescere (ponendo in essere una condotta che, stando alla sentenza Caruso, non corrisponde a quella punita dall'art. 73 del Testo Unico, e che, stando alla formulazione dell'art. 75 del Testo Unico, non è punibile neppure in via amministrativa); se invece egli, giunta a maturazione la pianta, volesse portare a compimento il suo programma, estraendo il THC dal raccolto, perderebbe l'impunità: dunque, ad avviso delle Sezioni unite l'ordinamento consentirebbe la libera coltivazione “domestica” delle piante da stupefacente, ma solo a condizione che da quelle piante non si ricavi lo stupefacente!

Quand'anche volessero tralasciarsi ulteriori considerazioni, che pure paiono fondate - si deve certamente escludere che il legislatore proibizionista che scrisse la norma della cui interpretazione oggi ci occupiamo, abbia voluto sanzionare in via penale o amministrativa ogni condotta relativa alle droghe, ivi compresa la semplice detenzione a fini di uso personale di uno “spinello”, ma non anche la coltivazione domestica delle piante produttrici; il divieto di coltivare le piante comprese nelle tabelle di cui all'art. 14, imposto dall'art. 26 del Testo Unico, è generale ed assoluto e non ammette deroghe diverse da quelle espressamente previste dagli articoli 16 e 17 del Testo Unico, nonché dalla l. n. 242/2016 sulla coltivazione della cannabis sativa L. – deve concludersi nel senso che non può condividersi l'esegesi restrittiva della nozione penalmente rilevante della “coltivazione”, e, dunque, la collocazione della coltivazione “domestica” al di fuori dell'alveo della tipicità.

Come si è accennato, identico risultato (esclusione dall'area dell'incriminazione di quelle condotte che – essendo espressione della semplice propensione dell'agente ad assumere sostanze stupefacenti – non meritano alcuna reazione del sistema penale) può essere ed è stato raggiunto dalla giurisprudenza di legittimità degli ultimi anni, grazie alla ragionata applicazione del principio di offensività.

Si è già detto che la declinazione della fattispecie in esame quale reato di pericolo astratto – reputata insindacabile dalla Corte costituzionale - non preclude l'imprescindibile verifica della concreta offensività, onde evitare che siano sanzionate condotte di mera disobbedienza, che non abbiano cioè alcuna anche solo potenziale attitudine lesiva dei beni giuridici ai quali il legislatore ha inteso fornire tutela.

Ebbene, l'incriminazione in esame è posta a tutela della salute pubblica, dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica (si noti che la sentenza Caruso ha reputato superfluo il riferimento a questi ultimi due beni, peraltro in sintonia con la prevalente dottrina, da sempre molto critica in relazione ai cc.dd. “beni-ripostiglio”, di inafferrabile vaghezza, connotati da un tasso di ambiguità e manipolabilità così elevato, da non essere in grado di consentire l'incriminazione di condotte realmente offensive); ne consegue che una condotta di coltivazione che non sia in grado di incidere alcuno di questi beni giuridici non è offensiva, e dunque non è punibile: ed è proprio questo il caso della piccola coltivazione domestica del tossicofilo, che, rimanendo perimetrata ai bisogni del solo coltivatore, non può offendere né il bene della salute “pubblica” (incidendo la sola salute individuale dell'agente), né gli ulteriori beni giuridici tutelati (risolvendosi la condotta nella costituzione, da parte del tossicofilo, di una autonoma fonte di approvvigionamento, così da rendersi indipendente rispetto alla nutrita rete di spacciatori da strada ed alle organizzazioni criminali che gestiscono quell'illecito e remunerativo mercato).

Numerosissime sono state, negli ultimi anni, le sentenze di legittimità che hanno affermato il principio: Cass. pen., Sez. III, n. 23787/2019 ha annullato con rinvio la sentenza di condanna della donna tratta a giudizio per aver coltivato sul balcone della sua abitazione una pianta di cannabis, e per aver detenuto in casa foglie in fase di essiccazione e marijuana e hashish già pronti per il consumo (la Corte ha invitato il giudice del rinvio a valutare i riflessi sulla concreta offensività della condotta delle allegazioni dell'imputata, che aveva documentato di fare uso terapeutico – per alleviare i dolori che ancora le derivavano dai postumi della poliomelite sofferta in età giovanile - di derivati della cannabis: “non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato”); Cass. pen., Sez. VI, n. 9012/2018 ha rigettato il ricorso del Procuratore della Repubblica avverso la sentenza di assoluzione dell'imputato al quale si contestava la coltivazione di una pianta di canapa indiana dalle cui foglie ed infiorescenze erano ricavabili mg. 2650 di principio attivo, idonei al confezionamento di 106 singole dosi; Cass. pen., Sez. III, n. 36037/2017 ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna dell'imputato al quale si contestava la coltivazione di 6 piante di cannabis dalle quali era ricavabile principio attivo idoneo al confezionamento di 43 singole dosi [“l'attività di coltivazione era pacificamente diretta al consumo personale, non essendo stato rinvenuto alcun concreto elemento indicativo di una diversa destinazione della sostanza da essa ricavata … non vi è alcun dubbio che la coltivazione, realizzata in maniera complessivamente rudimentale, fosse assolutamente poco estesa … Pertanto, ritiene il Collegio che... l'attività di coltivazione non fosse in grado, nel caso concreto, di recare alcuna lesione della salute pubblica, che in quanto costituente «la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui> (così la citata sentenza n. 190 del 2016 della Corte costituzionale), non avrebbe potuto essere concretamente vulnerata da una condotta destinata al consumo esclusivo di una sola persona; e, ancora, che alla descritta condotta non potesse essere ricondotta, per le medesime ragioni, una qualche idoneità a favorire la circolazione della droga e di alimentarne il mercato”]; Cass. pen., Sez. VI, n. 40030/2016 ha rigettato il ricorso del Procuratore della Repubblica avverso la sentenza di non luogo a procedere emessa nei confronti di soggetto che aveva coltivato sul terrazzo della propria abitazione una pianta di cannabis dalla quale era possibile ricavare THC idoneo al confezionamento di 12 singole dosi (le concrete caratteristiche della condotta “escludono che da detta coltivazione possa derivare quell'aumento nella disponibilità della sostanza stupefacente e quel pericolo di ulteriore diffusione che sono gli estremi integrativi della offensività e punibilità della condotta ascritta“); Cass. pen., Sez. VI, n. 8058/2016 ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna dell'imputato al quale si contestava la coltivazione di una pianta di cannabis indica dalle cui foglie ed infiorescenze erano ricavabili gr. 0,345 di principio attivo: (“coltivazione di entità minima e di inconsistenza tale da rendere sostanzialmente irrilevante l'aumento di disponibilità dello stupefacente e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione dello stesso”); Cass. pen., Sez. III, n. 43986/2015 ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna dell'imputato tratto a giudizio per aver coltivato due piante di canapa indiana (“la circostanza che non sia stata affatto valutata... la possibilità che, data la modestissima rilevanza quantitativa della piantagione .., la sostanza da essa prodotta, in quanto destinata all'autoconsumo, non avesse neppure in minimo grado l'attitudine ad incrementare il mercato degli stupefacenti, rende manifestamente illogico, in quanto fondato su dati privi di significatività, il ragionamento accusatorio … Sul punto, pertanto, la sentenza deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste”).

Dunque, la piccola coltivazione “domestica” del tossicofilo può essere ritenuta – pur se tipica – del tutto inoffensiva, ove la complessiva valutazione del minimo numero di piante messe a dimora, delle rudimentali attività di coltivazione, dell'esiguità del principio attivo ricavabile, dell'assenza di elementi che inducano a ritenere provata l'intenzione dell'agente di immettere sul mercato anche solo una parte dello stupefacente autoprodotto, induca a ritenere provata in maniera rassicurante la circostanza che si tratta di coltivazione inidonea ad aumentare i quantitativi di droga presenti sul mercato.

Naturalmente, analogo giudizio di concreta inoffensività potrà investire la successiva condotta di estrazione o produzione, di modo che l'agente – in coerenza con lo spirito e con la lettera della legge e in ossequio alla sua interpretazione costituzionalmente orientata – andrà incontro alle sole sanzioni amministrative previste per l'ipotesi di detenzione ad uso personale (sempre che vi sia stata l'attività di estrazione del principio attivo: in caso contrario, l'agente non sarà passibile di alcuna sanzione, fatta eccezione per la confisca e distruzione delle piante messe a dimora).

La coltivazione scoperta prima della maturazione delle piante è in concreto offensiva, sol che si accerti la potenziale idoneità delle stesse a giungere a maturazione ed a produrre principio attivo. Come si è detto, nel perimetrare i confini operativi del principio di offensività, ci si è chiesti se la necessità di accertare l'effettiva capacità drogante del prodotto della coltivazione debba condurre ad una pronuncia assolutoria quando la piantagione venga scoperta, e dunque definitivamente debellata, in epoca anteriore rispetto a quella in cui le piante sarebbero venute a maturazione, e, dunque, ben prima che dalla stessa possa estrarsi il principio attivo idoneo a produrre l'effetto stupefacente.

La sentenza Caruso, ricostruiti sinteticamente i termini della questione, ha convintamente aderito all'orientamento maggioritario: poiché la condotta incriminata (nella quale, ad avviso delle Sezioni unite, non rientrano le piccole coltivazioni domestiche destinate a soddisfare il consumo del solo coltivatore) ha una “spiccata pericolosità” - in quanto “è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili”, senza peraltro neppure richiedere “la disponibilità di <materie prime> soggette a rigido controllo, ma normalmente solo di semi” - deve ritenersi “ampiamente giustificato l'esercizio della discrezionalità legislativa nella strutturazione della fattispecie penale, nel senso dell'anticipazione della tutela fino al pericolo presunto, in quanto corrisponde alla normalità della pratica agricola la conseguenza dell'incremento della provvista esistente di stupefacente, idoneo ad attentare al bene della salute collettiva e dei singoli, creando in potenza maggiori occasioni di spaccio. In altri termini, deve essere ritenuta pienamente conforme con il principio di ragionevolezza la valutazione prognostica di potenziale aggressione al bene giuridico protetto, sottesa all'incriminazione della coltivazione, con la sola esclusione di quella domestica, alle condizioni sopra richiamate”.

La verifica della concreta offensività della condotta va, dunque, “diversificata a seconda del grado di sviluppo della coltivazione al momento dell'accertamento”.

Se la contestazione riguarda la coltivazione di piante giunte a maturazione, occorrerà guardare al principio attivo concretamente prodotto; ciò consente di escludere la punibilità di condotte relative a piante che hanno “effettivamente prodotto una sostanza inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”.

Con riferimento alle piantagioni scoperte prima della maturazione, “la previsione specifica della punibilità della coltivazione in quanto tale non consente di ritenere che si tratti di attività sostanzialmente libera fino a quando non si abbia la certezza dell'effettivo sviluppo del principio attivo. Al contrario, per l'ampia dizione della legge, rileva penalmente la coltivazione a qualsiasi stadio della pianta che corrisponda al tipo botanico, purché si svolga in condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo”: solo questa interpretazione consente di “evitare che l'effettiva sussistenza del reato dipenda dal dato, puramente contingente, rappresentato dal momento dell'accertamento. Diversamente opinando, del resto, potrebbero essere ritenute penalmente irrilevanti coltivazioni industriali, anche di larghe dimensioni e potenzialmente molto produttive, per il solo fatto di trovarsi in un arretrato stadio di sviluppo (come ben evidenziato nella citata sentenza Cass. pen., Sez.III, n. 21120 del 31/01/2013, Colamartino)”.

Questo, dunque, il principio di diritto: “il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente”: la punibilità può essere esclusa solo quando sia accertata ”un'attuale inadeguata modalità di coltivazione da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale”, per motivi agronomici o ambientali.

Si tratta, come si è detto, di principio certamente condivisibile: se la coltivazione è attività temporalmente ampia, che inizia con l'alloggiamento dei semi nell'area di sedime e si conclude nel momento che precede la raccolta (che integra la condotta di estrazione o di produzione), la circostanza che la pianta non sia giunta a maturazione non può essere invocata per ritenere l'azione radicalmente inoffensiva; ragionando diversamente, non solo si snaturerebbe la stessa nozione di “coltivazione”, legittimando arbitrariamente tutte le condotte poste in essere prima della fase di piena maturazione, ma si farebbe dipendere la punibilità della condotta da un elemento arbitrario e casuale, oltre che del tutto indipendente dalla condotta dell'agente, quale il momento dell'intervento della polizia giudiziaria, lasciando esente da pena la stessa condotta che - ove il controllo fosse stato effettuato anche solo qualche settimana dopo – sarebbe stata ritenuta penalmente rilevante.

Dunque, l'offensività della condotta di coltivazione è soddisfatta sol che si accerti la semplice idoneità della pianta a produrre principio attivo: ciò che rileva non è la quantità di principio attivo materialmente ricavata, ma quella potenzialmente ricavabile, di modo che l'accertamento – in caso di sequestro di piante non ancora maturate – deve concentrarsi solo sulla concreta idoneità della pianta a maturare ed a produrre la sostanza stupefacente, dovendosi reputare inoffensive solo quelle piantagioni dalle quali non si è né si sarebbe potuta mai ricavare (per problemi della pianta, per difficoltà ambientali, per le errate o comunque inidonee tecniche di coltivazione) sostanza idonea a produrre un effetto stupefacente.

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