La non punibilità per particolare tenuità del fatto nell'ipotesi di reato continuato

30 Giugno 2022

Le Sezioni Unite si sono pronunciate sulla seguente questione di diritto, ritenuta dalla quinta sezione penale oggetto di contrasto giurisprudenziale: se, ai fini dell'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., sia di per sé ostativa la continuazione tra i reati.
1.

La questione rimessa alle Sezioni Unite riguarda la possibilità di dichiarare la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p. nell'ipotesi in cui l'imputato abbia commesso più reati avvinti dal vincolo della continuazione ai sensi dell'art. 81 comma 2 c.p. Su tale questione, difatti, si sono affermati diversi orientamenti giurisprudenziali: una parte della giurisprudenza ritiene incompatibile di per sé l'ipotesi del reato continuato con tale causa di non punibilità, trattandosi di una condotta qualificabile come “abituale” ai sensi dell'art. 131-bis c.p.; secondo un diverso orientamento ermeneutico, invece, deve ritenersi che anche nell'ipotesi in cui il reo abbia commesso più reati avvinti dal vincolo della continuazione il fatto, in presenza di determinate condizioni, può essere valutato dal giudice come particolarmente tenue.

Nell'ordinanza di rimessione la Corte, prima di procedere con l'analisi dei due opposti orientamenti interpretativi, ricorda che già in precedenza le Sezioni unite si sono soffermate sull'analisi del concetto di “abitualità del comportamento” del reo previsto dall'art. 131-bis c.p.; in particolare, hanno affermato le Sezioni Unite, la previsione secondo cui «il comportamento è abituale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole […] nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate» ha lo scopo di escludere dall'ambito di applicazione della norma tutti quei comportamenti qualificabili come “seriali (Cfr. Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13681). Le stesse, poi, hanno rilevato che, analizzando le singole nozioni utilizzate dalla norma per esprimere tale concetto di abitualità, nessun problema interpretativo si pone nell'ipotesi in cui l'imputato sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, posto che in tali casi si fa chiaro riferimento a istituti pienamente disciplinati dal codice. Per quanto concerne poi la locuzione «più reati della stessa indole», secondo le Sezioni unite, essa va intesa nel senso che deve ritenersi sussistente l'abitualità del comportamento «quando l'autore faccia seguire a due reati della stessa indole un'ulteriore, analoga condotta illecita»; inoltre, vertendosi in un ambito diverso da quello della disciplina legale della recidiva, la pluralità dei reati deve ritenersi sussistente non solo in presenza di precedenti condanne irrevocabili ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto dello stesso giudice (come nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui) ovvero siano anche successivi a quello preso in esame dal giudice. Il Supremo Consesso ha poi rilevato che nelle ipotesi di condotte abituali e in quelle reiterate il legislatore fa riferimento all'abitualità e alla reiterazione quali elementi costitutivi della fattispecie penale: tipiche sono le ipotesi del reato di maltrattamenti, che richiede una condotta abituale, e del reato di atti persecutori, in cui la condotta integrante la fattispecie deve necessariamente essere reiterata. In tali ipotesi, dunque, secondo la Corte non occorre verificare la presenza di distinti reati in quanto «la serialità è un elemento della fattispecie ed è quindi sufficiente a configurare l'abitualità che esclude l'applicazione della disciplina». Con riguardo, infine, al concetto di condotte plurime, i giudici di legittimità hanno affermato che, escludendo che si tratti di una «mera, sciatta ripetizione di ciò che è stato denominato abituale o reiterato», deve ritenersi che il legislatore abbia voluto far riferimento «a fattispecie concrete nelle quali si sia in presenza di ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti», come nell'ipotesi di un reato di lesioni colpose causato dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione (con violazione quindi delle norme sulla sicurezza del lavoro), in cui la pluralità e la protrazione dei comportamenti colposi imprime alla condotta il carattere della serialità e, quindi, dell'abitualità.

Così definito l'elemento dell'abitualità del comportamento, le Sezioni unite nulla hanno detto però in ordine ai rapporti tra l'istituto previsto dall'art. 131-bis c.p. e l'ipotesi del reato continuato. Nell'ordinanza di rimessione alle Sezioni unite, dunque, la Quinta Sezione della Suprema Corte esamina le diverse soluzioni adottate dalla stessa giurisprudenza di legittimità su tale questione.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, come anticipato, nelle ipotesi di commissione di più reati esecutivi di un medesimo disegno criminoso dovrebbe escludersi in radice l'applicabilità della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., in quanto le condotte illecite, pur unificate al fine del trattamento sanzionatorio, «appaiono espressione di un "comportamento abituale", di una "devianza non occasionale", ostativa al riconoscimento del beneficio in quanto priva di quel carattere di trascurabile offensività che, invece, deve caratterizzare "il fatto" ove lo si voglia sussumere nel paradigma normativo di cui al citato art. 131-bis» (cfr. Cass. pen.,sez. VI, 13 dicembre 2017, n. 3353, Lesmo, Rv. 272123; Cfr. anche Cass. pen., sez. III, 28 maggio 2015, n. 29897, Gau, Rv. 264034; Cass. pen., sez. III, 1° luglio 2015, n. 43816, Amodeo, Rv. 265084; Cass. pen., sez. II, 15 novembre 2016, n. 1, Cattaneo, Rv. 268970; Cass. pen., sez. V, 14 novembre 2016, n. 4852, De Marco, Rv. 269092; Cass. pen., sez. II, 5 aprile 2017, n. 28341, Modou, Rv. 271001; Cass. pen., sez. V, 15 maggio 2017, n. 48352, Mogoreanu, Rv, 271271; Cass. pen., sez. I, 24 ottobre 2017, n. 55450, Greco, Rv. 271904; Cass. pen., sez. III, 29 marzo 2018, n. 19159, Fusaro, Rv. 273198; Cass. pen., sez. II, 16 maggio 2018, n. 41453, Ndaye, Rv. 274237; Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2018, n. 44896, Abramo, Rv. 274270; Cass. pen., sez. VI, del 20 marzo 2019, n. 18192, Franchi, Rv. 275955). Secondo tali pronunce l'istituto della continuazione previsto dall'art. 81 comma 2 c.p. avrebbe il solo scopo di incidere sul trattamento sanzionatorio a cui sottoporre il reo, valutando a suo favore l'identità del disegno criminoso nelle condotte da lui realizzate; tuttavia, l'applicazione di tale istituto non potrebbe mutare le circostanze di fatto che ostano al riconoscimento del beneficio previsto dall'art. 131-bis c.p., consistenti nell'oggettiva reiterazione di condotte penalmente rilevanti.

A sostegno di tale impostazione, nella sentenza “Fusaro” (Cass. pen., sez. III, 29 marzo 2018, cit.) la Corte ha affermato che anche nella relazione illustrativa al d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, che ha introdotto l'art. 131-bis c.p., si precisa che il terzo comma del citato articolo descrive «soltanto alcune ipotesi in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il concetto di abitualità”, ed espressamente rileva che "non vi è, nel testo, alcun indizio che consenta di ritenere, considerati i termini utilizzati, che l'indicazione di abitualità presupponga un pregresso accertamento in sede giudiziaria ed, anzi, sembra proprio che possa pervenirsi alla soluzione diametralmente opposta, […] il che amplia ulteriormente il numero di casi in cui il comportamento può ritenersi abituale, considerata anche la ridondanza dell'ulteriore richiamo alle condotte plurime, abituali e reiterate». Secondo tale orientamento, dunque, né un'interpretazione letterale né un'interpretazione storica della norma in esame permetterebbero di valutare come particolarmente tenue un fatto caratterizzato dalla commissione di una pluralità di condotte penalmente rilevanti.

Secondo un opposto orientamento ermeneutico, invece, potrebbe certamente escludersi la punibilità del fatto ai sensi dell'art. 131-bis c.p. anche nelle ipotesi di reato continuato, poiché la continuazione non si identifica automaticamente con l'abitualità nel reato, «non individuando comportamenti di per sè stessi espressivi del carattere seriale dell'attività criminosa e dell'abitudine del soggetto a violare la legge» (Cfr. Cass. pen., sez. II, 29 marzo 2017, n. 19932, Di Bello, Rv. 270320). Tale orientamento, in particolare, evidenzia la necessità di ammettere una valutazione complessiva della condotta realizzata al fine di verificare se la stessa sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità, avuto riguardo alle modalità esecutive dei reati, all'intensità dell'elemento psicologico, al numero delle disposizioni di legge violate, agli interessi tutelati (cfr. Cass. pen., sez. III, 8 ottobre 2015, n. 47039, Derossi, Rv. 265448; Cass. pen., sez. V, 31 maggio 2017, n. 35590, Battizocco, Rv. 270998; Cass. pen., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 5358, Corradini, Rv. 272109; Cass. pen., sez. II, 7 febbraio 2018, n. 9495, Grasso, Rv. 272523; Cass. pen., sez. V, 26 marzo 2018, n. 32626, Rv. 274491; Cass. pen., sez. III, del 20 novembre 2018, n. 16502, Pintilie, non mass.; Cass. pen., sez. IV, 11 dicembre 2018, n. 4649, Xhafa, Rv. 27495901; Cass. pen., sez. II, 10 settembre 2019, n. 42579, D'Ambrosio, Rv. 277928; Cass. pen., sez. IV, 13 novembre 2019, n. 10111, De Angelis, Rv. 278642; Cass. pen., sez. II, 27 gennaio 2020, n. 11591, Rv. 278830; Cass. pen., sez. V, 13 marzo 2020, n. 30434, Innocenti, Rv. 279748; Cass. pen., sez. III, 13 luglio 2021, n. 35630, Nenci, non mass).

Alcune pronunce di legittimità, sviluppando ulteriormente tale orientamento interpretativo, hanno valorizzato, al fine di meglio specificare le condizioni in presenza delle quali sarebbe applicabile l'istituto previsto dall'art. 131-bis c.p. all'ipotesi del reato continuato, la distinzione tra una continuazione c.d. diacronica, ossia la commissione di delitti in esecuzione di un disegno criminoso unitario ma in momenti spazio-temporali distinti fra loro, e una continuazione c.d. sincronica, ovvero la realizzazione di reati espressivi di una identità soggettiva-ideativa e di una comunanza materiale sotto il profilo spazio-temporale dell'azione; solo nell'ipotesi di continuazione sincronica, dunque, la condotta potrebbe essere qualificata dal giudice come particolarmente tenue, poiché la continuazione diacronica, diversamente, sarebbe espressione di una volizione criminosa dimostrativa della pervicacia criminale del reo (Cfr. Cass. pen., sez. V, 15 gennaio 2018, n. 5358, Corradini, Rv. 272109; Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2018, n. 47772, Bommartini, Rv. 274430).

È stato inoltre evidenziato da tale filone giurisprudenziale come l'adesione alla diversa opzione interpretativa non sarebbe ammissibile per due ordini di motivi: da un lato, si afferma che tale interpretazione darebbe vita ad una irragionevole disparità di trattamento con la figura del concorso formale di reati disciplinato dall'art. 81 comma 1 c.p., posto che in tal caso la giurisprudenza ritiene pacificamente che vi sia unicità di azione od omissione, seppur violativa di plurime disposizioni di legge, non ostativa al beneficio previsto dalla norma in esame (cfr. Cass. pen., sez. III, 8 ottobre 2015, n. 47039); dall'altro, si evidenzia come la stessa sarebbe incoerente rispetto alla sistematica sanzionatoria di cui costituiscono espressione le disposizioni di cui all'art. 81 c.p., in quanto pregiudicherebbe il reo che, pur beneficiando del regime di favore previsto dalla norma, non potrebbe accedere alla suddetta causa di non punibilità (Cass. pen., sez. II, 6 giugno 2018, n. 41011, Ba Elhadji, Rv. 274260). Secondo tali pronunce, difatti, la condotta di colui che viola più volte la stessa norma o diverse norme incriminatrici con azioni od omissioni distinte ma realizzate nelle medesime circostanze di tempo e di luogo (continuazione sincronica) non può valutarsi differentemente, ai fini della concessione del beneficio di cui all'art. 131-bis c.p., rispetto alla condotta di chi commette le medesime violazioni normative con la medesima azione od omissione (concorso formale – omogeneo o eterogeneo – di reati ex art. 81 comma 1 c.p.); ciò in quanto in entrambe le ipotesi l'autore dei reati si pone una sola volta contro l'ordinamento giuridico e, dunque, la volizione criminosa deve considerarsi sostanzialmente unica, a differenza della continuazione diacronica, che presuppone singole volizioni a sostegno di ciascuna azione illecita commessa in diverse condizioni di tempo e luogo.

Così ricostruite le due opzioni ermeneutiche elaborate dalla giurisprudenza di legittimità, appaiono opportune alcune osservazioni.

In primo luogo, può evidenziarsi che, come già affermato in altra sede, dal punto di vista dogmatico l'orientamento ermeneutico che ammette la dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto anche nel caso di reato continuato non convince pienamente. Difatti, premesso che secondo l'orientamento dottrinale e giurisprudenziale dominante l'istituto del reato continuato configura una particolare ipotesi di concorso di reati da considerarsi unitariamente solo per gli effetti espressamente previsti dalla legge ovvero esclusivamente a condizione che garantisca un risultato favorevole al reo, in ogni caso deve comunque escludersi l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p.: infatti, se inteso come reato unico, esso avrebbe ad oggetto condotte plurime; se inteso invece come pluralità di reati, dovrebbe ritenersi che il soggetto agente ha commesso più reati della stessa indole. Si tratta, dunque, di una condotta espressamente esclusa dall'ambito applicativo dell'art. 131-bis c.p. (si veda, volendo, A. Trinci, Reato continuato e particolare tenuità del fatto: una convivenza davvero impossibile?, in Il Penalista, 18 settembre 2017).

In secondo luogo, deve rilevarsi che, a ben vedere, anche il concorso formale di reati di cui al comma 1 dell'art. 81 c.p. dà vita in realtà ad una pluralità di reati ostativa della concessione del beneficio di cui all'art. 131-bis c.p., nonostante l'unità di azione od omissione: difatti, se nel concorso formale omogeneo l'imputato non potrà evitare la pena invocando la particolare tenuità del fatto per aver commesso più reati della stessa indole (in quanto previsti dalla stessa norma), nel caso di concorso eterogeneo occorrerà accertare se i reati commessi siano o meno della stessa indole. Dunque, l'esclusione del reato continuato dall'ambito di applicazione dell'art. 131-bis c.p. non comporterebbe alcuna disparità di trattamento, posto che entrambe le ipotesi previste dall'art. 81 c.p. risultano configurare un comportamento abituale così come definito dalla norma in esame (ad esclusione, al più, delle eccezionali ipotesi di concorso eterogeneo di reati di diversa indole, in cui il giudice potrebbe in astratto escludere la punibilità del reo per particolare tenuità del fatto).

Tuttavia, sul piano applicativo l'orientamento ermeneutico che ammette la compatibilità tra il reato continuato e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto merita adesione. Infatti, introducendo l'art. 131-bis c.p., il legislatore del 2015 ha inteso perseguire obiettivi di deflazione processuale, il cui conseguimento risulterebbe notevolmente limitato qualora si affermasse l'automatica esclusione del beneficio in presenza di più condotte naturalistiche, siano esse espressive di una condotta normativamente unitaria o di una deliberazione criminosa occasionale. A ciò si aggiunga, sotto il profilo degli obiettivi di politica criminale, che diversa e maggiore è la capacità a delinquere dimostrata da un soggetto che, in contesti ed in tempi diversi, magari in un lasso di tempo ampio, reitera la condotta criminosa, sia pure nell'ambito di un medesimo disegno criminoso, rispetto a chi, eseguendo lo stesso piano, agisce in un frangente temporale unitario, contro la stessa persona (salvo che il bene attinto non sia altamente personale) e con identità di volizione. In fondo, colui che consuma più delitti nelle medesime circostanze di tempo e di luogo è come se si ponesse una volta soltanto contro l'ordinamento; la sua condotta criminosa può allora essere stimata anche come estemporanea e dunque non sintomatica di pervicacia criminale.

2.

All'udienza dell'8 ottobre 2021 la quinta sezione penale ha rimesso al Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione un ricorso che ha proposto la seguente questione oggetto di contrasto giurisprudenziale: se, ai fini dell'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., sia di per sé ostativa la continuazione tra i reati.

La soluzione di tale questione include, eventualmente, anche quella subordinata concernente le condizioni alle quali possa ritenersi operante la particolare tenuità del fatto in presenza del reato continuato - nel caso in cui non si reputi in sé ostativo tale reato all'applicazione della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p.

3.

Il primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione ha assegnato alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'udienza pubblica del 27 gennaio 2022, un ricorso che propone la seguente questione di diritto, ritenuta dalla quinta sezione penale oggetto di contrasto giurisprudenziale: se, ai fini dell'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis c.p., sia di per sé ostativa la continuazione tra i reati.

4.

All'udienza del 27 gennaio 2021 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che

«la pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione può risultare ostativa alla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.. non di per sé, ma soltanto se è ritenuta, in concreto, dal giudice idonea ad integrare una o più delle condizioni previste tassativamente dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell'offesa o per qualificare il comportamento come abituale».

5.

Le Sezioni Unite, dunque, hanno fatto proprio il secondo orientamento giurisprudenziale sopra descritto, escludendo l'incompatibilità strutturale tra l'istituto della continuazione e la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis c.p.

A tale conclusione il Supremo Consesso è giunto partendo da un'analisi puntuale del concetto di “abitualità”, al fine di verificare se in esso sia riconducibile anche l'ipotesi del reato continuato.

Innanzitutto, la Corte osserva che la parola "abitualità" deriva dal termine latino habitus, che indica«una costante ripetizione di comportamenti, a sua volta identificativa di una qualità ulteriore rispetto al dato oggettivo della loro aggregazione numerica»; il termine “abitudine”, cioè, non indicherebbe una mera reiterazione di azioni, bensì una condotta connotata dalla costante ripetizione di comportamenti «sintomatici, nel loro reiterarsi, di una qualità ulteriore rispetto alla loro mera sommatoria». Ora, nell'ambito della norma prevista dal terzo comma dell'art. 131-bis c.p., secondo la Corte tale “qualità ulteriore”, che deve caratterizzare la ripetizione del comportamento criminoso per essere definito “abituale”, deve essere individuata nella «particolare inclinazione a delinquere dell'agente, idonea ad evidenziarne un verosimile rischio di persistenza o di ricaduta nel reato», in linea con l'impostazione ermeneutica proposta dalla sentenza delle Sezioni Unite Tushaj (cfr. Cass. pen., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13681). Difatti, tale sentenza, come già visto, dopo aver affermato che una condotta può definirsi abituale solo nelle ipotesi in cui la pluralità delle violazioni sia espressiva di un carattere di “serialità” dei comportamenti, presenta come esempio il caso di un reato di lesioni commesso mediante la plurima violazione colposa di prescrizioni cautelari in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro, in quanto condotta caratterizzata da un quid pluris «generato da un "consolidato regime di disinteresse per la sicurezza" del lavoro e a sua volta esternato da un atteggiamento soggettivo idoneo a dimostrare l'effettività di un habitus di pervicace trascuratezza nei confronti degli obblighi di tutela dell'altrui incolumità». Secondo le stesse Sezioni Unite Tushaj, dunque, non è sufficiente una mera reiterazione di condotte illecite al fine di qualificare la condotta come abituale, ma è necessario che tale condotta risulti seriale, cioè espressiva di una particolare tendenza a delinquere del reo.

Tale lettura sarebbe inoltre confermata, secondo i giudici di legittimità, dal contenuto della relazione illustrativa del d.lgs. n. 28/2015, laddove si afferma che «la presenza di un 'precedente' giudiziario non sia di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto»; il legislatore, cioè, ai fini dell'applicabilità della causa di non punibilità non ha presupposto che il reo sia un autore primario od occasionale, ammettendola dunque anche nei confronti di un soggetto che abbia realizzato una pluralità di reati. Ciò che impone di escludere la non punibilità del reo, dunque, non è di per sé la mera ripetizione delle condotte criminose, bensì la particolare inclinazione a delinquere dello stesso.

Così definita la nozione di “abitualità”, la Corte giunge quindi a distinguerla nettamente dall'istituto della continuazione. In particolare, riprendendo la costante giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass. pen., sez. IV, 26 marzo 1993, n. 8897, Rv. 195188; Cass. pen., sez. I, 8 gennaio 2016, n. 15955, Rv. 26661; Cass. pen., sez. un., 18 maggio 2017, n. 28659, Rv. 270074; Cass. pen., sez. I, 5 luglio 2018, n. 36036, Rv. 273909), la stessa rileva che, mentre l'identità del disegno criminoso previsto dall'art. 81 comma 2 c.p. postula che il reo si sia previamente rappresentato e abbia unitariamente deliberato una serie di condotte criminose, l'abitualità presuppone al contrario la commissione di un numero non predeterminato di reati. I due istituti, difatti, svolgono funzioni diametralmente opposte: mentre la continuazione serve a garantire un trattamento sanzionatorio più mite nei confronti di un soggetto che abbia realizzato una pluralità di reati sulla base di un'unica spinta motivazionale (e ponendosi sostanzialmente una sola volta in contrasto con l'ordinamento giuridico), la nozione di abitualità comporta invece una risposta sanzionatoria più severa, dovendo l'ordinamento contrastare la condotta di un soggetto che rivela una generale propensione alla devianza. Conseguentemente, si afferma che la condotta di colui che abbia commesso una pluralità di reati avvinti dal vincolo della continuazione non può di per sé definirsi “abituale”, dovendo semmai sussistere ulteriori elementi sintomatici dell'inclinazione al crimine del soggetto.

Posta tale distinzione generale tra i due istituti, i giudici di legittimità evidenziano che è in ogni caso necessario verificare se il reato continuato possa comunque coincidere con una delle ipotesi espressamente qualificate come abituali dal terzo comma dell'art. 131-bis c.p., ovvero i casi in cui il reo abbia commesso “più reati della stessa indole” o un reatoavente ad oggetto “condotte plurime, abituali e reiterate”.

Come già rilevato in precedenza con la sentenza delle Sezioni Unite Tushaj, nulla quaestio con riguardo alla non coincidenza tra l'istituto del reato continuato e l'ipotesi di reati aventi ad oggetto condotte abituali o reiterate, afferendo tali concetti alla struttura della fattispecie in sé considerata (v. supra); la Corte concentra quindi la propria attenzione sul concetto di “condotte plurime”. La stessa, in primo luogo, afferma che dall'analisi del tenore letterale della disposizione si può notare come la norma attribuisca rilievo non già ad una pluralità di “reati” bensì ad una pluralità di “condotte”; la norma, cioè, farebbe riferimento a quelle categorie di fattispecie criminose che implicano una pluralità di «condotte diverse, per così dire, progressive» e che «nella loro dimensione strutturale implicano l'elemento della serialità, o […] comunque presentano, nel caso concreto, una molteplicità di condotte legate allo sviluppo degli accadimenti» (come accade, ad esempio, nel caso in cui il reato di corruzione sia commesso realizzando le due diverse condotte consistenti nella promessa e nella dazione). In tale categoria di fattispecie non vi rientrerebbe quindi l'ipotesi del reato continuato, il quale si configura invece in presenza di una pluralità di “reati”.

Tale lettura, secondo la Corte, sarebbe confermata dal raffronto con la formulazione utilizzata sempre dal terzo comma dell'art. 131-bis c.p. in relazione all'ipotesi in cui il reo abbia commesso “più reati della stessa indole; in tal caso, infatti, il legislatore ha fatto riferimento espressamente ad una pluralità di “reati”, mentre l'ultima parte della disposizione prende in considerazione i reati costituiti da condotte plurime. Non solo, tale lettura interpretativa, secondo i giudici di legittimità, sarebbe in linea con quanto già affermato dalle Sezioni Unite Tushaj, le quali, ponendo come esempio di “reato a condotte plurime” l'ipotesi delle lesioni causate dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione, hanno dato evidentemente rilevanza ad una pluralità di condotte illecite sicuramente non qualificabili come reato continuato, bensì integranti una singola fattispecie criminosa. La Corte, poi, per meglio chiarire il concetto, indica ulteriori casi di fattispecie qualificabili come “reati a condotte plurime”: ad esempio, il reato corruttivo commesso con ripetute dazioni di denaro in esecuzione di un unico accordo che preveda una pluralità di atti da compiere; il caso di una bancarotta fraudolenta commessa mediante molteplici condotte di distrazione nell'ambito dello stesso fallimento; il delitto di frode in pubbliche forniture avente ad oggetto l'esecuzione di contratti di somministrazione di beni o servizi, dove ogni singolo comportamento contribuisce ad accentuare la lesione arrecata al bene giuridico protetto dalla norma (tutte ipotesi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, non danno luogo a continuazione, ma all'integrazione di un unico reato: cfr. Cass. pen., sez. VI, 7 ottobre 2020, n. 29549, Rv. 279691; Cass. pen., sez. V, 14 ottobre 2019, n. 4710, Rv. 27815; Cass. pen., sez. VI, 6 febbraio 2020, n. 12073, Rv. 278752).

Tuttavia, i giudici di legittimità non temono di evidenziare che in realtà anche nell'ipotesi del reato continuato si è di fronte ad una situazione che, nella sua dimensione naturalistica, si concreta in una pluralità di condotte criminose. Gli stessi, però, ricordano che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il reato continuato va inteso nella sua dimensione unitaria solo se espressamente previsto da apposita disposizione di legge ovvero laddove ciò sia funzionale ad un risultato favorevole al reo, essendo questa la ratio alla base dell'istituto della continuazione; al di fuori di questi due casi, rileva la Corte, non vi sarebbe alcuna unitarietà di cui tener conto (Cfr. Cass. pen., sez. un., 17 dicembre 2009, n. 18775, Rv. 246720; Cass. pen., sez. un., 27 novembre 2008, n. 3286, Rv. 241755; Cass. pen., sez. un., 26 febbraio 2015, n. 22471, Rv. 263717; Cass. pen., sez. un., 24 giugno 2021, n. 47127, Rv. 282269). È evidente quindi che, ai fini dell'applicazione dell'art. 131-bis c.p., il reato continuato non può venire in considerazione unitariamente (quale reato a condotte plurime), ma deve aversi riguardo ai singoli reati commessi dal reo in esecuzione del medesimo disegno criminoso.

Esclusa quindi la coincidenza con la nozione di “reato a condotte plurime”, la Corte rileva che in taluni casi, invece, i reati avvinti dal vincolo della continuazione ben possono qualificarsi come “delitti della stessa indole”; ciò avviene, secondo la costante giurisprudenza di legittimità richiamata dalla sentenza, quando il reo commetta, in esecuzione del medesimo disegno criminoso, una pluralità di delitti che violino una medesima disposizione di legge ovvero violino disposizioni diverse ma presentino comunque caratteri fondamentali comuni, quando cioè «le condizioni di ambiente e di persona nelle quali sono state compiute le azioni presentino aspetti che rendano evidente l'inclinazione verso un'identica tipologia criminosa, ovvero quando le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati o le modalità di aggressione dell'altrui diritti rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa» (cfr. Cass. pen., sez. III, 20 settembre 2019, n. 49717, Rv. 277467; Cass. pen., sez. III, 10 maggio 2019, n. 38009, Rv. 278166; Cass. pen., sez. III, 4 ottobre 1996, n. 3362, Rv. 206531). In applicazione del principio affermato dalla sentenza delle Sezioni Unite Tushaj, inoltre, la Corte precisa che dovrà escludersi la non punibilità del reo solo «quando l'autore faccia seguire a due reati della stessa indole un'ulteriore, analoga condotta illecita».

In definitiva, secondo i giudici di legittimità, l'art. 131-bis c.p. non può trovare applicazione solo nel caso in cui il reo abbia commesso almeno tre delitti della stessa indole avvinti dal vincolo della continuazione; al di fuori di questa ipotesi (cioè nel caso in cui il reo abbia commesso solo due reati della stessa indole oppure anche più di due reati ma di natura eterogenea) non scatterà alcuna preclusione e il giudice dovrà procedere a valutare complessivamente la condotta in concreto realizzata dal reo, al fine di verificare, sulla base degli ulteriori indici previsti dall'art. 131-bis c.p., se la stessa possa o meno qualificarsi come particolarmente tenue (non potendo certamente affermarsi l'automatica e incondizionata applicabilità della norma).

Ora, soffermandosi sull'analisi degli elementi di fatto di cui il giudice deve tener conto al fine di valutare la particolare tenuità del fatto in concreto realizzato dal reo, la Corte ritiene che non sia dirimente la distinzione tra continuazione “diacronica” e continuazione “sincronica”, introdotta da alcune sentenze (cfr. Cass. pen., sez. VI, 12 gennaio 2018, n. 11378, in questa Rivista, 28 giugno 2018, con nota di Trinci, Particolare tenuità del fatto tra abitualità, continuazione e condotte plurime, che, nel ribadire l'incompatibilità fra la continuazione e la particolare tenuità del fatto, aveva ammesso la possibilità di applicare la causa di non punibilità in esame nei casi in cui le condotte ascritte all'imputato, pur naturalisticamente plurime, costituissero una condotta inscindibile per l'unitario contesto spazio-temporale nel quale si collocavano; cfr. anche Cass. pen., sez. V, 13 luglio 2020, n. 30434, Rv. 279748; Cass. pen., sez. IV, 13 novembre 2019, n. 10111, Rv. 278642; Cass. pen., sez. IV, 11 dicembre 2018, n. 4649, Rv. 274959). Si afferma, infatti, che nulla osta all'applicabilità della causa di non punibilità in esame rispetto a reati che, anche se commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso in contesti spazio-temporali differenti, abbiano comunque comportato un'offesa di particolare tenuità al bene protetto, non risultino contrassegnati da una stessa indole e siano espressione di una deliberazione estemporanea o, comunque, solo occasionale. Nondimeno, affermano i giudici di legittimità, è evidente che, nelle circostanze del caso concreto, risulterà più agevole valutare come particolarmente tenue una vicenda connotata da un significativo grado di concentrazione spazio-temporale delle condotte, «versandosi in situazioni che, di regola, rispetto alla diversa ipotesi di una pluralità di reati commessi entro un orizzonte spazio-temporale assai dilatato, risultano incompatibili, in presenza degli ulteriori requisiti normativi, con forme e modalità di condotta sintomatiche di una abitudine del reo a violare la legge». Tale considerazione, tuttavia, non può comunque esimere il giudice dal compiere un giudizio in concreto sulla condotta sottoposta al suo esame, al fine di qualificare il comportamento come abituale o per escludere la particolare tenuità dell'offesa.

Per ultimo, il Supremo Consesso propone un'impostazione ermeneutica che permette di estendere ulteriormente l'ambito di applicazione della causa di non punibilità in esame alle ipotesi di reato continuato, affermando che qualora dall'unificazione normativa delle condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso possa derivare un effetto sfavorevole al reo, dovrà attribuirsi rilievo, in concreto, all'autonomia dei singoli fatti commessi. In altri termini, secondo i giudici di legittimità «nulla impedisce di "sciogliere" la continuazione tra la pluralità delle condotte illecite ai fini dell'applicazione del più favorevole istituto previsto dall'art. 131-bis, riconoscendo la causa di non punibilità, in presenza di tutte le condizioni previste dalla legge, anche in relazione ad uno solo dei fatti riuniti sotto la disciplina della continuazione». Ciò, in particolare, può avvenire qualora solo alcuni dei fatti commessi dal reo si presentino come particolarmente tenui, ovvero qualora solo alcuni di questi siano oggettivamente esclusi dall'ambito di operatività della causa di esclusione della punibilità, per effetto di una specifica previsione ostativa ai sensi del secondo comma dell'art. 131-bis c.p. o perché astrattamente puniti con pene detentive superiori nel massimo edittale al limite dei cinque anni fissato nel primo comma. Una tale impostazione, secondo la Corte, risulta coerente con il principio del favor rei, che permea la base di entrambi gli istituti esaminati. Inoltre, si afferma, la stessa risulta confermata dalla formulazione letterale del terzo comma dall'art. 131-bis c.p., ove «il legislatore, nell'individuare la terza ipotesi di abitualità ostativa (relativa alle «condotte plurime, abituali e reiterate»), non ha replicato l'inciso utilizzato con riferimento alla precedente ipotesi dei reati della stessa indole ("[....]anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità[...]")». Perciò, se nell'ipotesi di più delitti della stessa indole il giudice non può escludere la punibilità del reo in relazione ad alcuni dei fatti commessi che, isolatamente considerati, si presentino in concreto particolarmente tenui, nel caso in cui invece il reo abbia commesso una pluralità di reati tra loro eterogenei (o due soli delitti della stessa indole), potrà sciogliersi la continuazione tra gli stessi e valutare individualmente i singoli fatti commessi.

In conclusione, può dirsi che la ricostruzione effettuata dalla Suprema Corte in ordine al rapporto tra continuazione a particolare tenuità del fatto appare condivisibile, in quanto coerente sul piano dogmatico e capace di perseguire le finalità di deflazione processuale assegnate all'art. 131-bis c.p. senza preclusioni categoriali, ma guardando alle caratteristiche concrete del comportamento delittuoso. Inoltre, la possibilità di sciogliere il vincolo ideologico che unifica nel reato continuato i singoli fatti criminosi per applicare la causa di non punibilità ad alcuni soltanto di essi, oltre a contribuire all'espansione applicativa dell'istituto deflattivo, risulta coerente con il tradizionale approccio ermeneutico dei giudici di legittimità, che consente tale operazione, ad esempio, in tema di indulto, e, più in generale, quando da essa possano derivare effetti giuridici favorevoli all'interessato.

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