È ammissibile la revisione della sentenza definitiva di proscioglimento non pienamente liberatoria?

17 Marzo 2017

La questione attiene alla ammissibilità della richiesta di revisione della sentenza con la quale il giudice dell'impugnazione dichiara non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti del condannato, confermando le statuizioni in favore della parte civile, già pronunciate dal giudice di primo grado.
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La questione attiene alla ammissibilità della richiesta di revisione della sentenza con la quale il giudice dell'impugnazione dichiara non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti del condannato, confermando le statuizioni in favore della parte civile, già pronunciate dal giudice di primo grado.

La revisione, mezzo straordinario di impugnazione concepito dal Legislatore per superare il limite del giudicato ove fatti ad esso successivi dimostrino l'ingiustizia di una sentenza di condanna, è ammessa in ogni tempo – come recita l'art. 629 c.p.p. – a favore dei condannati, nei casi determinati dalla legge e può avere ad oggetto le sentenze di condanna, quelle emesse ai sensi dell'art. 444 c.p.p. nonché i decreti penali di condanna divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o estinta.

Nonostante il riferimento della norma citata sia chiaramente rivolto ai soggetti condannati, fermo restando il divieto di ricorrere alla revisione delle sentenze di proscioglimento, è sorto un contrasto in seno alla giurisprudenza della Corte di cassazione in merito alla possibilità di estendere l'operatività dell'istituto anche alle sentenze di proscioglimento non pienamente liberatorie che, muovendo in ogni caso da un accertamento di responsabilità, contengano statuizioni fortemente pregiudizievoli per il prosciolto, come nel caso della sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione che lasci impregiudicate le statuizioni civili, spesso assai gravose. In casi del genere, il ricorrente mira dunque alla sola caducazione della condanna civilistica, contenuta nella sentenza divenuta ormai definitiva. Le soluzioni, diametralmente opposte, individuate da due diverse sezioni della Corte di legittimità lasciano – ad oggi – aperta la questione, con inevitabili incertezze per le parti processuali che, in base all'orientamento sposato dal giudice adito, rischiano una declaratoria di inammissibilità della eventuale richiesta di revisione presentata per una sentenza di proscioglimento non pienamente liberatoria.

Le sentenze n. 46707 e n. 2656 del 2016. Chiamata a decidere sulla ammissibilità di una istanza di revisione già dichiarata inammissibile dalla Corte di appello di Ancona ex artt. 634 e 629 c.p.p. in quanto proposta avverso una sentenza di proscioglimento (che però confermava le statuizioni in favore della parte civile) la quinta Sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 46707 del 2016 ha ritenuto fondato ed ha accolto il ricorso, introducendo un innovativo principio di diritto in materia di revisione delle sentenze. La Corte, in particolare, ha affermato il principio per cui è ammissibile la richiesta di revisione proposta ai sensi dell'art. 630 c.p.p. comma 1 lett. c) avverso la sentenza del giudice dell'appello che abbia prosciolto l'imputato per intervenuta prescrizione del reato, confermando contestualmente la condanna dello stesso al risarcimento del danno nei confronti della parte civile.

La sentenza 46707/2016 rappresenta, almeno al momento, unica voce dissonante rispetto alla giurisprudenza della Corte di legittimità, consolidata invece nel senso dell'inammissibilità della richiesta di revisione delle sentenze definitive di proscioglimento, anche quando non pienamente liberatorie, come nel caso in esame, in cui il giudice dell'impugnazione, rilevata l'estinzione del reato agli effetti penali, ne confermi poi le statuizioni civili adottate in prime cure (v., ex plurimis, Cass. pen., Sez. VI, 30 novembre 1992, n. 4231; Cass. pen., Sez. V, 2 dicembre 2011, n. 2393; Cass. pen., Sez. III, 3 marzo 2011, n. 24155; Cass. pen., Sez. II, 23 febbraio 2016, n. 8864). In sintesi, le motivazioni addotte dalla sentenza in commento a sostegno della tesi della ammissibilità si fondano essenzialmente sulla attenta lettura del compendio normativo, segnatamente dell'art. 629 c.p.p., il quale, nell'indicare i provvedimenti definitivi soggetti a revisione, farebbe riferimento genericamente alle sentenze di condanna, nonché dell'art. 632 c.p.p., il quale, nell'individuare i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evocherebbe in maniera altrettanto generica la figura del condannato, lasciando spazio – ad avviso della Corte – anche all'imputato condannato (in via definitiva) alle restituzioni e al risarcimento del danno. D'altronde, la condanna dell'imputato al risarcimento del danno nei confronti della parte civile è sempre veicolata da una pronunzia di condanna che presuppone l'accertamento della colpevolezza dell'imputato per il fatto di reato, come stabilito dagli artt. 538 e 539 c.p.p. Attribuendo medesima valenza all'azione penale e all'azione civile esercitata nel processo penale, la sentenza in esame ritiene che non vi sia alcuna differenza tra il fatto di essere convenuti in giudizio in base all'azione penale o in forza dell'azione civile, con la conseguenza che il condannato non ha alcun divieto dall'art. 629 c.p.p. ad ottenere la revisione della sentenza definitiva ai soli effetti civili. Sostiene, ancora, la Corte che ad ulteriore conforto della tesi appena rassegnata militerebbe anche l'analogia tra l'istituto della revisione e quello del ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p., rispetto al quale le Sezioni unite penali, con la sentenza n. 29719 del 2012, hanno affermato la legittimazione del prosciolto condannato agli effetti civili ad esperire il citato rimedio, derivante, per l'appunto, dal generico riferimento della norma de qua alla figura del condannato. Altro argomento a favore della tesi sulla ammissibilità sarebbe fornito dall'art. 576 c.p.p. che, come noto, legittima la parte civile ad impugnare la sentenza di proscioglimento ai soli effetti civili anche quando il P.M. non abbia proposto impugnazione e che conferisce al giudice penale il potere di decidere sul capo della sentenza (ai soli effetti civili) anche in mancanza di precedente statuizione sul punto. In tal caso – si legge in sentenza – la decisione del giudice di appello sarebbe una sentenza di condanna, anche se soltanto agli effetti civili, per la quale il legislatore ammette il rimedio della revisione. A parità di effetti, dunque, sarebbe iniquo e contrario al principio di cui all'art. 3 Cost. concludere che il legislatore abbia di fatto consentito la revisione della condanna per la responsabilità civile nel solo caso dell'art. 576 c.p.p. e non anche in quella di conferma delle statuizioni civili in seguito a proscioglimento agli effetti penali. A nulla varrebbe – sostiene la Corte – ricorrere all'istituto della revocazione civile previsto dall'art. 395 c.p.c., in difetto di una espressa indicazione normativa in tal senso e in virtù del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.

Altra Sezione della Corte di cassazione, quasi contestualmente, aderendo all'orientamento maggioritario, è tuttavia pervenuta alla conclusione diametralmente opposta. Con sentenza n. 2656 del 9 novembre 2016, la seconda Sezione penale, dichiarando l'inammissibilità della revisione in un caso identico, ha enunciato il seguente principio di diritto: poiché la revisione è un mezzo, ancorché straordinario, di impugnazione, anche per essa vale il principio di tassatività di cui all'art. 568, comma 1, c.p.p. ne consegue che, riguardando l'art. 629 c.p.p. soltanto le sentenze di condanna e tenuto conto delle complessive disposizioni che disciplinano l'istituto della revisione, le sentenze che dichiarano la prescrizione non sono assoggettabili a revisione, e ciò anche quando la Corte di Appello o la Corte di Cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione, abbia confermato le statuizioni civili della precedente sentenza, giacché anche in tal caso non si ha una condanna penale. La Corte, invocando il principio di tassatività delle impugnazioni, ha richiamato la giurisprudenza di legittimità che, proprio in materia di revisione, ha escluso la possibilità di sottoporre a tale mezzo di impugnazione: a) le sentenze di applicazione dell'amnistia, altresì quando la Corte di appello o di Cassazione abbiano confermato le statuizioni civili, giacché nemmeno in tal caso si è in presenza di una condanna penale (Cass. pen., Sez. VI, 30 novembre 1992, n. 4231; Cass. pen., Sez. I, 15 aprile 1992, n. 1672); b) le richieste finalizzate ad ottenere non un proscioglimento ma un trattamento sanzionatorio meno afflittivo o una dichiarazione di responsabilità per un diverso e meno grave reato (Cass. pen., Sez. VI, 3 marzo 2008, n. 12307).La revisione, pertanto, può essere esperita esclusivamente se gli elementi addotti siano tali da condurre al proscioglimento del condannato, ai sensi degli artt. 529, 530 e 531 c.p.p., come sancito anche dalla Corte costituzionale con sentenza n. 113 del 2011.

Il principio di tassatività delle impugnazioni, unitamente al carattere straordinario dell'istituto della revisione e alla necessità di interpretazione letterale delle norme in materia, rendono assai difficoltoso risolvere il quesito che, con molta probabilità, sarà presto deferito alle Sezioni unite.

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