Il dilemma del prigioniero: presunzione di res illicita vs confisca coûte que coûte. Le Sezioni Unite a una svolta?

21 Maggio 2021

La proclamata adesione all'insegnamento delle Sezioni Unite “Lucci”, non porta (sempre) i frutti sperati: un rinnovato filone interpretativo prende le mosse dal consolidato orientamento formatosi intorno al tema della c.d. “confisca diretta del valore corrispondente”, ma finisce per discostarsene, almeno parzialmente, nel tentativo di conciliare con la prassi il diritto dell'indagato di “difendersi provando”. In tale prospettiva si perpetua – sempre più debolmente – l'idea di una confisca-diretta sganciata dal criterio-guida della pertinezialità...
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La proclamata adesione all'insegnamento delle Sezioni Unite “Lucci”, non porta (sempre) i frutti sperati: un rinnovato filone interpretativo prende le mosse dal consolidato orientamento formatosi intorno al tema della c.d. “confisca diretta del valore corrispondente”, ma finisce per discostarsene, almeno parzialmente, nel tentativo di conciliare con la prassi il diritto dell'indagato di “difendersi provando”. In tale prospettiva si perpetua – sempre più debolmente – l'idea di una confisca-diretta sganciata dal criterio-guida della pertinezialità, quest'ultimo abdicato in favore di una nozione (civilistica) ormai ‘eccessivamente usurata: la fungibilità del denaro. Quando infatti la confisca diretta attinge beni non-pertinenti al reato vengono alla luce le “esternalità negative” di un siffatto approccio ermeneutico: fra tutte, le presunzioni assolute di creazione giurisprudenziale. Nella ricerca di un (precario) equilibrio, le distorsioni applicative rischiano tuttavia di infrangere precetti costituzionali fondamentali per la materia penale, esponendo la “confisca diretta” a inevitabili censure anche sul terreno delle garanzie convenzionali. La questione rimessa alle Sezioni Unite offre l'occasione per un graduale – ma improrogabile – superamento dell'orientamento ad oggi consolidato.

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Se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi finalizzato alla confisca diretta del prezzo o del profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la "prova" della derivazione del denaro da un titolo lecito.

A distanza di alcuni anni dalla sentenza “Lucci” le Sezioni Unite sono nuovamente chiamate a (ri)calibrare i confini applicativi della confisca diretta nella particolare ipotesi in cui il profitto del reato sia rappresentato da somme di denaro, giacenti su conto corrente bancario.

Ci si chiede, in particolare, se i principî enunciati in quella sede (cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617) – e che, per stessa ammissione del rimettente, non richiederebbero un superamento – possano tuttavia «essere definiti ulteriormente nella loro portata, conformati, esplicitati nel senso di ritenere che il denaro può essere attinto con il sequestro finalizzato alla confisca diretta solo nei casi in cui:

a) risulti che la somma sia proprio quella che è derivata immediatamente e direttamente dal reato;

b) ovvero, si tratti di denaro che, per mero valore, corrisponda al profitto del reato (è l'ipotesi, come quella in esame, di denaro sequestrato sui conti correnti movimentati) in virtù di una presunzione semplice, non superata da una "prova" contraria cautelare: la parte interessata può, cioè, fornire elementi idonei ad escludere la presunzione e dimostrare che su quel conto siano giacenti, in tutto o in parte, somme aventi origine da un titolo lecito in relazione alle quali si può escludere ogni rapporto di derivazione con il reato».

Il contrasto giurisprudenziale – come si evince dall'ordinanza di rimessione – prende le mosse da talune successive decisioni, in apparenza asimmetriche rispetto al principio affermato dalla sentenza "Lucci" secondo la quale, invece, ciò che rileva, ai fini del sequestro diretto del denaro, è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute (del prezzo o) del profitto del reato e che proprio siffatto accrescimento legittimerebbe la confisca diretta (del relativo importo) ovunque o presso chiunque esso sia custodito nell'interesse del reo.

In tale prospettiva la prova della percezione illegittima della somma, della esistenza del c.d. “numerario” – comunque accresciuto di consistenza – apparirebbe di per sé sufficiente a giustificare l'adprehensio diretta del denaro, manifestandosi del tutto irrilevante l'eventuale movimentazione correntizia e, quindi, del tutto superflua ogni indagine sul terreno della causalità/pertinenzialità rispetto al reato.

Ebbene, in parziale continuità – ma evidentemente animate da un afflato autopoietico “correttivo” – si pongono invece alcune successive sentenze ove la difficoltà, fatta propria dall'interprete nomofilattico ordinario, emerge proprio nel tentativo di coniugare con la prassi i principî della sentenza "Lucci" allorquando sia evidente che il denaro oggetto del sequestro non derivi dal reato bensì da un titolo lecito. Vi si osserva infatti che – ove concretizzata – la prova circa l'alterità del denaro, rispetto al prezzo o al profitto del reato, renderebbe sì sequestrabile il patrimonio, ma solo in funzione della confisca di valore (se consentita) e senza alcuno spazio applicativo per la confisca diretta.

Ora, alla luce di siffatti arresti – volendo così cogliere il nucleo l'ordinanza – occorrerebbe in definitiva chiarire se, ai fini del sequestro e della confisca diretta, la fungibilità del bene esenti sempre dalla prova che il denaro sia "collegato" al prezzo o profitto del reato ovvero configuri solo una presunzione ad hominem, e quindi superabile dalla prova contraria.

Sotto questo profilo il Collegio rimettente, che a prima impressione non sembra rendere criptico il proprio orientamento, si dichiara ben consapevole dei rischi (costituzionali e convenzionali) connessi alle presunzioni assolute, soprattutto se correlate alla confisca diretta:

«Il problema é se sia possibile una conformazione, una definizione dei "confini" dei principi affermate dalle Sezioni unite con la sentenza "Lucci" in ragione del diritto di difendersi "provando" da parte dell'indagato e della esigenza, nel rispetto degli artt. 25 e 27 Cost. e artt. 6 e 7 CEDU, di non attribuire natura punitiva alla confisca diretta, snaturandone in tal modo natura giuridica, funzione, statuto. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione l'applicabilità del principio di legalità penale in tema di confisca é conseguente alla valutazione della natura giuridica dell'ablazione, nel senso che se la confisca assolve ad una funzione afflittivo - punitiva, la stessa é sostanzialmente una pena, nel senso convenzionale del termine, e, dunque, il soggetto che la subisce deve potere godere delle garanzie di cui agli artt. 25 e 27 Cost., artt. 6 e 7 CEDU, e art. 2 c.p.».

Si tratta di preoccupazioni condivisibili che meritano senz'altro di essere approfondite, non prima - però - di aver chiarito un nodo fondamentale e preliminare.

L'aspetto, per quanto qui di interesse, maggiormente controverso della sentenza “Lucci” – sotto questo profilo tributaria della “Gubert” (dopo aver ricordato i diversi orientamenti giurisprudenziali in materia le Sezioni unite “Lucci” hanno espressamente dichiarato «di aderire, nella sostanza, alla impostazione fatta propria dalla sentenza Gubert» del 30 gennaio 2014, n. 10561) – si sostanziava nell'avere, di fatto, annichilito il canone della pertinenzialità (condizione indefettibile per la confisca diretta!) attraverso l'evocazione e l'uso strumentale dell'elemento “fungibilità: qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato fosse stato rappresentato dal denaro - si argomentava - la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario: a) avrebbe dovuto essere qualificata in termini di confisca diretta e, b) in considerazione della natura fungibile del bene, non avrebbe richiesto alcuna prova del nesso di derivazione tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato stesso.

Ebbene, le prime – ma non nuove (rimando a F. MUCCIARELLI, C.E. PALIERO, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 4/2015, p. 246 e ss.) – perplessità in ordine a siffatta impostazione emergono anzitutto in relazione alla strumentalizzazione semantica del concetto di fungibilità che – evocato, e intuibilmente avversato, dal rimettente – a ben vedere, persiste tuttavia nel ragionamento della Corte, costituendone, in ultima analisi, il presupposto logico.

Occorre pertanto ribadire anzitutto che il limite del ricorso al ‘criterio' della fungibilità risiede nel fatto che tale concetto, inerendo unicamente una qualità della res (in quanto suo attributo specifico), nulla aggiunge circa il nesso di pertinenzialità: quest'ultimo, infatti, implica come noto un giudizio di ‘relazione' sulla cosa, rispetto al quale la nozione di fungibilità non è in grado di assumere alcuna valenza euristica.

Una seconda critica, complementare alla prima, potrebbe essere rivolta verso l'eccessiva valorizzazione – da parte delle Sezioni Unite – del momento acquisitivo del profitto (fase genetica e come tale ‘nucleare'), a discapito della sua successiva ed ‘effettiva' individuazione (fase viceversa ‘generica', purtroppo e come tale ‘olistica': ovvero l'ablazione) allorquando si afferma che «una volta entrato, il denaro illecito si confonde con quello lecito». Un tale approccio rischia infatti di confondere la condotta (endogena al Tipo) con il profitto (evento, sì, in senso tecnico, ma esogeno rispetto al Tipo in quanto mero “oggetto della misura/pena”) annichilendone il rapporto di causa-effetto.

Su questo, i dubbi dell'ordinanza appaiono fondati.

Ciò che, in effetti, legittima la confisca diretta – in quanto misura di sicurezza – non è tanto il fatto che “una” locupletazione venga provata (o, quantomeno, ipotizzata per indizi): ciò che conta è, invece, che proprio “quella” locupletazione sia causalmente ricondotta – eventualmente anche in via mediata, ma pur sempre riconducibile – alla commissione del reato contestato.

Quando, tuttavia, quest'ultima soluzione si appalesasse impossibile – vuoi, aprioristicamente, in ragione del fatto che - indubbiamente - il denaro è per sé ‘fungibile', vuoi perché, in concreto sia stato disperso (o addirittura distrutto), vuoi infine perché immediatamente reinvestito – le norme invocabili impongono, secondo una logica classificatoria: aut aut, che l'unica alternativa praticabile, ove prevista, sia solo e soltanto la confisca per equivalente.

La strada per l'introduzione di una “terza” ipotesi di confisca appare dunque già in astratto sbarrata: nessuna operazione ermeneutica (neppure di fonte giurisprudenziale) potrebbe mai autorizzare – lo si rimarca: in assenza di riferimenti normativi – l'impiego di una pena (la confisca per equivalente) “come se” fosse una misura di sicurezza (la c.d. confisca diretta del valore corrispondente al profitto). Il perimetro della “truffa delle etichette”, storicamente, la più paradigmatica, verrebbe così occupato in modo ingombrante.

Diversamente opinando si incorrerebbe in molteplici errori: vediamone alcuni.

Il primo, macroscopico, caveat lo si ricava dal formante giurisprudenziale convenzionale che con approccio sostanzialista – peraltro già ampiamente collaudato in tema di confisca (tra le altre, Varvara c. Italia, 29 ottobre 2013; Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, 20 gennaio 2009; G.I.E.M. s.r.l. e altri c. Italia, 28 giugno 2018) – non tarderebbe di certo a stigmatizzare l'afflittività (rectius: il carattere ‘punitivo') di una misura che, soprattutto nelle ipotesi obbligatorie, colpisse indiscriminatamente il patrimonio del reo (dell'indagato in caso di sequestro) ancorché - surrettiziamente - sub specie di confisca diretta.

La nozione di «pena» contenuta nell'articolo 7 § 1 della Convenzione ha infatti una portata autonoma tale da consentire alla Corte di poter ‘andare oltre' le apparenze e valutare essa stessa se una particolare misura costituisca, nel merito, una «pena». Tra i criteri determinanti, ma non esclusivi: a) la una condanna per un «reato» anche se la sua assenza non basta per escludere l'esistenza di una «pena» (G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia, §§ 215-219); b) la natura e lo scopo della misura in questione (in particolare il suo scopo repressivo); (c) le procedure associate alla sua adozione e alla sua esecuzione, nonché la sua gravità (sempre G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia, § 211; Welch c. Regno Unito, § 28; Del Río Prada c. Spagna, § 82).

Ma non è tutto.

La creazione per via giurisprudenziale di una tertium genus (la c.d. “confisca diretta del valore corrispondente”) – che estenda, di fatto, l'applicazione della confisca per equivalente – apparirebbe unicamente giustificata dalla difficoltà che incontra nella prassi l'applicazione della confisca diretta proprio nelle ipotesi in cui la confisca di valore non fosse prevista. Lo scopo – neppure troppo implicito – di una tale opzione ermeneutica appare dunque ispirato da un marcato intento politico-criminale: dotare la misura di sicurezza patrimoniale di una maggiore afflittività proprio nei casi in cui la confisca diretta restasse tout court insoddisfatta; vuoi perché i beni attinti dal sequestro/confisca non pertengono al reato; vuoi per l'assenza di una previsione di legge che ne legittimi la confisca per equivalente.

Eppure – anche al netto delle sollevate censure – la pretesa iper-afflittività avrebbe un costo del tutto insostenibile, soprattutto per ragioni di (il)legittimità costituzionale: ed è proprio qui che, a mio parere, deflagrano alcune contraddizioni sopite e mai risolte.

Cerco di chiarire.

A ben vedere, lo schema di confisca sottoposto dall'ordinanza di rimessione allo scrutinio delle Sezioni Unite ricalca, nei suoi tratti essenziali, un modello già tipizzato nel nostro ordinamento e da ultimo confluito anche nell'art. 240-bis c.p. introdotto, come noto, con la delega attuativa della riserva di codice in materia penale.

Secondo l'ultima novella, con riguardo a un tassativo catalogo di reati, sarebbe infatti «sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo».

Il meccanismo delle presunzioni appare, dunque, tutt'altro che estraneo al mondo della confisca e, in tale ottica, il ricorso alla prova contraria non può certo stupire né incontrare particolari resistenze: insomma, la risposta al quesito non può che essere positiva, nel senso di poter in ogni caso elidere il sequestro finalizzato alla confisca diretta in presenza di una prova di liceità del patrimonio attinto.

E, d'altra parte, un'opinione contraria comporterebbe per la generalità dei casi un trattamento addirittura deteriore rispetto a quello previsto nell'art. 240-bis c.p.: in quel caso, infatti, la confisca del denaro di cui il reo non potesse giustificarne la provenienza opererebbe (solo per taluni reati e comunque) esclusivamente nei casi di c.d. ‘sproporzione', quando cioè il valore confiscabile apparisse «sproporzionato» rispetto al «reddito dichiarato» o alla «propria attività economica».

Nella vicenda rimessa alle Sezioni Unite, invece, la presunzione (quand'anche -auspicabilmente -‘relativa') opererebbe indiscriminatamente nei confronti dell'indagato per il solo fatto di non potere (o, più semplicemente: di non poter riuscire) a dimostrare la provenienza lecita del denaro. Circostanza, questa, tutt'altro che infrequente anche per cause non imputabili al reo.

Ci si avvede allora di una conseguenza inevitabile: la confisca diretta del “valore corrispondente al profitto” – anche nell'editio mitigata dalla previsione di una prova contraria – altro non sarebbe che l'applicazione

a) analogica

b) in malam partem

c) di una norma speciale.

Sotto questo profilo si comprende allora come il pur auspicabile correttivo – immaginato nella possibilità di superare la presunzione assoluta – appare purtroppo insufficiente. Infatti, quand'anche si desse per dimostrata (e non lo è) la presenza di lacune, giammai potrebbe legittimarsi l'estensione analogica della confisca di valore senza al tempo stesso vulnerare i principî generali dell'ordinamento, prima ancora di quelli penal-costituzionali.

Occorre dunque chiedersi – a questo punto – se sia invece possibile rispondere al quesito che investe le Sezioni Unite senza tuttavia (ri)mettere in discussione le premesse del ragionamento posto alla base della sentenza “Lucci”.

Anche qui individuo una seconda contraddizione.

Le sentenze richiamate – e l'ordinanza in commento – distinguono nettamente sul piano formale le due ipotesi di confisca, assegnando correttamente a ciascuna di loro un diverso scopo: esclusivamente special-preventivo (per la confisca diretta), stricto sensu puntivo (per la confisca di valore).

Ma vi è di più: la diversità strutturale tra le due ipotesi di confisca non si limita infatti esclusivamente alla reciproca differenza di scopi riflettendosi, invece, con maggiore forza su un piano ulteriore e dirimente per l'applicazione della confisca: il suo statuto epistemologico.

La misura di sicurezza in senso stretto, infatti, diversamente dalla confisca di valore, opera – anzi, potremmo dire, ‘(ri)conosce' il proprio oggetto – secondo un paradigma nomologico-deduttivo (la causalità) che non solo costituisce il fondamento - e non è poco - della legittimità dell'ablazione, ma ne orienta altresì l'attività di ricerca, sul terreno proprio – qui rilevante – della ‘ricerca della prova' e del suo pendant argomentativo: la motivazione cautelare.

In quest'ottica, allora, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del denaro non potrà mai estendersi indiscriminatamente a tutti i cespiti attivi nella disponibilità dell'indagato ma dovrà sempre essere il risultato della selezione di quelli soltanto causalmente correlati al reato, eventualmente ‘scartando' quelli di presunta provenienza lecita: solo per questa via, la comprovata impossibilità di fronteggiare un tale onere giustificherebbe l'accesso alla confisca di valore e, anzi, ne costituirebbe il presupposto di legittimità.

Ma allora, proprio in questa prospettiva, il superamento dello schema presuntivo iuris et de iure almeno in qualche misura (decideranno le Sezioni Unite quale) non terrà del tutto al riparo la Suprema Corte da un inevitabile disallineamento dalla sentenza “Lucci” (sub specie, almeno, di una rivisitazione del suo rationale di fondo). Ciò,nella misura in cui il correttivo garantista (la prova contraria) appare pur sempre destinato a operare sul terreno della causalità, così ponendo in discussione l'assioma originario: in altri termini, accedendo all'auspicata soluzione, la ‘confisca diretta' non avrà luogo se, e in pratica solo se,l'indagato riuscirà a provare l'insussistenza di un nesso causale tra il denaro sequestrato e il reato contestato. Inevitabile, per questa via, che il nesso di pertinenzialità riacquisti – seppur indirettamente – il suo primario e indefettibile ruolo all'interno della confisca diretta immunizzando l'interprete, foss'anche solo interinalmente, dal rischio di interpretazioni analogiche. Già solo per tale ragione il superamento della presunzione assoluta sarebbe da accogliere come un prezioso risultato.

Per concludere.

L'ordinanza di rimessione si fa carico – così onerando le Sezioni Unite – di risolvere una questione dirimente.

Quando la confisca-diretta travalichi la sua portata afflittiva tipica (necessaria ad ottenere l'effetto special-preventivo cui è preordinata) essa assume natura punitiva: se – alterando lo schema della legalità – lo statuto epistemologico della misura di sicurezza si emancipa dal paradigma euristico della causalità si finisce inevitabilmente per attribuire alla confisca – al di là della succedanea qualificazione formale – natura giuridica di "pena", nel senso costituzionale e convenzionale del termine (artt. 25, 27 e 111 Cost. e artt. 6 e 7 CEDU).

Questo fenomeno – maldestramente generato da un'istanza politico-criminale (la pretesa iper-validità della confisca diretta) – dimostra dunque una natura patologica: come lucidamente premonizzato dal Giudice rimettente, nella prospettiva de iure condendo, il tertium genus di confisca apparirebbe infatti estraneo, sia alla struttura, sia alla funzione tipica della misura di sicurezza che, per tali ragioni, finirebbe col risultare disnomica oltreché abnorme rispetto allo scopo.

Dall'altro lato, però, la rinuncia tout court al meccanismo delle presunzioni legali sortirebbe l'effetto insperato (e dunque avversato) di comprimere ulteriormente le garanzie costituzionali che presidiano il diritto dell'indagato di difendersi provando.

Le Sezioni Unite si ritrovano, insomma, innanzi a un classico della teoria dei giochi: nella ricerca di equilibrio sistemico, non sempre la scelta più razionale coincide con quella maggiormente efficiente.

2.

La Sesta sezione della Suprema Corte, con ordinanza n. 7021, depositata il 23 febbraio 2021 (ud. 17 novembre 2020), ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione controversa:

se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi finalizzato alla confisca diretta del prezzo o del profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la "prova" della derivazione del denaro da un titolo lecito.

3.

Il Primo Presidente della Cassazione ha fissato per il 27 maggio 2021 la discussione davanti alle Sezioni Unite della questione controversa in giurisprudenza:

se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi finalizzato alla confisca diretta del prezzo o del profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la "prova" della derivazione del denaro da un titolo lecito.

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