Quale destino per il decreto che dispone il giudizio in caso di accoglimento dell'istanza di ricusazione del GUP?
22 Febbraio 2021
1.
La questione rimessa alle Sezioni Unite penali riguarda il destino del decreto che dispone il giudizio nel caso di accoglimento dell'istanza di ricusazione del Gup. Si tratta di capire se, in assenza di una indicazione espressa del giudice della ricusazione circa il mantenimento della loro efficacia/validità, tutti gli atti compiuti medio tempŏre perdano efficacia tranne quelli che non hanno valenza probatoria. La Sezione rimettente sostiene che in quest'ultima categoria vada inserito anche il decreto che dispone il giudizio, «non potendo esservi dubbi sulla natura non probatoria dell'atto di cui si discute».
La questione che è stata rimessa alle Sezioni Unite dalla Sezione Prima con ordinanza del 26 febbraio 2020, depositata il 30 marzo 2020, n. 10818, sorge dalla necessità di capire se il decreto che dispone il giudizio – emesso prima dell'esaurimento della procedura di ricusazione – possa o meno mantenere la propria efficacia laddove poi la relativa dichiarazione venga accolta e si accerti, pertanto e definitivamente, che quel Gup era (a vario titolo) incompatibile. Nel caso di specie, il Tribunale di Gela aveva stabilito che l'avvenuto accoglimento dell'istanza di ricusazione non avesse inficiato in alcun modo il passaggio dalla fase dell'udienza preliminare a quella del giudizio. Più esattamente, la richiesta avanzata dai tre imputati (anche) di reati associativi nei confronti del Gup – il quale, nei loro specifici riguardi ed in altro procedimento, si era già pronunciato in merito alla esistenza sia dell'associazione di tipo mafioso che di quella dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti – non aveva generato alcuna inefficacia o nullità dell'atto compiuto dal Gup medesimo, in pendenza della decisione definitiva della procedura incidentale di ricusazione. In particolare, il d.d.g. era stato emesso l'8 febbraio 2016 e, cioè, quando era già intervenuta la prima declaratoria di inammissibilità da parte della Corte di Appello di Caltanissetta n.q. di giudice della ricusazione; poi, a seguito dell'ulteriore “navetta”tra la Corte distrettuale e la Corte di Cassazione intervenuta con un secondo annullamento, la prima ha definitivamente accolto l'istanza di ricusazione nell'autunno del 2017 ovvero quando, nel frattempo, il procedimento principale era già in fase di avanzata istruttoria dibattimentale. Riproposta la questione nel secondo grado di giudizio, anche la Corte di Appello ha negato un qualsivoglia impatto sul procedimento principale della successiva decisione di accoglimento, il decreto che dispone il giudizio avendo natura interlocutoria e non rappresentando una decisione sulla fondatezza della imputazione. Esperito il ricorso per Cassazione, la difesa ha ribadito la propria tesi, sostenendo che si rientrasse nell'alveo della incompetenza funzionale e annessa nullità dell'atto ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. a), c.p.p.; di conseguenza, il procedimento sarebbe dovuto regredire alla fase dell'udienza preliminare. Ed infatti, la carenza di potere del giudice ricusato non poteva non travolgere anche l'atto compiuto da quest'ultimo, poiché il decreto emesso ai sensi dell'art. 429 c.p.p. è alternativo alla sentenza di non luogo a procedere e, dunque, non può essere considerato meramente interlocutorio. Sennonché, data l'esistenza di un contrasto interpretativo sugli effetti dell'accoglimento dell'istanza di ricusazione – in particolare in termini di efficacia o validità del decreto che dispone il giudizio – la Sezione Prima (Presidente Iasillo, Relatore Magi) ha deciso di rimettere la questione alle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 618, comma 1, c.p.p.
Considerazioni svolte dai giudici rimettenti (e non solo…). Gli Ermellini hanno evidenziato sin da subito che il d.d.g. era stato emesso solo dopo la prima decisione di inammissibilità del giudice della ricusazione e, dunque, nel pieno rispetto dell'art. 37, comma 2, c.p.p. che, peraltro, al divieto di pronunciare o concorrere a pronunciare «sentenza» (solo ed esclusivamente) fa riferimento. Inoltre, nessuna indicazione di mantenimento di efficacia degli atti pregressi era contenuta nella decisione del giudice della ricusazione, secondo quanto previsto dall'art. 42, comma 2, c.p.p. Il contrasto interpretativo permane anche dopo l'intervento dei due più importanti arresti di legittimità intervenuti in materia e nati dai ricorsi degli imputati Digiacomantonio e Tanzi, affrontati in seguito. È a questo punto – il 3.1 del “Considerato in diritto” – che la Suprema Corte pone l'accento sull'aspetto di maggiore rilievo (per chi scrive) della questione: «l'apertura di una procedura incidentale di ricusazione del giudice non comporta - in quanto tale - la sospensione del procedimento principale, come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte nella decisione del 2002 (n. 31421) ric. Conti, intervenuta a chiarire il significato della disposizione di legge di cui all'art. 37, comma 2,c.p.p. secondo cui il giudice ricusato non può pronunciare né concorrere a pronunciare “sentenza” fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione». Intervento chiarificatore particolarmente utile, atteso che non esiste nell'impianto degli artt. 37-44 c.p.p. alcuna norma di contenuto equiparabile a quella inserita nell'art. 47 c.p.p. relativo, com'è noto, all'istituto della rimessione del processo. Ed infatti, accostando l'art. 41, comma 2, c.p.p. all'incĭpit (non è un caso)dell'art. 47, comma 1, c.p.p., si noterà subito – a parti invertite – quanto segue: la presentazione (già solo e correttamente questa) della richiesta di rimessione comporta la facoltà o l'obbligo per il giudice di disporre la sospensione del processo nelle ipotesi di cui ai commi 1 e 2, rispettivamente; nel caso della ricusazione la corte può disporre, con ordinanza, che il giudice sospenda temporaneamente ogni attività processuale o si limiti al compimento degli atti urgenti. Sennonché, in disparte la considerazione che in quest'ultimo segmento normativo sia insito il margine di una discrezionalità opinabile, si aggiunga che tale potere di sospensione scatta solo fuori dei casi di inammissibilità della dichiarazione di ricusazione. Non solo. La inammissibilità implica comunque ed ovviamente un preliminare vaglio (anche) di merito, per come si ricava dal primo comma dell'art. 41 c.p.p. che così dispone: Quando la dichiarazione di ricusazione è stata proposta da chi non ne aveva il diritto o senza l'osservanza dei termini o delle forme previsti dall'articolo 38 ovvero quando i motivi addotti sono manifestamente infondati, la corte, senza ritardo, la dichiara inammissibile con ordinanza avverso la quale è proponibile ricorso per cassazione. La corte di cassazione decide in camera di consiglio a norma dell'art. 611 c.p.p. Ora, benché la norma lo preveda esplicitamente, la locuzione senza ritardo sta alla necessità di urgente definizione della procedura incidentale di ricusazione come la ragionevole durata del processo sta alla necessità della non meno urgente definizione del procedimento di merito. Ché, poi, i meccanismi della astensione-ricusazione/rimessione si ispirano e nutrono, in fondo, alla e della medesima ratio, la più intima e sacra: la garanzia di un virgin state of mind del giudice (singola persona fisica o intero ufficio)e di una amministrazione della Giustizia che sia ed appaia la più giusta,serena ed equilibrata possibile per chi vi partecipa, così come agli occhi del popolo tutto. Ma di questo si ragionerà e dirà meglio all'indomani della lettura del dispositivo e, soprattutto, del deposito della motivazione. Tuttavia, una domanda bussa alle tempie con insistenza: chissà se è un caso che l'art. 34, comma 2,c.p.p. sia rimasto scolpito ed indisturbato nel codice del (bel) rito processuale penale italiano laddove così esordisce: Non può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare (…). La tentazione di anticipare e sviluppare, finanche inseguire il guizzo dei pensieri sommersi e sommessi è forte, ma si tradirebbero le intenzioni poco prima dichiarate e che, come tali, devono essere rispettate. Ogni cosa a/ha (il) suo tempo. È, poi, nei passaggi in cui la Sezione Prima chiarisce il contenuto della sentenza Conti che si rivela il gap più ampio a parere dell'odierna osservatrice, colmato il quale – probabilmente – nessun contrasto avrebbe più ragione di esistere: «Sempre in detto arresto si sottolinea come il legislatore del 1988 abbia volutamente “spezzato ogni legame tra proposizione della istanza di ricusazione e sospensione del procedimento” anche allo scopo di tutelare l'incolumità del processo nel suo complesso, a fronte di possibili abusi della facoltà processuale tesa ad introdurre la procedura incidentale». Ci si chiede ancora: chissà perché si ricorre (troppo) spesso ai soliti (essi sì e di frequente) abusati cliché dei proclamati atteggiamenti ostruzionistici, per giustificare restrizioni gravissime di prerogative (soprattutto) difensive assolutamente inviolabili. Non si nega che, talvolta, l'ostruzionismo si riveli “strategico” e sia (terribilmente) leggibile e palpabile negli atti così come nelle aule. Vero. Ma è solo attraverso le già esistenti sanzioni (si ricordi il disposto dell'art. 44 c.p.p.) che i paventati abusi di cui sopra possono e devono essere evitati e puniti. Non è certo comprimendo il diritto di prevenire il giudizio (latamente inteso) viziato ab origine che si rende più fecondo il silenzio meditativo di (qualsiasi) camera di consiglio. Dalla sua “fumata bianca” deve venir fuori il miglior prodotto giudiziario che il singolo utente, coinvolto o curioso, si aspetta; così come ragionevole è l'aspettativa di chi ritiene – a bassa voce – che un doppio intervento di tipo additivo da parte della Corte costituzionale, proprio in tema di sospensione obbligatoria del processo anche quando sia presentata (già solo) la dichiarazione di ricusazione, sia la panacea di tutti i mali. Sennonché, al punto 3.2 dell'ordinanza si legge: «Non vi è dubbio, pertanto, circa l'assenza di effetti sospensivi, nel caso oggetto della presente decisione, posto che la Corte di Appello destinataria delle domande di ricusazione non ha emesso alcun provvedimento di sospensione e le istanze vennero - in prima deliberazione - dichiarate inammissibili». Ciò è il diretto e concreto risultato del margine di discrezionalità contenuto nell'attuale art. 41, comma 2, c.p.p. di cui sopra e della limitazione di un implicito dovere di sospensione al solo caso della sentenza. Va da sé, dunque, che l'art. 37, comma 2, c.p.p. andrebbe integralmente eliminato dalla Consulta. Si rammenti ancora, infatti, che la sentenza (del singolo grado, sulla scia del ragionamento seguito ed “alla luce” dello stato dell'arte) è l'unico provvedimento ad essere espressamente citato dall'art. 37, comma 2, c.p.p. Tuttavia, sia lecito chiedersi: che ne è della sentenza di non luogo a procedere? Si potrebbe immediatamente obiettare: se già il decreto che dispone il giudizio non ha alcun contenuto probatorio è ovvio che un peso specifico esponenzialmente inferiore debba essere riconosciuto alla sentenza ex art. 425 c.p.p. Vero, ma solo in parte ed è una porzione di verità che va progressivamente riducendosi. Detto con maggiore impegno esplicativo, è o non è la sentenza di non luogo a procedere il secondo stop del procedimento penale che, dopo il provvedimento di archiviazione, mette (hic et nunc) a tacere la spinta accusatoria? Possibile ulteriore obiezione: tanto il provvedimento di archiviazione (che, per di più, si colloca nella fase antecedente delle indagini preliminari), quanto la sentenza di non luogo a procedere non sono certo vocati alla definitività. Vero. Ma anche la sentenza del giudice del dibattimento non lo è potenzialmente. Quest'ultima ha una valenza marcatamente probatoria, il contraddittorio dispiegando la sua maestosa verve ed efficacia solo nel giudizio (tecnicamente inteso). Ad Esso sono dedicati i versi giuridici più belli che l'art. 111 Cost. custodisce nello scrigno donato Oltralpe. Anche questo è vero e lo è nella massima parte. Che ne è, però, dell'incidente probatorio, della opposizione alla richiesta di archiviazione, dell'attività di integrazione probatoria (pro reo) anche di ufficio del Gup o della revoca della sentenza di non luogo a procedere? Che ne è, infine, del giudizio abbreviato “secco” e, ancor più, del giudizio abbreviato “condizionato”? In particolare, del problema che il contrasto interpretativo pone ove si opti per il suddetto rito alternativo il giudice rimettente terrà conto in misura notevole nei passaggi successivi della propria decisione. Non è un caso. Ecco perché ci si è permessi di definire “urgente” la “manipolazione aggiuntiva” dell'attuale tessuto normativo da parte di chi del Legislatore (purtroppo) spesso deve far le veci; ad ogni modo, si proceda oltre e più non si distolga il Lettore dalla ordinanza n. 10818/2020. Poco dopo il Supremo Consigliere ha aggiunto: «nessuna questione può dirsi ancora aperta per quanto concerne la disposizione di cui all'art. 37 co. 2 c.p.p., atteso che da un lato il procedimento principale non era stato sospeso dal giudice della ricusazione, dall'altro il decreto di rinvio a giudizio non può ritenersi atto con connotazione funzionale assimilabile alla sentenza, posto che non ha vocazione definitoria della regiudicanda ma realizza un primo vaglio sulla sostenibilità dell'accusa tale da consentire, se positivo, la instaurazione del dibattimento (si veda in tal senso anche Cass. pen., Sez. V, Sentenza n. 23712 del 31/03/2010 - Rv. 247505 - 01)». Appunto. Non è dato di poco momento. Se il d.d.g. è, per come è, il primo vaglio sulla sostenibilità dell'accusa – l'azione penale, sempre tecnicamente intesa, essendo stata appena esercitata – perché se ne sminuisce l'innegabile valore? Non resterà ricordo romantico dei primi passi universitari la constatazione monitoria di Francesco Carnelutti: «Il processo è di per sé una pena». Ed il processo, per l'ennesima volta tecnicamente inteso, inizia (ordinariamente) con la richiesta di rinvio a giudizio cui segue proprio l'udienza preliminare. Sicomma Andando avanti, si giunge al punto 3.5 dove si sviluppa la portata delle citate sentenze emesse dalle Sezioni Unite ed entrambe depositate nel 2011: Tanzi e Digiacomantonio. Nella prima – recante il n. 23122 del 27 gennaio 2011 – è stato affrontato il tema della avvenuta emissione di un atto a contenuto decisorio, benché la procedura incidentale di ricusazione fosse ancora pendente. Nel dettaglio, si trattava di una decisione di revoca di misura alternativa emessa dal Tribunale di Sorveglianza in spregio al dettato dell'art. 37, comma 2, c.p.p. La decisione di revoca era stata adottata, infatti, prima che fosse intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione. «Le Sezioni Unite Tanzi», rileva l'Estensore, «hanno, sul punto, ritenuto che la decisione emessa in pendenza della procedura incidentale di ricusazione non può dirsi - per ciò solo - affetta da invalidità, potendo tale effetto derivare solo dall'avvenuto accoglimento della domanda,aderendo all'indirizzo sino a quel momento prevalente: “l'indirizzo nettamente prevalente individua invece nell'esito del giudizio sulla dichiarazione di ricusazione una causa di validità o nullità secundum eventum della decisione irritualmente adottata in pendenza della ricusazione medesima: l'inammissibilità o il rigetto la rendono valida; l'accoglimento invalida”. Quanto agli effetti dell'accoglimento della istanza di ricusazione, la medesima decisione - anche in rapporto alla considerazione per cui le disposizioni in tema di astensione e ricusazione concorrono a realizzare i principi fondamentali di terzietà e imparzialità del giudice - distingue, di seguito, tra le diverse tipologie di atti processuali, affermando che mentre una “decisione” emessa dal giudice fondatamente ricusato (la cui condizione sia stata accertata con accoglimento della domanda) è da ritenersi nulla (per difetto di capacità particolare ai sensi dell'art. 178 co.1 lett. a) c.p.p.), gli altri atti processuali emessi dal giudice vanno qualificati come inefficaci». Passando alla sentenza Digiacomantonio – la n. 13626 del 16 dicembre 2010 – che ha esaminato la disciplina dell'art. 42, comma 2, c.p.p., con particolare riferimento alla ipotesi in cui la decisione di accoglimento della ricusazione non abbia indicato gli atti compiuti nel procedimento principale che restino utilizzabili o efficaci, è stato evidenziato quanto segue: «le Sezioni Unite Digiacomantonio – in un caso concreto caratterizzato da questioni relative al recupero di atti istruttori – introducono alcune considerazioni sulla ratio legisposta a fondamento della disposizione, affermando, tra l'altro, che: “vi è quindi una sorta di presunzione di inefficacia degli atti posti in essere dallo iudex suspectus prima dell'accoglimento della dichiarazione di astensione o della ricusazione, che può essere rimossa con la declaratoria di efficacia di tutti o di alcuni atti dal giudice della ricusazione, che abbia verificato se malgrado la riconosciuta carenza di imparzialità del giudice, vi siano atti che non abbiano subito alterazione, così da poter essere conservati”. Si postula, pertanto, la possibile esistenza di atti del procedimento principale immuni da forme di condizionamento del giudice, in ciò individuando il criterio regolativo cui il giudice della ricusazione è tenuto ad attenersi. Si afferma, inoltre, che tale indicazione, da parte del giudice che accoglie la domanda di ricusazione, è da ritenersi obbligatoria: “è perfettamente comprensibile che in presenza di situazioni nelle quali l'imparzialità è violata o, semplicemente, appare compromessa, la legge processuale disponga il controllo dell'efficacia degli atti compiuti dal giudice astenutosi o ricusato quale ineliminabile garanzia che il loro contenuto non è stato pregiudicato dalla situazione di sospetto che ha motivato l'accoglimento della richiesta di astensione o di ricusazione”». Si indugi solo per un attimo sull'ultima e doppia enfasi grafica: la Giustizia non solo deve essere ma deve anche apparire genuina, autentica, vera. Ciò che ben principia e correttamente si conduce non può che ben concludersi ed è – non solo appare – umanamente giusto. Umanamente condivisibile. È il bel vestito che chi deve indossare o semplicemente guarda in vetrina deve presentarsi καλός κἀγαθός. Chi vi si approccia, in buona sostanza, dovrà sentirlo – o vederlo – calzare su misura (per quanto possibile) di se stesso o del modello che osserva in quel preciso istante. Si faccia, inoltre, un passetto indietro e si ricordi quanto si era suggerito agli inizi del presente studio: ragionevole è l'aspettativa di chi ritiene – a bassa voce – che un doppio intervento di tipo additivo da parte della Corte costituzionale, proprio in tema di sospensione obbligatoria del processo anche quando sia presentata (già solo) la dichiarazione di ricusazione, sia la panacea di tutti i mali. Ebbene, non basta. V'è la necessità, evidentemente, di un ennesimo intervento manipolativo da parte della Consulta, questa volta, però, di tipo riduttivo: va (per ragioni di stretta logica e conseguenzialità topografica) dichiarato integralmente illegittimo (in uno al comma 2 dell'art. 37, per come si diceva) anche il comma 2 dell'art. 42 c.p.p. La ragione di questa tesi che ci si augura sia ed appaia la meno peregrina possibile è molto semplice: se la sospensione del procedimento principale diventa sin da subito obbligatoria (senza i distinguo contenuti nell'art. 47 c.p.p. in tema di rimessione del processo e su cui non ci si può soffermare in questo momento), il giudice dell'astensione o ricusazione non avrà più alcuna necessità di dichiarare se e quali atti compiuti dal giudice astenutosi o ricusato debbano conservare efficacia. Focalizzando l'attenzione sul singolo istituto oggetto dell'odierno contrasto, delle due l'una: ottenuta la sospensione – grazie alla legge coniata da chi della legge giusta è il Sommo Custode – il giudice ricusato erroneamente continuerà a svolgere il proprio lavoro; il giudice subentrato al collega ricusato correttamente riprenderà da dove il secondo era stato (sin da subito) interrotto. Sic… again! Anche perché, riferisce esattamente la Sezione Prima sulla scia delle Sezioni Unite Digiacomantonio, con la decisione del giudice della ricusazione – cui solo spetta «il potere-dovere di sciogliere il nodo sulla efficacia degli atti (…) – “le parti potrebbero non essere d'accordo (…)”». «Ma», continua l'Estensore, «nella predetta sentenza Digiacomantonio si aggiunge che: “Non è prevista la impugnabilità del provvedimento emesso ex art. 42,comma 2, c.p.p. La inoppugnabilità del provvedimento in discussione però, se non temperata da un sistema di rivedibilità o di sindacabilità della decisione del giudice dell'astensione e della ricusazione, finirebbe con il sottrarre definitivamente gli atti a contenuto probatorio dichiarati erroneamente inefficaci, o ritenuti tali per mancata pronuncia da parte del giudice dell'astensione e/o della ricusazione, all'apprezzamento del giudice del dibattimento che, fondandosi sul contraddittorio tra le parti, è il vero dominus nel sistema processuale vigente degli atti a contenuto probatorio. Del resto, se la decisione del giudice dell'astensione e della ricusazione non fosse sindacabile dal giudice del processo, le norme processuali, che prevedono la inoppugnabilità del provvedimento ex art. 42, comma 2, c.p.p., non si sottrarrebbero ad una censura di illegittimità costituzionale”. Se da un lato, in estrema sintesi, si afferma il principio per cui l'assenza di indicazione da parte della Corte di Appello (in caso di ricusazione accolta) rende inefficaci tutti gli atti compiuti - nelle more - nel procedimento principale, dall'altro si rende possibile l'approdo ad una soluzione diversa con recupero di utilizzabilità dei predetti atti proprio in virtù della sindacabilità da parte del giudice del processo del provvedimento emesso ex art.42, comma 2, c.p.p. Nella massima ufficiale, rv 249299, la decisione è stata riportata nel modo che segue: in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci (la Suprema Corte ha precisato che la nozione di “efficacia” indica, nella specie, la possibilità di inserimento degli atti, compiuti dal giudice astenutosi o ricusato, nel fascicolo per il dibattimento, e che la valutazione di efficacia od inefficacia, operata dal giudice che decide sull'astensione o sulla ricusazione, pur autonomamente non impugnabile, è successivamente sindacabile, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione)». Si potrebbe nuovamente obiettare: non esiste norma che – a stretto rigore – consenta al giudice del procedimento principale, neppure al giudice del dibattimento, di sindacare la decisione del giudice dell'astensione e della ricusazione. Quest'ultima è sì impugnabile, ma esclusivamente nei casi e modi previsti dall'art. 41 c.p.p. innanzi alla Corte di Cassazione. Si ribadisce: se la Consulta inserisse la sospensione immediata ed obbligatoria del procedimento principale, il problema della efficacia/validità, così come (e soprattutto) della corretta scansione del procedimento – da una fase all'altra, tutte essendo decisive, ineludibili e irrinunciabili –sarebbe risolto in radice. Non vi sarebbe alcuna necessità di sindacare, neppure innanzi al dominus del dibattimento, se e quali atti compiuti dal giudice dichiarato incompatibile possano restare in vita o meno. Anche perché, non si tralasci, nulla esclude che pure in tal caso – come paventato dalle Sezioni Unite Digiacomantonio – «“le parti potrebbero non essere d'accordo con tale decisione”». Il rischio che si inneschi un pericoloso “effetto domino” è alto e solo l'intervento nomopoietico e “logofilattico” della Corte costituzionale – ci si permetta: nel senso già chiarito della sospensione, non già della impugnabilità della decisione del giudice della ricusazione, tantomeno del giudice del dibattimento – potrebbe eliminarlo. Si ritorni alla ordinanza in esame e, al punto 4, si dà atto del contrasto sorto dopo le Sezioni Unite Tanzi e Digiacomantonio esaminate fin qui. Ivi si legge: «Non è univoca, in particolare, la considerazione dello stesso “ambito” della decisione Digiacomantonio, posto che in alcuni arresti si è ritenuto che i principi ivi enunciati (ed in particolare l'affermazione per cui in assenza di indicazione espressa da parte del giudice della ricusazione tutti gli atti compiuti medio tempore sarebbero inefficaci) siano applicabili ai soli atti aventi natura strettamente probatoria, con la conseguenza di ritenere dotati di efficacia - pure in assenza di indicazione espressa ex art. 42 c.p.p. - altri atti giurisdizionali parimenti emessi dal giudice la cui ricusazione sia stata accolta». Ebbene, questa distinzione non solo appare ed è sprovvista di qualsivoglia addentellato normativo ma rimette alla discrezionalità del singolo giudicante la scelta di cosa si salvi e cosa venga meno. Il che presuppone la indicazione, a monte, di quale atto abbia natura certamente probatoria e quale no. La quale differenziazione, tuttavia, non è così scontata se il termine “probatorio” assume l'accezione più ampia, forse meno tecnica (o tecnica solo in determinati casi, artt. 392 e 422 c.p.p. in primis) ma che è l'unica – per chi esterna le seguenti riflessioni – realmente garantista. Ché, poi, “probatorio” non va confuso con “dialettico”. Ché, ancora ed infine, se la sospensione fosse radicalmente introdotta il nodo sarebbe sciolto a monte. Ma questo lo si è già detto. A partire dal punto 4.1, l'Estensore fotografa gli attuali orientamenti giurisprudenziali e rileva che tale soluzione «risulta di recente espressa da due sentenze del 2019 delle quali si ritiene opportuno riportare la massima e parte della motivazione. La massima della sentenza della V Sezione penale n. 44120 del 09/05/2019 (Rv. 277848) riporta la decisione nel seguente modo: In tema di ricusazione e astensione, non sono inefficaci gli atti a contenuto non probatorio compiuti dal giudice ricusato o astenuto, dei quali il provvedimento di accoglimento dell'istanza non abbia espressamente dichiarato la conservazione di efficacia ai sensi dell'art. 42, comma 2, c.p.p., la cui previsione riguarda i soli atti a contenuto probatorio (…)». Non è vero. La norma non distingue alcunché, facendo riferimento ai soli atti compiuti precedentemente e, dunque, tout-court intesi. Eccone la prosecuzione: (…), fermo restando il potere del nuovo giudice di assumere determinazioni diverse da quelle adottate dal giudice sostituito (fattispecie relativa all'ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato e al provvedimento di sospensione dei termini cautelari pronunciato dal giudice astenuto ai sensi dell'art. 304, comma 2, c.p.p., dei quali il ricorrente aveva sostenuto l'inefficacia innanzi ai giudici della cautela)». Ed ancora: «Nella motivazione della predetta sentenza si afferma tra l'altro che “lo sviluppo motivazionale della sentenza Digiacomantonio chiarisce, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente, che l'esame del massimo organo di nomofilachia era sì limitato allo specifico tema del destino da riservare agli atti destinati a produrre effetti giuridici ai fini dell'individuazione del materiale su cui fondare la decisione, ma con il risultato di offrire una lettura complessiva della portata del capoverso del citato art. 42. A tacer d'altro, infatti, nello spiegare perché il codice di rito riservi al giudice demandato a valutare una dichiarazione di astensione o di ricusazione il compito di selezionare gli atti che debbono conservare efficacia, la sentenza de qua sottolinea apertis verbis che è proprio quel giudice “che conosce i profili di incompatibilità del giudice astenutosi, e che può quindi valutare con precisione gli effetti di tale rilevata incompatibilità sugli atti di natura probatoria assunti in precedenza” (…)». Trattasi di valutazione – sospensione obbligatoria a parte – teoricamente corretta. Sennonché, riferisce l'Estensore, «coerentemente, al principio di diritto sopra riportato le Sezioni Unite aggiungono il dictum secondo cui “la dichiarazione di inefficacia degli atti può essere sindacata, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione, con conseguente eventuale utilizzazione degli atti medesimi”.All'ufficio cui è rimessa la valutazione sui presupposti di una dichiarazione di ricusazione, in definitiva, si chiede di verificare se e quali atti “di natura probatoria” possano essere stati condizionati da un approccio non imparziale alla regiudicanda da parte del primo giudice; ed il giudice che a questo subentri potrà anche rivedere gli esiti della verifica anzidetta, pervenendo - sentite le parti - ad attribuire una possibilità di “utilizzazione” ad atti inizialmente espunti». Trattasi di valutazione non condivisa per le ragioni già più volte spiegate. «(“) Se ne ricava la conferma, pertanto, che gli atti diversi da quelli evidenziati dispiegano ancora gli effetti propri, salva pur sempre la possibilità del nuovo giudice - nella pienezza dei poteri che senz'altro gli si deve attribuire- di assumere determinazioni diverse: si pensi al caso di una richiesta di giudizio abbreviato subordinato ad integrazioni istruttorie, che il primo giudice abbia rigettato e che, al contrario, il nuovo assegnatario reputi rituale ed accoglibile”. A questo punto, l'Estensore richiama altro arresto: «La massima della sentenza della III Sezione penale n. 35205 del 16/07/2019 (Rv. 277501) riporta la decisione nel seguente modo: In tema di ricusazione, in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia nel provvedimento che accoglie la relativa dichiarazione, sono inefficaci soltanto gli atti a contenuto probatorio compiuti dal giudice ricusato (nella fattispecie, la Corte ha ritenuto l'efficacia dell'ordinanza di ammissione del giudizio abbreviato e di quella di sospensione dei termini di custodia cautelare emessa, ai sensi dell'art. 304 c.p.p., dal giudice ricusato)». Sembrerà strano, ma anche la sospensione dei termini ai sensi dell'art. 304 c.p.p. potrebbe essere oggetto di determinazioni diverse. Si fa, inoltre, presente quanto segue: «nella motivazione della predetta sentenza si afferma, tra l'altro, che: “Non vi sono ragioni di contrasto con l'orientamento in precedenza affermato né con i principi affermati dalle Sezioni Unite n. 13626 del 2010, che, anzi, vanno, in questa occasione, ribaditi, sicché alcun contrasto giurisprudenziale, anche potenziale, è ravvisabile. Conclusivamente non ritiene il Collegio che vi siano i presupposti per la rimessione della decisione alle Sezioni Unite (…). Nel caso in cui non vi sia stata indicazione degli atti che conservano efficacia, come nel caso in esame, la pronuncia di legittimità n. 34811 del 2016 (Cass. pen., Sez. V, n. 34811 del 15/06/2016, Lo Giudice, Rv. 267742 - 01), all'esito di una esegesi interpretativa delle norme che qui vengono in rilievo, ha affermato che il principio fissato dalle Sezioni Unite, sentenza n. 13626 del 16/12/2010, Digiacomantonio ed altri, Rv. 249299, riguarda esclusivamente ed unicamente gli atti a contenuto probatorio, e ciò non in quanto il caso esaminato dalla citata sentenza riguardasse atti a contenuto istruttorio, bensì in quanto a detta conclusione si perviene all'esito di un'analisi accurata del concetto di conservazione di efficacia degli atti, intesa quale possibilità di inserimento degli stessi nel fascicolo del dibattimento, considerando detta fase come prodromica a quella della valutazione di utilizzabilità (…). Tale conclusione trova, sempre secondo la citata pronuncia di legittimità, avallo nella pronuncia della Corte Costituzionale (ord. n. 25 del 2010) (…); secondo la sentenza richiamata, non vi è alcun dubbio che il principio stabilito dalle citate Sezioni Unite, secondo cui “in assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci”, riguardi esclusivamente gli atti a contenuto probatorio. L'impostazione della citata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte era stata anticipata da altra precedente sentenza (Cass. pen., Sez. II, n. 42351 del 09/11/2005, Del Conte, Rv. 232936), che aveva affermato come l'accoglimento da parte della Corte d'Appello di una istanza di ricusazionenon comportava l'inefficacia di tutti gli atti del giudizio, ma solo di quelli compiuti dall'emissione del provvedimento di accoglimento della dichiarazione di astensione o di ricusazione in poi i cui effetti si producono dunque ex nunc e non ex tunc (…). L'espressione “conservano efficacia”, quindi, non può che significare che la pronunzia si riferisce all'efficacia degli atti dal momento dell'emissione del provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione in poi, con la conseguenza evidente che, quanto al caso in esame, gli effetti del provvedimento di ammissione al giudizio abbreviato e l'ordinanza di sospensione dei termini di custodia cautelare, avrebbero prodotto gli effetti sino alla data del provvedimento che accoglie la richiesta di ricusazione. Dunque, si deve ribadire che l'inefficacia degli atti è solo quella che colpisce gli atti a contenuto probatorio”». Chi scrive si dissocia integralmente da tale pensiero, ritenendo che la declaratoria di accoglimento della ricusazione sortisca (soprattutto) l'effetto esattamente contrario. Detto altrimenti, la decisione di accoglimento non avrebbe senso se non valesse “ora per allora”. Tant'è che v'è la necessità che il giudice della ricusazione (come della astensione) dichiari se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice (astenutosi o) ricusato conservano efficacia. Art. 42, comma 2, c.p.p. alla mano. È ovvio, perfino banale, che il giudice ormai dichiarato suspectus non possa più compiere alcun atto del procedimento. È l'art. 42, comma 1, c.p.p. ad imporlo. Anche perché la ragione di incompatibilità è preesistente, non emerge dal nulla durante la procedura incidentale avviata proprio per il suo accertamento: va da sé, quindi, che l'eventuale accoglimento della dichiarazione di ricusazione (ma anche di astensione) dispieghi efficacia dichiarativa e costitutiva ad un tempo. Quindi, sub 4.2 dell'ordinanza si dà atto dell'orientamento contrario: «vi è la sentenza della VI Sezione di cui sotto (il cui contenuto viene esaminato anche dalla sentenza n. 44120 del 09/05/2019 di cui sopra). La massima della sentenza della VI Sezione penale n. 10160 del 18/02/2015 (Rv. 262804) riporta la decisione nel seguente modo: In assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci (…)». È corretto, semplicemente perché si tratta della interpretazione più rispettosa dell'art. 42, comma 2, c.p.p. Nel caso specifico, puntualizza il rimettente, «la Corte ha ritenuto che legittimamente il Gip, subentrato a quello astenutosi, avesse disposto con decreto l'archiviazione del procedimento dichiarando inammissibile l'opposizione della persona offesa, senza aver prima revocato il provvedimento - adottato dal precedente giudice prima di astenersi - di fissazione dell'udienza camerale a seguito dell'opposizione)». A fronte di quel che era accaduto in concreto, il grado di condivisione diminuisce per un duplice motivo: ci si chiede se la revoca del provvedimento adottato dal giudice prima di astenersi dovesse comunque intervenire e soprattutto – riflessione non solo “emotiva” – ci si interroga sul danno che la p.o. ha subìto, a fronte del fatto che la declaratoria di inammissibilità della sua opposizione non fosse stata conseguenza dei mancati requisiti imposti dall'art. 410 c.p.p. Ecco che la obbligatorietà della sospensione immediata diventa sempre più urgente anche nella ipotesi di cui all'art. 36 c.p.p. Si legge ancora nella ordinanza: «Nella motivazione della predetta sentenza si evidenzia, tra l'altro, che: “Deve preliminarmente escludersi che, in assenza di specifico salvataggio pronunciato dall'autorità che accoglie l'istanza di astensione dei provvedimenti emessi in precedenza dal giudice astenuto, il nuovo giudice designato sia vincolato alle determinazioni assunte dal collega titolare del procedimento in precedenza, sviluppandosi la cognizione nella pienezza dei suoi poteri, in assenza di vincolo derivante dalle precedenti determinazioni. Come è già stato autorevolmente osservato invero, la pregiudiziale salvezza dei provvedimenti assunti in precedenza si pone in diretta contraddizione con l'accertamento della causa di astensione, poiché garantirebbe la persistenza di atti emessi da giudice la cui imparzialità è posta in dubbio, sicché tali provvedimenti, ove non espressamente convalidati dal giudice che valuta la richiesta di astensione, devono considerarsi inefficaci (Sez. U, n. 13626 del 16/12/2010 - dep. 05/04/2011, Digiacomantonio e altri, Rv. 249299), nel senso opposto a quanto ritenuto nel ricorso. La circostanza richiamata rende all'evidenza manifestamente infondata l'eccezione svolta dall'interessato sulla vincolatività del precedente provvedimento”». Ed è al punto 4.3 che il giudice rimettente si avvia alla conclusione, laddove scrive: «Appare pertanto evidente che - allo stato - si riscontrano tra le Sezioni semplici letture tra loro diverse dei contenuti del medesimo arresto giurisprudenziale (Sez. U. Digiacomantonio)il che determina la necessità, ad avviso del Collegio, di un nuovo intervento regolativo sul tema. Tale intervento, ad avviso del Collegio, risulta vieppiù necessario anche in ragione della necessità di raccordo sistematico tra i contenuti degli arresti delle Sezioni Unite prima illustrati - Conti, Digiacomantonio e Tanzi- in un contesto legislativo che, come è noto, assegna (art. 618co.1bisc.p.p.) un particolare valore di orientamento ai precedenti giurisprudenziali in ragione della particolare fonte di produzione, rappresentata appunto dalle Sezioni Unite di questa Corte». Ciò in quanto «in tutte le predette sentenze delle Sezioni Unite si sottolinea l'importanza del fatto che nell'attuale normativa sulla ricusazione e astensione sia esclusa - in pendenza della decisione sulla fondatezza della domanda e allo scopo di scoraggiare intenti dilatori e per garantire la ragionevole durata del processo - ogni automatica limitazione dei poteri del giudice sospetto al quale “è solo preclusa la pronuncia della sentenza” (…)». Ritorna in auge il tema tanto caro quanto (lo si permetta per l'ultima volta) abusato della ragionevole durata del processo. Tenuto conto di quel che è stato osservato sinora, la “quadratura del cerchio” è vicina. Almeno questo è quel che ci si augura. Il secondo segmento motivo è il seguente: «(…) (si veda in proposito l'ordinanza n.156/93 della Corte Cost., che, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell'art. 41 c.p.p., sollevata dal Pretore di Forlì in relazione agli art. 3, 25, 97, 112 Cost., sottolinea l'erroneo presupposto dal quale muoveva il giudice rimettente, quello cioè che “la presentazione della dichiarazione di ricusazione comporterebbe l'automatica sospensione dell'attività processuale”)». Vero, è un presupposto erroneo. Ma è sbagliato a fronte ed a causa dell'attuale assetto normativo che, dunque, “ha da esser modificato” senza… irragionevole ritardo. Incalza la Sezione Prima: «Ove si leggano i contenuti della decisione Digiacomantonio come orientati a regolamentare «esclusivamente» la sorte degli atti a rilievo probatorio compiuti innanzi al giudice ‘sospetto', è evidente che anche l'affermazione iniziale contenuta in detto arresto (quella per cui in assenza di una indicazione espressa da parte della Corte di Appello tesa al loro mantenimento in essere, tutti gli atti compiuti medio tempore sono da ritenersi inefficaci) non esplicherebbe alcuna valenza per gli atti del procedimento (ad es. le decisioni relative a misure cautelari e al loro mantenimento in essere, il decreto di rinvio a giudizio, le ordinanze ammissive di riti speciali etcomma) diversi da quelli di raccolta della prova, atti i cui effetti - pure in mancanza di una salvezza espressa nel provvedimento di accoglimento della ricusazione - sarebbero oggetto di autonoma considerazione da parte del “nuovo” giudice del procedimento principale che ben potrebbe affermarne l'efficacia (come è avvenuto nel caso qui in esame)». Al contrario, «Ove (…) si ritenga che l'arresto Sez. U Digiacomantonio abbia, nelle sue premesse esplicative, compiuto riferimento generale agli atti del procedimento in quanto tali(da ritenersi inefficaci ove non intervenga la decisione di mantenimento da parte del giudice ‘della ricusazione') ed abbia solo successivamente sviluppato i principi di diritto in «direzione» degli atti a contenuto probatorio (affermandone, peraltro, il possibile recupero di efficacia anche in assenza di statuizione espressa da parte della Corte di Appello), il ‘nuovo' giudice del procedimento principale non avrebbe alcun autonomo potere di ritenere efficaci atti del procedimento (diversi da quelli in cui si realizza la raccolta della prova), ma dovrebbe esclusivamente prendere atto della loro inefficacia, se non espressamente indicati nella decisione di accoglimento della ricusazione. Ma se si ritenesse che nella decisione di accoglimento della ricusazione si possa indicare l'efficacia anche degli atti di natura non probatoria compiuti dal giudice poi ricusato, non si comprenderebbe perché il giudice del dibattimento non possa, poi, sindacare anche per tali atti l'eventuale erronea dichiarazione della loro inefficacia o debba necessariamente ritenerli inefficaci solo per la mancata pronuncia da parte del giudice dell'astensione e/o della ricusazione sull'efficacia di tali atti. E ciò in relazione proprio a quanto si è affermato nella stessa sentenza Digiacomantonio sulla circostanza che “se la decisione del giudice dell'astensione e della ricusazione non fosse sindacabile dal giudice del processo, le norme processuali, che prevedono la inoppugnabilità del provvedimento ex art. 42, comma2, c.p.p., non si sottrarrebbero ad una censura di illegittimità costituzionale”». Forse perché, si riflette ad alta voce in merito a quest'ultimo inciso, ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit? Forse perché, ancora ed infine, la censura di illegittimità costituzionale deve, piuttosto, sfociare nella sospensione obbligatoria ed immediata? Perdoni il Lettore la monotonia argomentativa, ma a chi scrive questa sembra la soluzione migliore per bilanciare due esigenze e dimensioni incomprimibili: la giustizia e il tempo. Al punto 4.4 l'Estensore prende atto del circolo vizioso (o virtuoso?) rivelato: «(…) il decreto che dispone il giudizio (è) atto che da un lato risulta ontologicamente diverso dalla sentenza (posto che non ha attitudine a definire la regiudicanda), ma dall'altro presuppone una valutazione circa l'assenza delle condizioni cui la legge ricollega la necessaria emissione della sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 c.p.p.». E come al solito, l'analisi del caso concreto fornisce la vera chiave di lettura:«Si deve a tal proposito sottolineare che una tale valutazione è stata implicitamente effettuata anche dai due giudici ricusati di cui alle due sentenze del 2019 (n. 35205 e 44120) di cui sopra si è detto. Infatti, in entrambi i casi si è proceduto con giudizio abbreviato e in un caso si è anche respinta la richiesta di giudizio abbreviato condizionato; quindi i due giudici hanno ritenuto implicitamente di non poter emettere sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 c.p.p. e tutti questi atti posti in essere dai giudici, poi, ricusati sono stati ritenuti efficaci nelle predette due sentenze». Già. Pertanto, «La assenza di indicazioni espresse circa il mantenimento degli effetti del decreto che dispone il giudizio, nel corpo della decisione del giudice della ricusazione (mantenimento degli effetti di tale atto è stato, al contrario, riconosciuto espressamente da entrambe le sentenze di merito che hanno giudicato gli odierni ricorrenti), è aspetto che rende rilevante il descritto contrasto interpretativo, non potendo esservi dubbi sulla natura non probatoria dell'atto di cui si discute». Tuttavia e, al di là del fatto che – forse – la natura non probatoria è tutt'altro che scontata (riecheggiano gli artt. 419, comma 2, 421, comma 3, persino l'art. 422 c.p.p., essendo improbabile ma non impossibile che l'attività integrativa precipiti in un d.d.g.), la sospensione immediata ed obbligatoria fa sentire i suoi rintocchi quasi a volerci dire: Hurry up! (The Right) Time is ticking out. 2.
All'udienza del 26 febbraio 2020 la Sezione Prima penale ha rimesso alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, ai sensi dell'art. 618, comma 1,c.p.p., la seguente questione da dirimere: «se, in caso di accoglimento della istanza di ricusazione del Gup, il decreto che dispone il giudizio – emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione – possa o meno mantenere efficacia». 3.
Il Primo Presidente della Cassazione ha fissato per il 16 luglio 2020 la discussione davanti alle Sezioni Unite della questione controversa: Se, in caso di accoglimento dell'istanza di ricusazione del Gup., il decreto che dispone il giudizio, emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione, conservi o meno efficacia. 4.
Le Sezioni Unite - Relatore De Amicis - all'esito dell'udienza tenutasi il 16 luglio 2020, hanno definito la questione controversa nel modo seguente: In caso di accoglimento della istanza di ricusazione del G.u.p., il decreto che dispone il giudizio - emesso in pendenza della decisione definitiva sulla domanda di ricusazione - non conserva efficacia ed è affetto da nullità ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. a), c.p.p. 5.
Le Sezioni Unite e il Gup ricusato: «Round up the usual suspects». In un periodo dominato dal virtuale, “navigando” grazie ai motori di ricerca più noti, si scopre che nel 2005 questa frase – utilizzata nel film Casablanca – fu scelta da ben millecinquecento (diconsi 1500) addetti ai lavori dell'American Film Institute come la numero 32 tra le 100 migliori citazioni cinematografiche di tutti i tempi tratte da film di produzione USA. Ben la si può calare nel contesto odierno, giacché il 23 dicembre 2020 è stata depositata la motivazione di una sentenza – la n. 37207/2020 – dall'esito e dai contenuti ragionevolmente attesi e, dunque, meritevoli di condivisione. Quasi integrale. Sicché, ciak, si gira! E la cinepresa focalizza subito il Considerato in diritto. Ivi, nel§ 4, le Sezioni Unite muovono dal quadro dei princìpi stabiliti dalla sentenza Tanzi e riconoscono che il decreto che dispone il giudizio «è un provvedimento che “chiude” irreversibilmente una fase sciogliendo la fondamentale alternativa “decisoria” rispetto alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere e determinando, in tal modo, le condizioni necessarie per il transito del processo verso una nuova e diversa fase». E infatti il d.d.g. ha una «connotazione funzionale assimilabile alla sentenza» “anche” alla luce della «pienezza del contraddittorio tra le parti necessarie ai sensi dell'art. 420, comma 1, cod. proc. pen., nello svolgimento del suo compito di garanzia dei diritti e delle facoltà dell'imputato in ordine al vaglio di sostenibilità dell'ipotesi accusatoria». Esattamente. D'altronde, già Corte cost. 4 luglio 2001, n. 224 e 8 luglio 2002, n. 335, aveva evidenziato il rinvigorimento dell'udienza preliminare quale fase non più solo deputata al controllo dell'azione penale promossa dall'Ufficio di Procura, ma pure connotata dalla «completezza del quadro probatorio» e dal «potenziamento dei poteri riconosciuti alle parti in materia di prova, su cui incide anche la facoltà, riconosciuta alla difesa delle parti private dall'art. 391-octies del codice, di presentare direttamente al giudice elementi di prova». Si aggiunga: ciò in vista, altresì, dell'art. 425 c.p.p. Taluno la reputerà una superfetazione, talaltro un miraggio. Si è visto, si vedrà. Di certo mai innesto normativo fu più riequilibratorio del Titolo VI bis. Integralmente considerato. Si prosegue sub 4.1: «Grava sul pubblico ministero, inoltre, l'obbligo di riversare nel procedimento tutti gli elementi provenienti dalle indagini preliminari (art. 416, comma 2, cod. proc. pen.) o comunque acquisiti dopo la richiesta di rinvio a giudizio (art. 419, comma 3, cod. proc. pen.), nell'ambito dell'esigenza di completezza delle indagini preliminari (sentenze n. 115 del 7 maggio 2001 e n. 88 del 28 gennaio 1991)». Già. Lo stabilisce il codice di rito – «le valutazioni di merito affidate al giudice dell'udienza preliminare sono state private di quei caratteri di sommarietà che, fino alle indicate innovazioni legislative, erano tipici di una decisione orientata soltanto, secondo la sua natura, allo svolgimento (o alla preclusione dello svolgimento) del processo» – lo ha (ad abundantiam?)ribadito la giurisprudenza (tutt'altro che rétro), cui si associa anche la più recente Cass. pen., Sez. I, 15 gennaio 2008 (dep. 5 febbraio 2008), n. 5580, rv. 238863: «Qualora il deposito degli atti dell'indagine preliminare avvenga, in tutto o in parte, successivamente alla notifica dell'avviso di conclusione previsto dall'art. 415 bis cod. proc. pen., il termine di venti giorni indicato al comma terzo di detta disposizione inizia a decorrere dal momento del deposito». È la esigenza della discovery integrale e tempestiva a imporlo ed è la natura decisoria e definitoria dell'udienza preliminare ad aver convinto la Consulta a ritenere che tale fase ben debba «essere compresa nel raggio d'azione dell'istituto dell'incompatibilità (…) anche al di là della limitata previsione del comma 2-bis dell'art. 34 (c.p.p.)». Ragion per cui, esordisce il § 4.2, si supera l'ordinanza del 19 febbraio 2007, n. 61, con cui la Consulta aveva dichiarato manifestamente infondata (per mera omissione motiva del giudice a quo) la q.l.c. dell'art. 37, comma 2, c.p.p. – nella parte in cui non prevede che al giudice ricusato sia vietato pronunciare, all'esito dell'udienza preliminare, il d.d.g. – e ci si allinea alla regola stabilita dalle Sezioni Unite Tanzi: la produzione degli effetti secundum eventum ove l'istanza di ricusazione sia stata successivamente rigettata. Corretto, ma solo parzialmente giacché anche per quest'ultimo inciso la condivisione del percorso tracciato (anche) da queste Sezioni Unite non è integrale. Ma si ricorderà solo in seguito la ragione (la si era anticipata all'indomani della ordinanza di rimessione), poiché si è atteso di leggere l'ultima pagina della sentenza per averne un quadro altrettanto (e doverosamente) integrale. Ineccepibile e puntuale, perché va dritto al cuore della questione, è quanto argomentato sub 5: «Nel momento in cui (l'imputato) adduce a sospetto di parzialità il giudice dell'udienza preliminare, ogni attività “decisoria” del iudex suspectus (…) è necessariamente procrastinata in funzione del vaglio delibativo sulla dichiarazione di ricusazione,con l'ulteriore conseguenza che una eventuale richiesta di riti alternativi risulterebbe inibita non solo perché il corretto epilogo decisorio non sarebbe comunque ipotizzabile prima della definitività dell'incidente di ricusazione, ma anche per la decisiva ragione che l'imputato ben difficilmente potrebbe confidare nel giudice da lui stesso addotto a sospetto, conferendogli un potere decisorio “finale” sul merito della regiudicanda e, addirittura, più ampio rispetto a quello connaturale alle alternative tipiche della fase processuale». Proprio e davvero così. Essere e/è apparire imparziali: è il binomio che svela la immanenza del principio sovrano che deve guidare chi giudica. Lo si era già scritto nelle prime battute e lo si ribadisce. Tecnicamente perfetta è, dunque, la prima conclusione cui si giunge al § 5.1: «(…) l'accoglimento definitivo dell'istanza di ricusazione rende il decreto pronunciato dal giudice suspectus affetto da nullità assoluta ex art. 178, comma 1, lett. a), cit., rilevabile, anche officiosamente, in ogni stato e grado di giudizio, per difetto di potere giurisdizionale rispetto allo specifico giudizio in cui “quel” giudice si è pronunciato, senza che possano rilevare (…) i possibili “effetti conclusi” o “esauriti” dell'atto all'interno della fase in cui è stato pronunciato e senza che possa profilarsi, al riguardo, una sorta di “sanatoria di rito” per l'avvenuto transito nella fase dibattimentale». Detto altrimenti, esso «consuma in maniera definitiva ed irreversibile il potere decisorio che il giudice è chiamato ad esercitarvi (…) precludendo per il futuro l'esercizio di analogo potere». Certo. Il d.d.g. «si distingue non soltanto rispetto all'ampia gamma di atti meramente “interlocutori” e processuali che il giudice poi accertato “sospetto” può compiere, ma anche rispetto agli atti “a contenuto probatorio” (…): per essi, dunque, potrà porsi un problema di “conservazione di efficacia” alla stregua della disposizione di cui all'art. 42, comma 2, cit., ferma restando la loro validità, diversamente dal vizio di nullità radicale che può inficiare i “provvedimenti del giudice” ex art. 424, comma 1, cit., vale a dire il decreto che dispone il giudizio e la sentenza di non luogo a procedere». Inciso doppiamente enfatizzato dalla odierna osservatrice e che la medesima non condivide. Sennonché, si legge al § 5.2: «(…) il divieto per il giudice ricusato di pronunciare sentenza ai sensi dell'art. 37, comma 2, cod. proc. pen. è riferibile anche al decreto che dispone il giudizio ed opera sino alla pronuncia di inammissibilità o di rigetto, anche non definitiva, dell'organo competente a decidere sulla ricusazione (…)». Una nuova enfasi rafforzata cui corrisponde un nuovo, personale allontanamento dal tessuto logico-motivo della sentenza. Ecco la ragione: qualsiasi atto, sia esso interinale o, ancor peggio, probatorio, non può e non deve essere pronunciato (né da altri conservato) dal giudice “diffidato”, tantomeno se il suo essere sospetto è stato accertato. Inoltre, se il divieto di emissione del d.d.g. vale anche se la (e fino alla) decisione del giudice della ricusazione non è definitiva, non è da escludere si generi un effetto contrario a quello sperato (e dovuto): avviare la fase cruciale, quella dibattimentale, senza che il sospetto sia stato eliminato in modo definitivo significa avviare e (magari) concludere un procedimento potenzialmente idoneo a essere cassato. Esattamente come quello dei ricorrenti Mangiameli, Schembri e (in parte qua) Gerbino, ritenuto meritevole del più sonoro annullamento senza rinvio. Con annessa perdita di energie mentali, psico-fisiche ed economiche (pure a danno dello Stato, cioè di tutti i contribuenti), “oltre che” di tempo. Proprio quel tempo la cui ragionevole durata è spesso invocata per scoraggiare (anche) l'eccezione del sospetto che, specie quando proviene dall'imputato, è (lo si ammetta)… di portata ostruzionistica sospetta. Sarà per questo che ci si ostina a non voler introdurre la obbligatorietà della sospensione del procedimento. In tal modo – e solo così – si eviterebbe al giudice malvisto di toccare carte delle quali non deve occuparsi. Per nulla e fintanto che il suo virgin state of mind non sia stato riconosciuto. Definitivamente. Solo così chi verrà da lui/lei giudicato sentirà di non essere a priori mal accusato e, chissà, magari infine condannato. Fino ad allora, nessun provvedimento potrà essere da quel giudice emesso. In primis il d.d.g., ma non solo esso. E se tale divieto è stato il frutto di una lettura costituzionalmente orientata del citato art. 37, comma 2 (se ne sarebbe preferita la completa caducazione, la onnicomprensività del divieto per il giudice sospetto restando una personalissima convinzione), forse anche (anzi, soprattutto) dell'art. 41, c. 2, c.p.p, si sarebbe potuto/dovuto attendere simile (e bonaria) “alterazione” per mano del “diritto vivente”. L'additività (implicita) fa spesso il paio con acume, garantismo e fluidità e questo (talvolta accade) nell'animo del giurista genera felicità. E quando la manipolazione (nell'accezione migliore e tecnica del termine) implicita non è, essa “ha” da invocarsi in modo esplicito con una nuova questione di legittimità costituzionale. Confidando in una sorte più benevola di quella che toccò al Pretore di Forlì, s'intende. Quale che sia la meta prefigurata, l'essenza di quanto scritto agli inizi del presente studio rimane invariata: non si nega che, talvolta, l'ostruzionismo si riveli “strategico” e sia (terribilmente) leggibile e palpabile negli atti così come nelle aule. Vero. Ma è solo attraverso le già esistenti sanzioni – si ricordi il disposto dell'art. 44 c.p.p. – che i paventati abusi di cui sopra possono e devono essere evitati e puniti. Non è certo comprimendo il diritto di prevenire il giudizio (latamente inteso), viziato ab origine,che si rende più fecondo il silenzio meditativo di (qualsiasi) camera di consiglio. Dalla sua “fumata bianca” deve venir fuori il miglior prodotto giudiziario che il singolo utente, coinvolto o curioso (la Giustizia è amministrata in nome del popolo italiano), si attende; così come ragionevole è l'aspettativa di chi (la sottoscritta) ritiene (ancora) che un doppio intervento di tipo manipolativo, appunto, da parte della Corte costituzionale, proprio in tema di sospensione obbligatoria del processo anche quando sia presentata (già solo) la dichiarazione di ricusazione, sia la panacea di tutti i mali. L'invariato art. 41, c. 2, c.p.p. così esordisce: Fuori dei casi di inammissibilità della dichiarazione di ricusazione, la corte (…) può disporre, con ordinanza, che il giudice sospenda (…). Ebbene, nel caso di Gerbino, Mangiameli e Schembri (v. sub 1.1 del Ritenuto in fatto), la Corte di Appello di Caltanissetta aveva già dichiarato la inammissibilità della istanza di ricusazione. Per ben due volte. Inammissibilità cui, poi, subentrò… re melius perpensa, l'accoglimento quando ormai il dado era tratto. Risultato: l'abbattimento di quanto era stato inutilmente costruito sulla piattaforma (inesorabilmente instabile) di tutti e tre i gradi di giudizio. Sic! Bella sentenza quella che si commenta, peccato non sia stato compiuto l'ultimo sforzo. Anche perché il passetto da compiere per chiudere il cerchio era breve. Breve davvero. Si legge, infatti, al § 6: «(…) assume un decisivo rilievo (…) non tanto la natura probatoria o meno dell'atto del procedimento, quanto la valorizzazione dei diversi, seppur connessi, profili inerenti, per un verso, all'ampiezza, anche temporale, dei poteri che il giudice ricusato può esercitare una volta presentata la dichiarazione di ricusazione, per altro verso alla corretta individuazione degli effetti dell'accoglimento della ricusazione rispetto al tipo di attività processuale, decisoria o meno, che egli abbia compiuto». Appunto. Se il distinguo che rileva non è tanto quello che riguarda la natura probatoria ma l'intero range temporale entro cui il giudice ricusato non può e non deve pronunciarsi, qualsiasi e si ripete: qualsiasi decisione (il giudice questo fa di mestiere) costui/costei non potrà e non dovrà prendere. Ché, poi, la natura probatoria del d.d.g. era stata persino esclusa dalla Sezione rimettente e invece la natura probatoria del d.d.g. le Sezioni Unite hanno consacrato. In buona sostanza, quel che si pensa si riduce a ciò: molto è opinabile – persino nel meraviglioso mondo del rito – il non licet a qualsivoglia tipo di pronuncia (in questo caso) lo è molto meno. Anzi, non lo è affatto. Ché ancora e, paradossalmente, le Sezioni Unite pur si avvedono del relativo precipitato, esplicitandolo sub § 6.3: «Se la portata applicativa della soluzione indicata nella sentenza Digiacomantonio fosse limitata esclusivamente agli atti probatori compiuti dal giudice astenutosi o ricusato e non investisse anche gli atti di altra natura – come le misure cautelari personali e reali, i negozi processuali, gli atti propulsivi e tutti i provvedimenti a mero titolo esemplificativo indicati nella sentenza Tanzi – si accoglierebbe una lettura non consentita del dato normativo testuale delle richiamate disposizioni di cui agli artt. 37, 41 e 42 cit., con il rischio, paradossale»lo dice lo stesso Estensore (!)«di escludere dall'ambito di applicazione dell'inefficacia una vasta categoria di atti (basti solo pensare ai provvedimenti incidentali in tema di misure cautelari) che potrebbero essere parimenti compromessi dalla mancanza di imparzialità del giudice che li ha adottati». Appunto. Anche perché, si prosegue, «Basti richiamare in tal senso, la costruzione lessicale dell'art. 42, comma 2, cit., la cui formulazione, esaminata assieme al primo comma della medesima disposizione, contiene un riferimento solo generico ad atti precedentemente compiuti dal giudice ricusato o astenutosi, senza individuare alcuna distinzione all'interno della categoria generale, utilizzata nel primo comma, degli “atti del procedimento”». Si aggiunge: «Anche altre disposizioni in tema di ricusazione utilizzano espressioni analoghe, idonee a ricomprendere qualsiasi tipologia di atto: l'art. 41, comma 2 (…), ad esempio, prevede la possibilità di una temporanea sospensione di qualsiasi “attività processuale”, eventualmente limitata al compimento di “atti urgenti”, ma senza stabilire alcuna restrizione del loro ambito a quelli di natura probatoria». Ed è la natura temporanea (oltre che discrezionale) che rivela la frizione principale dell'intero ingranaggio. È lì che, a parer di chi scrive, si inceppa la lancetta dell'orologio. Dell'imputato, più di tutte le altre parti. Pure più del giudice – il quale parte evidentemente non è – ma che pur si dispiace del dubbio (ragionevole?) che incombe sulla sua persona. Quella che giudica chi, solo in apparenza, è altro e diverso da sé. Peraltro, ci si chiede quali atti debbano davvero considerarsi urgenti, la definizione del procedimento penale X, every step by step, essendo urgente… per definizione. Siffatta constatazione è perfino entusiasmante nella sua inappuntabile quanto basica direzione. Ma allora delle due l'una: se la portata applicativa della soluzione indicata nella sentenza Digiacomantonio non è limitata esclusivamente agli atti probatori, lo stop obbligato al giudice ricusato è l'unico strumento per evitare lo iato: quello tra il processo con sospetto incardinato e, sul fronte poi illuminato, scorrettamente proseguito, dunque, erroneamente terminato. Solo la sospensione obbligatoria e ad ampio spettro pone al riparo dagli… eventi (im)prevedibili e fuga il rischio (terribile) che quanto faticosamente compiuto (da/per tutti) degradi in ologramma giudiziario. Già. Ultimo aspetto sul quale le Sezioni Unite si sono pronunciate (v. §§ 8 e 8.1) riguarda la cogenza «di un nuovo intervento regolativo (…) in relazione all'ulteriore profilo attinente al rapporto fra i poteri del giudice della ricusazione che abbia accolto la relativa domanda e quelli del giudice subentrato nel procedimento principale». Ebbene, tenuto conto della «non impugnabilità del provvedimento emesso» ai sensi dell'art. 42, c. 2, c.p.p., l'Estensore richiama nuovamente la sentenza Digiacomantonio che, ancora una volta (ma stavolta prendendone le distanze) «alla luce di una lettura costituzionalmente orientata» di tale norma «ha ritenuto possibile attivare dinanzi al giudice del procedimento principale un nuovo vaglio delibativo circa l'inefficacia degli atti a contenuto probatorio compiuti dinanzi al giudice “sospetto”, in analogia con quanto affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità (…) in tema di astensione e di ricusazione nel processo civile (…)». Infatti, si chiarisce nel § 8.2, «Sotto tale specifico profilo, però (…), la decisione Digiacomantonio modifica radicalmente il meccanismo delineato dal legislatore nel codice del 1988 (…). Il provvedimento adottato al termine della procedura incidentale verrebbe in tal modo ad assumere un carattere meramente “dichiarativo” ed una portata interinale”, quando invece la volontà del legislatore è quella di concludere in tempi brevi e con una decisione definitiva la questione degli effetti derivanti dall'accoglimento dell'astensione o della ricusazione. (…). Dinanzi al “nuovo” giudice del dibattimento (…) potrebbero essere escluse dal fascicolo prove già dichiarate efficaci, con conseguenze pregiudizievoli sulla predisposizione delle strategie probatorie delle parti. Sono stati già sottolineati, infine, i possibili rischi che potrebbero determinarsi per l'immagine di assoluta imparzialità del giudice qualora la portata della soluzione in tal modo indicata dovesse ritenersi limitata esclusivamente agli atti probatori compiuti dal giudice “sospetto” e non investisse anche gli atti di altra natura, come ad esempio le misure cautelari personali e reali (…)». L'immagine del Giudice è la prima cosa che l'individuo osserva, studia ed elabora appena entra nell'universo-mondo del Tribunale. A ciò si unisce la violazione del principio di affidamento con conseguente impatto su «forme e modalità di esercizio di diritti e facoltà la cui piena tutela rischierebbe di non essere adeguatamente garantita dalla riproposizione di un sindacato di merito sui limiti di efficacia di un atto che potrebbe non essere convalidato ex post». Donde (v. § 8.3) la «esigenza di ricondurre integralmente il controllo sugli atti compiuti dal giudice “sospetto” nell'ambito del giudizio incidentale (…) ex art. 40 cod. proc. pen.: modulo procedimentale, questo, che (…) costituisce – anche per la possibilità di svolgimento di una celere e “mirata” attività istruttoria – il naturale alveo di trattazione della relativa delibazione (…)». Giusto. Quel che non sembra (e non è) giusto è che al giudice della procedura incidentale spetti, «qualora la relativa dichiarazione venga accolta, anche l'operazione di controllo selettivo sugli atti che conservano efficacia ai sensi dell'art. 42, comma 2, cit. (…)» (così sub § 8.4). La sospensione obbligatoria eviterebbe una selezione inevitabilmente discutibile; selezione passibile di ulteriore dilatazione temporale proprio perché passibile di impugnazione alla Corte di Cassazione che, “peraltro”, Giudice del merito non è. L'art. 41, c. 3, c.p.p. pur lo prevede… tant'è. Il principio di diritto elaborato sul punto dalle Sezioni Unite è, dunque, il seguente (sub § 8.5): «L'ordinanza che decide sul merito della ricusazione ai sensi dell'art. 41, comma 3, cod. proc. pen. provvede contestualmente a dichiarare, in caso di accoglimento della dichiarazione di ricusazione, se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato devono considerarsi efficaci; contro tale ordinanza è proponibile, anche in caso di omessa pronuncia sulla conservazione della efficacia degli atti, ricorso per cassazione nelle forme dell'art. 611 cod. proc. pen.». Risuona il canto di molti: «Here comes the sun». Proprio il sole che i sospetti – e ciò che nonostante questi è stato (mal) istruito – dissolve. Quasi del tutto ma finalmente. |