Quanti reati si commettono portando illecitamente in luogo pubblico un'arma comune da sparo clandestina?

Angelo Valerio Lanna
04 Ottobre 2017

il delitto di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo (l. 895 del 1967, artt. 4 e 7) e il delitto di porto in luogo pubblico di arma clandestina (l. 110 del 1975, art. 23, commi 1 e 4) sono tra di loro in concorso formale ovvero ...
1.

Vi è possibile contrasto in giurisprudenza, in ordine alla seguente questione di diritto: «se il delitto di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo (l. 895 del 1967, artt. 4 e 7) e il delitto di porto in luogo pubblico di arma clandestina (l. 110 del 1975, art. 23, commi 1 e 4) sono tra di loro in concorso formale ovvero il secondo assorbe, per specialità, il primo».

La questione è stata sollevata – nella concreta fattispecie – ipotizzandosi una erronea applicazione di legge, dunque la sussistenza di un vizio deducibile in sede di legittimità ex art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p. Il ricorrente ha infatti eccepito l'ipotizzabilità del concorso formale, fra i soli reati di detenzione di arma comune da sparo e di illecito porto in luogo pubblico della stessa; non anche fra le ipotesi di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo e di porto in luogo pubblico di arma clandestina.

Giova precisare come l'orientamento unanime sin qui espresso dai giudici di piazza Cavour sia nel senso della impossibilità di configurare una relazione di assorbimento,fra le due fattispecie di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo e di porto in luogo pubblico di arma clandestina. Previsioni incriminatrici che dovrebbero pertanto coordinarsi fra loro secondo le regole dettate dal principio del concorso formale. L'architrave di tale impostazione è da ricercare nella (pacifica) diversità riscontrabile fra i due modelli legali, sia quanto a condotta tipizzata, sia quanto a interesse giuridico tutelato. È stato infatti sottolineato come la ratio della previsione incriminatrice ex artt. 4 e 7 l. 895/1967 sia da individuare sostanzialmente in una necessità di conoscenza e controllo – in capo all'Autorità di P.S. – circa la collocazione fisica delle armi. E quindi, nell'esigenza di garantire tanto la corretta verifica circa la riconducibilità soggettiva delle stesse quanto, correlativamente, la possibilità di attuare una efficace opera di prevenzione, in vista della possibile commissione di fatti illeciti. Si è invece individuata la ragione dell'esistenza del paradigma normativo di cui all'art. 23 l. 110/1975nell'esigenza di evitare la presenza sul territorio di armi prive di contrassegni identificativi; armi che - in quanto aventi tale connotazione - finirebbero per essere intrinsecamente non assoggettabili ad alcuna forma di controllo, a fini preventivi e cautelari.

Trattasi in effetti di un orientamento risalente e del tutto consolidato, a mente del quale deve escludersi la configurabilità dell'assorbimento dei delitti di detenzione e porto di arma comune da sparo in quelli di detenzione e porto di arma clandestina. Conclusione alla quale la Corte è sempre pervenuta – in maniera uniforme – valorizzando la diversità esistente fra le due previsioni incriminatrici, sia sotto il profilo della condotta punita, sia per quanto inerisce all'interesse protetto (cfr. Cass., Sez. I, n. 672/1995; Cass., Sez. I , n. 14624/2008; Cass., Sez. I, n. 5567/2011; Cass., Sez. VI, n. 45903/2013).

La Sezione che ha evidenziato il possibile contrasto, però, non condivide tale consolidato orientamento.

Essa contesta, in primo luogo, che effettivamente sussista una netta differenza ontologica e strutturale fra le due fattispecie; sottolinea infatti la evidente medesimezza del comportamento fenomenico che accomuna le due ipotesi di reato – ambedue sostanzialmente estrinsecantesi nella mera condotta di porto di uno strumento definibile quale arma – e così pone l'accento su una sorta di vaghezza concettuale, che connoterebbe tutte le pronunce che ritengono ipotizzabile il concorso formale fra tali fattispecie. Enunciando infatti tali sentenze – in maniera generica e apodittica, ma priva di un reale substrato contenutistico – la pretesa diversità sotto il profilo materiale, lascerebbero però poi irrisolta la questione concernente la palese sovrapponibilità delle condotte, sotto il profilo della materialità. Uguale essendo l'elemento oggettivo ed esteriormente percepibile della condotta consistente nel portare un'arma, la caratteristica atta a diversificare le due fattispecie risiederebbe dunque esclusivamente nel dato dell'alterazione. La quale così altro non sarebbe, se non l'elemento specializzate per aggiunta fra le due fattispecie.

La equipollenza in concreto fra le condotte consente, in definitiva, di individuare l'unico profilo realmente atto a segnare una netta linea di discrimine fra le due suddette fattispecie. Tale elemento differenziale consiste nella sopra chiarita demarcazione riscontrabile fra i beni giuridici tutelati.

Ma a tal proposito, la Corte ricorda come la mera diversità del bene giuridico tutelato da due norme incriminatrici non costituisca elemento dirimente di carattere assoluto, per giungere ad escludere la possibile ricorrenza di un rapporto di specialità ex art. 15 c.p. fra tali fattispecie. Il principio di specialità postula infatti l'esistenza di una relazione logico-strutturale tra norme, che prescinde dalla considerazione del caso concreto e che si riferisce invece al modello legale astratto. Il riferimento alla medesimezza del bene giuridico protetto potrebbe peraltro, secondo la Corte, risultare addirittura fuorviante nel caso di reati cd. plurioffensivi.

Affermano in conclusione i giudici che: «« […] il criterio di specialità è da intendere in senso logico-formale; il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente posta dal citato art. 15 c.p., può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le stesse, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le fattispecie astratte rispettivamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire Ile fattispecie stesse; la mera diversità del bene giuridico tutelato non può, di contro, assurgere ad elemento sufficiente ad escludere la possibilità di un assorbimento per specialità di una fattispecie». Il principio di diritto è come noto nel senso che la consunzione (o sussidiarietà) si verifichi allorquando in ragione della identità - sebbene non dell'esatto bene giuridico tutelato, almeno degli scopi prevalentemente perseguiti dalle plurime previsioni tipiche concorrenti - la ratio della norma che prevede un reato minore sia da reputarsi integralmente assorbita all'interno dell'alveo previsionale proprio del reato più grave. Il quale a sua volta andrà a colmare di contenuti l'essenza antigiuridica del fatto. Di modo che risulti poi impraticabile l'ipotesi che venga apprestata una duplice tutela e punizione, in ossequio al criterio – immanente nell'ordinamento - della proporzione tra il fatto illecito e la pena.

Venendo alla questione in concreto affrontata, la natura clandestina dell'arma (caratteristica potenziatrice della pericolosità della condotta, stante la maggior difficoltà che si incontra nell'individuazione della titolarità, nonché nella ricostruzione dei vari passaggi tra soggetti detentori) potrebbe esser considerata quale elemento specializzante della fattispecie ex art. 23 l. 110/1975. Entro tale previsione incriminatrice potrebbe pertanto restare assorbita la condotta consistente nel mero porto in luogo pubblico di arma comune da sparo. Gli elementi costitutivi di quest'ultimo paradigma normativo sono infatti contenuti anche nell'altro schema tipico, che come detto presenta però un elemento specializzante. Si verificherebbe quindi un rapporto c.d. di specialità per aggiunta (dovendosi immaginare le due norme quali cerchi concentrici, il più ampio dei quali andrebbe ad inglobare tutti gli elementi costitutivi di quello destinato a restare assorbito); non invece un rapporto di specialità reciproca, mancando – nel delitto di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo – qualsivoglia elemento atto a delineare tale tipologia di relazione fra norme. Contestando dunque la sin qui ritenuta configurabilità di un concorso formale e pensando al contrario ad un assorbimento fra le due suddette fattispecie, la prima Sezione della Cassazione ha devoluto la questione alla conoscenza delle Sezioni unite.

2.

La prima Sezione penale, ai sensi dell'art. 618, comma 1, c.p.p., ha rimesso alle Sezioni unite un ricorso contenente la seguente questione di diritto, ritenuta oggetto di potenziale contrasto giurisprudenziale: «se il delitto di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo (l. 895 del 1967, ex artt. 4 e 7) e il delitto di porto in luogo pubblico di arma clandestina (l. 110 del 1975, ex art. 23, commi 1 e 4) sono tra di loro in concorso formale ovvero il secondo assorbe, per specialità, il primo» (ord. 21788/2017).

3.

È stata fissata per l'udienza del 22 giugno 2017 la trattazione di un ricorso avente ad oggetto la seguente questione, ritenuta dalla Prima Sezione penale foriera di contrasto giurisprudenziale: «se il delitto di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo (l. 895 del 1967, ex artt. 4 e 7) e il delitto di porto in luogo pubblico di arma clandestina (l. 110 del 1975, ex art. 23, commi 1 e 4) sono tra di loro in concorso formale ovvero il secondo assorbe, per specialità, il primo».

4.

Le Sezioni unite, all'udienz adel 22 giugno 2017, chiamate a decidere sulla questione controversa «se i reati di detenzione e porto illegali in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo concorrano, rispettivamente, con quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina» , hanno dato risposta negativa:

«i reati di cui all'art. 23, primo terzo e quarto comma, legge 18 aprile 1975, n. 110 assorbono, rispettivamente, i reati di cui agli artt. 2, 4 e 7, legge 2 ottobre 1967, n. 895»

5.

«Non è configurabile il concorso formale, fra i reati di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo (artt. 2, 4 e 7 l. 2 ottobre 1967, n. 895) e, rispettivamente, di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma clandestina (art. 23, commi 1, 3 e 4, l. 18 aprile 1975, n. 110)».

Questa è infine la ineccepibile soluzione per la quale hanno optato le Sezioni unite della Suprema Corte (sentenza n. 41588/2017), sovvertendo un orientamento contrario ormai consolidato e risalente. Orientamento che – come sopra si è già detto – vedeva qualeancoraggio teorico le diversità ontologiche che si riteneva di poter individuare fra i due modelli legali. Tali differenze venivano essenzialmente identificate nel diverso bene giuridico tutelato dalle due norme e nella tipologia di condotta serbata dal soggetto agente.

Ciò chiarito, si può venire brevemente all'esame della motivazione della sentenza in commento.

1. La Corte ha posto anzitutto un primo punto fermo, evidenziando come il principio di specialità ex art. 15 c.p. costituisca l'unico valido criterio euristico di riferimento. Qui i giudici di legittimità – appunto perché elevano tale principio a metodo unico di discernimento, in relazione ai casi di concorso apparente fra norme – qualificano alla stregua di catalogazioni pleonastiche gli ulteriori criteri a lungo propugnati dalla dottrina. Non avrebbero dunque cittadinanza i criteri interpretativi della consunzione (la norma che tipizza il fatto più grave andrebbe a esaurire l'intero disvalore del fatto unitario naturalisticamente considerato; essa dovrebbe trovare applicazione – consumandone l'intera portata antigiuridica – in luogo di quella che prevede il reato meno grave) e della sussidiarietà (catalogazione delle norme – figlia del rifiuto dell'impostazione monista del reato - che viene effettuata sulla base dei diversi gradi crescenti di aggressione rispetto ad un medesimo bene giuridico, con conseguente utilizzo della sola norma che cristallizza l'offesa più grave, da considerarsi assorbente rispetto all'altra). Categorie dogmatiche da ritenersi allora in stridente conflitto con il principio di legalità (si tratta di affermazioni che si trovano scolpite in sentenza, ma che in verità rappresentano già da tempo un approdo consolidato, nella giurisprudenza di legittimità).

2. Si trova poi nella motivazione della sentenza in commento una ampia, esaustiva e convincente disamina degli aspetti strutturali di base sui quali si fonda – per l'appunto – il principio di specialità.

È allora noto come una norma possa definirsi speciale rispetto ad altra che rivesta un ruolo più generale, allorquando la prima contenga di quest'ultima tutti gli elementi costitutivi, ma anche altri che rivestano una funzione di specializzazione. Tanto che, in assenza di tali requisiti, la fattispecie speciale sarebbe agevolmente riconducibile al paradigma legislativo generale. Il rapporto di specialità fra fattispecie postula insomma che esista una pluralità di norme,tutte regolative della medesima materia. Qui la Corte - nel differenziare i concetti di bene giuridico e di identità di materia - analizza nel dettaglio i vari casi in cui può riscontrarsi l'identità di materia fra fattispecie incriminatrici, soffermandosi altresì sulle varie tesi elaborate dagli studiosi della materia. Tradizionalmente si distinguono infatti:

  • la specialità unilaterale per specificazione (laddove è richiesta la presenza di una norma speciale che sia integralmente ricompresa in quella generale, ma con un elemento in funzione specializzante, come nel rapporto che lega l'ormai depenalizzata ingiuria e l'oltraggio);
  • la specialità reciproca bilaterale per aggiunta o specificazione (rapporto tra norme che si verifica allorquando ciascuna norma è contemporaneamente generale e speciale, sussistendo in ognuna – accanto a un nucleo comune – elementi specifici e altri generici rispetto all'altra; aggiungiamo che la specialità reciproca può realizzarsi per coincidenza tra fattispecie e sottofattispecie, ovvero per coincidenza fra fattispecie ed elemento particolare);
  • la specialità unilaterale per aggiunta (basti qui pensare alla rapina rispetto al furto).

Questa l'ampia premessa concettuale svolta dalla Corte, per giungere ad affermare come si debba far riferimento al solo principio di specialità. Tanto andava chiarito.

3. Si può a questo punto evidenziare come vi siano due considerazioni di ordine sistematico, che vengono da sempre poste a fondamento della tesi della configurabilità di un concorso formale, fra le suddette fattispecie concernenti il porto e la detenzione di arma comune da sparo clandestina. Tali argomentazioni poggiano come detto sugli argomenti:

  • della diversità di bene giuridico tutelato; e per ciò che attiene a tale profilo, le Sezioni unite richiamano in motivazione gli ultimi approdi della Consulta (Corte cost. n. 200/2016, in tema di ne bis in idem), per riaffermare la concezione naturalistica del fatto di reato, che ha riguardo alla oggettività dell'accadimento fenomenico nel suo concreto snodarsi all'interno della realtà. Il raffronto fra le varie fattispecie incriminatrici deve pertanto prescindere dalla variabile costituita dalla catalogazione astratta operata dal Legislatore (e dunque, distaccarsi da una visione solo normativo-sociale e formale) e procedere invece mediante l'esame dell'avvenimento materiale e dell'oggetto fisico della condotta: tale tipologia di approccio vale già di per sé a scongiurare la pluralità di incolpazioni, nel caso in cui il fatto umano costituente reato sia unitario;
  • della diversità delle condotte oggettive punite;la Cassazione ritiene che tale diversità venga nel caso in esame affermata in maniera forse apodittica, ossia che costituisca il frutto di una mera comparazione fra fattispecie tipizzate,effettuatanella sola dimensione astratta e descrittiva delle stesse; sarebbe a dire, senza condurre il raffronto fra le più ipotesi tipiche sulla scorta del parametro rappresentato dal confronto fra gli elementi costitutivi naturalisticamente intesi. Da tale approccio rampolla evidentemente la conclusione alla quale perviene la Corte, laddove osserva la assoluta sovrapponibilità materiale fra le condotte cristallizzate nelle due “coppie di reato” (detenzione di arma comune da sparo e detenzione di arma clandestina; porto di arma comune da sparo e porto di arma clandestina). L'unico elemento genuinamente specializzante tra i due gruppi di condotte – e quindi fra i più fatti-reato tipizzati dal Legislatore – finisce allora veramente per essere quello della clandestinità dell'arma].

4. Attraverso le considerazioni sopra riassunte, le Sezioni unite riconducono il rapporto fra le due fattispecie scrutinate alla categoria teorica della specialità per aggiunta unilaterale. Con esclusione quindi della configurabilità di un rapporto di specialità reciproca, sottolineandosi poi come il paradigma normativo ex art. 23 l. 110/1975 non riporti il termine illegalmente, presente invece nel dettato degli artt. 2, 4 e 7 l. 895/1967. Ciò a rappresentare come l'illegalità del porto e della detenzione costituiscano fattore immanente alla condotta, nel caso di clandestinità dell'arma. La quale quindi, proprio in quanto clandestina, non può mai essere detenuta legalmente (un argomento, quest'ultimo, che pare davvero di forte valenza significativa).

La Corte richiama infine la lettera dell'art. 4, comma 2, l. 895/1967 in tema di aggravanti, laddove è prevista una clausola di riserva (Salvo che il porto d'arma costituisca elemento costitutivo o circostanza aggravante specifica per il reato commesso […]). Da tale dato testuale, le Sezioni unite ricavano la volontà legislativa di evitare l'inutile proliferare di contestazioni ripetitive. Cosa che impone di applicare la sola previsione incriminatrice che – pur se risultino integrate le circostanze aggravanti speciali e ad effetto speciale che sono previste all'art. 4 succitato – contenga il porto d'arma quale elemento costitutivo, sul quale risulti modellato l'elemento oggettivo della fattispecie. Il ragionamento della Corte prosegue affermando come tale raffronto fra fattispecie vada effettuato non solo con riferimento alla ricorrenza di circostanze aggravanti, bensì a fortiori in relazione a fattispecie delittuose autonome.

Occorre quindi raffrontare i modelli legali e verificare se le condotte di porto e di detenzione d'arma comune da sparo (costituenti la materialità degli artt. 2, 4 e 7 l. 2 ottobre 1967, n. 895), risultino richiamate anche nella struttura oggettiva di altre fattispecie (segnatamente, per quanto ora interessa, nell'archetipo normativo ex art. 23 l. 110/1975). In caso di esito positivo, sarà poi necessario considerare assorbite le ipotesi di mera detenzione e porto d'arma comune da sparo, stante la presenza specializzante dell'elemento della clandestinità ed in ossequio al principio ermeneutico – di valenza interpretativa generale - dettato nella sopra detta clausola di riserva.

Fin qui, il dictum della Corte.

L'insegnamento che se ne trae è – con tutta chiarezza – quello di aborrire tutte le soluzioni giuridiche che conducano ad una superfetazione delle fattispecie incriminatrici. Ad abbandonare la deriva della ostinata ricerca di una intima difformità, tra condotte che invece si atteggiano – nella realtà fenomenica – secondo una relazione reciproca di sostanziale equipollenza. La condotta materiale fra i due modelli legali sopra richiamati è infatti esattamente sovrapponibile, come del resto agevolmente comprensibile in via quasi metagiuridica (la condotta punita si risolve infatti pur sempre nel fatto storico di portare o detenere una pistola). La presenza dell'elemento specializzante della clandestinità rende poi una delle due previsioni recessiva rispetto all'altra.

Il tutto comporta anche un implicito richiamo all'adozione di un approccio semplice, nell'interpretazione delle norme incriminatrici. Ad un metodo di raffronto fra fattispecie che sappia valorizzare la materialità delle condotte, che proceda attraverso una analisi esegetica atta a salvaguardare la complessiva tenuta razionale dell'ordinamento penalistico.

Una metodologia di analisi che, molto verosimilmente, potrà trovare vasta applicazione anche con riferimento a molte altre fattispecie presenti nel sistema, che sono tali da rappresentare niente altro che una incongrua moltiplicazione di incolpazioni.

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