Sulla legittimità o meno della commercializzazione di cannabis sativa L

Emilia Conforti
20 Settembre 2019

«Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa».
1.

Con ordinanza n. 8654 emessa, in data 8 febbraio 2019, dalla IV Sezione Penale della Corte di Cassazione le Sezioni Unite della Suprema Corte sono chiamate a intervenire sul contrasto inerente la commercializzazione della cannabis sativa e, in particolare, a chiarire se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa – delle varietà di cui al catalogo indicato nella l. 2 dicembre 2016, n. 242, art. 1, comma 2 – concernenti dunque, la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa, infiorescenze e resine, rientrino o meno nell'ambito di applicabilità della predetta legge e, ai sensi di tale normativa, siano penalmente irrilevanti.

La questione involge la più ampia tematica della rilevanza penale della coltivazione della “cannabis” rispetto a cui, nel tempo, si sono registrati numerosi interventi giurisprudenziali che, nel confermare la punibilità della condotta, hanno affrontato differenti profili della disciplina vigente in materia di stupefacenti fra cui, ad esempio, il rapporto fra la condotta di coltivazione e l'uso personale, quest'ultima penalmente irrilevante, la disciplina della coltivazione finalizzata alla produzione di sostanza stupefacente, la gestione del sistema tabellare introdotto a partire dalla l. 396/1923.

In tale complesso sistema, si inserisce la legge 2 dicembre 2016 n. 262 che sancisce per le varietà ammesse - iscritte nel Catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole denominata “Cannabis sativa L"- la non applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti.

In buona sostanza, nel caso di coltivazione di queste piante, caratterizzate da un baso dosaggio di THC, comunque non superiore a 0,6%, rispetto all'art 73 T.U. n. 309/1990, il fatto non sussiste.

La tesi negativa restrittiva: la commercializzazione della marijuana e dell'hashish derivati dalla coltivazione di cannabis sativa L che presentino un effetto drogante rilevabile integra gli estremi del reato di cui all'art. 73d.P.R. 309/1990.

La posizione ermeneutica in esame sostiene, in particolare, che la l. 242/2016 non ha introdotto il principio di liceità delle condotte di detenzione e cessione della marijuana e dell'hashish che, pertanto, continuano ad essere penalmente rilevanti anche quando hanno ad oggetto sostanze provenienti da coltivazioni autorizzate là dove si tratti di sostanze che presentino un effetto drogante rilevabile.

Di conseguenza, la commercializzazione delle predette sostanze, sempre che presentino un effetto drogante rilevabile, integra tuttora gli estremi del reato di cui al d.P.R. 309/1990, art. 73, che, pertanto, in parte qua non è stato abrogato.

Le pronunce che esprimono questo orientamento (Cass. pen., Sez. VI, n. 56737/2018, Cass. pen., Sez. IV, n. 34332/2018, Cass. pen., Sez. VI, n. 52003/2018) affermano, infatti, la normativa in esame disciplina esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola, alle condizioni ivi indicate e soltanto per i fini commerciali elencati dall'art. 1, comma 3, tra i quali non rientra la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina.

Alla base della posizione in esame si pongono due diversi ordini di argomentazioni rappresentate, in primo luogo, dalla ratio della l. 242/2016 ed, in subordine, dal tipo di rapporto che si ritiene sussistente fra tale legge ed il D.P.R. 309/1990 .

L'individuazione del tipo di rapporto appare, invero, necessario da delineare in quanto la cannabis sativa L, nella parte in cui risulta contenente il principio attivo delta-9-THC ha, infatti, natura di sostanza stupefacente, ai sensi del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 14, come modificato dal d.l. 20 marzo 2014, n. 36, art. 1, comma 3, convertito in l. 16 maggio 2014, n. 79, poiché l'allegata tabella II include la cannabis in tutte le sue possibili varianti e forme di presentazione e tutti i preparati che la contengano.

Inoltre, i valori di tolleranza di THC consentiti dalla l. 242/2016, art. 4, comma 5, (0,2-0,6%) si riferiscono solo al principio attivo rinvenuto sulle piante in coltivazione e non al prodotto oggetto di commercio.

Di conseguenza, la detenzione e commercializzazione dei derivati della coltivazione disciplinata dalla predetta legge, costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish), rimangono sottoposte alla disciplina di cui al d.P.R. 309/1990.

Ciò posto e venendo al primo profilo, deve rilevarsi che, secondo la posizione in esame, la normativa in esame si riferisce esclusivamente alla condotta di coltivazione e, pertanto, non ha avuto l'effetto di ridefinire la natura di stupefacente dei derivati della coltivazione.

La coltivazione, invero, è considerata attività consentita esclusivamente per le finalità espressamente e tassativamente indicate dalla l. 242/2016, all'art. 1, comma 3, dal novero delle quali esula il commercio delle infiorescenze e della resina.

Inoltre, deve evidenziarsi che dai lavori preparatori della l. 242/2016, non emerge la volontà del legislatore di consentire la commercializzazione della marijuana e dell'hashish provenienti dalle coltivazioni lecite di cui alla suddetta legge.

Si osserva, infatti, in tal senso che nella relazione del Servizio Studi del Senato della Repubblica si dà atto che la normativa è volta alla promozione della coltivazione della canapa, mediante la creazione di una filiera nazionale, e che il parere espresso dalla XII Commissione (Affari sociali) è stato seguito nella parte in cui si esprimeva in senso contrario alla modifica del d.P.R. 309/1990.

Il testo definitivo della legge ha, dunque, lasciato invariato il d.P.R. 309/1990, e le relative tabelle e, di conseguenza, come anticipato, la cannabis sativa L è tuttora classificata fra le sostanze stupefacenti, rientrando nella tabella II.

Inoltre, la legge contempla un elenco, ritenuto tassativo, indicativo dell'utilizzo e delle finalità della canapa nel quale non rientra quella di consentire la commercializzazione di hashish e di marijuana.

Quanto poi al secondo profilo argomentativo ed in particolare ai rapporti fra il d.P.R. 309/1990 e la l. 242/2016 si ritiene che tali rapporti debbano ricostruirsi in termini di regola- eccezione, dovendosi stabilire quale sia l'ambito applicativo del regime delineato dalla legge del 2016, da considerarsi derogatoria di un principio generale e, pertanto, insuscettibile di applicazioni analogiche.

Secondo tale impostazione, quindi, il D.P.R. 309/1990 nel disciplinare la materia delle sostanze stupefacenti deroga all'ordinario criterio secondo il quale, nell'ordinamento, le norme incriminatrici costituiscono tassative eccezioni rispetto alla generale libertà di azione di ogni soggetto, ragion per cui eventuali ridimensionamenti della loro portata precettiva, come quello operato dalla l. 242/2016, si traducono in fisiologiche espansioni delle libertà individuali.

Tuttavia, si osserva che, nel caso di specie, la questione da porsi non sarebbe quella di stabilire se il commercio della cannabis proveniente dalle coltivazioni lecite, che non necessitano di autorizzazione, esuli o meno dalla disciplina dettata dal d.P.R. 309/1990, ma se quest'ultima disciplina possa o meno riguardare la commercializzazione di prodotti dei quali è riconosciuta la liceità.

Nel caso della disciplina degli stupefacenti, infatti, si sostiene che la regola non sia quella della libertà dell'individuo ma della illiceità delle condotte contemplate dal D.P.R. 309/1990.

Dunque, il criterio di disciplina delle due leggi costituito dal rapporto “regola – eccezione”, secondo cui la norma che incrimina rappresenta una eccezione alle generali libertà di azione dell'individuo, che nel nostro sistema normativo – salvi i limiti previsti dall'art. 42 Cost., per l'iniziativa economica privata - non sono funzionalizzate a finalità pubblicistiche e restano espressioni individuali della persona, trova in questo ambito una peculiare applicazione atteso che il combinato disposto del d.P.R. 309/1990, artt. 17, 73 e 75, pone, in via generale, il principio della illiceità delle condotte di detenzione per la vendita, cessione e commercializzazione delle sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle di cui all'art. 14.

Tale ultima disposizione prevede, a sua volta, l'inserimento nella tabella II della "cannabis e dei prodotti da essa ottenuti" e quindi, come anticipato, anche della cannabis sativa L. ragion per cui si ritiene che il divieto esiste e che abbia carattere generale.

Tanto più, si evidenzia, che il principio della liceità della coltivazione della cannabis esclusivamente per uso industriale era già presente nel sistema, in quanto il d.P.R. 309/1990, art. 26, l'ammetteva soltanto per la produzione di fibre e per altri usi industriali, consentiti dalla normativa dell'Unione Europea.

Deve, pertanto, concludersi che ove si ritenga che la l. 242/2016 si collochi nel solco di tale indirizzo normativo, la commercializzazione di hashish e di marijuana risulti del tutto estranea all'ambito di applicabilità della legge.

La tesi positiva ampliativa: la commercializzazione della marijuana e dell'hashish derivati dalla coltivazione di cannabis sativa L che presentino un effetto drogante rilevabile, non integra gli estremi del reato di cui all'art. 73d.P.R. 309/1990.

La posizione in esame muove dall'assunto secondo il quale la legge del 2016 è finalizzata a promuovere i prodotti della "filiera agroindustriale della canapa" , di conseguenza deriverebbe dalla natura della stessa legge che i prodotti di tale canapa siano commercializzati.

Le pronunce che hanno sostenuto tale posizione (Cass. pen., Sez. VI, n. 4920/2018, dep. 2019, Castignani) concludono, quindi, nel senso che, ove sia incontroverso che le infiorescenze sequestrate provengano da coltivazioni lecite ex l. 242/2016, è esclusa la responsabilità penale sia dell'agricoltore che del commerciante, anche in caso di superamento del limite dello 0,6%, essendo quindi ammissibile soltanto un sequestro in via amministrativa, a norma della l. 242/2016, art. 4, comma 7.

La l. 242/2016, infatti, si rivolge ai produttori e alle aziende di trasformazione senza menzionare le attività successive semplicemente perché, si sostiene, non vi è nulla da disciplinare riguardo ad esse , posto che la liceità della coltivazione della cannabis, alla stregua della l. 242/2016, determina come naturale conseguenza la liceità dei suoi prodotti, contenenti un principio attivo inferiore allo 0,6%, poiché essi non possono più essere considerati, ai fini giuridici, sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del d.P.R. 309/1990.

In particolare, la posizione in esame, osserva quanto alla ratio ed alle finalità della legge 242/2016, che la disciplina ivi contenuta contempla delle previsioni da cui emerge il sostegno e la promozione della coltura della canapa finalizzata alla produzione di alimenti.

In particolare, il riferimento è all'art. 2, comma 2, che stabilisce espressamente che dalla canapa coltivata è possibile ottenere alimenti, sia pure prodotti nel rispetto delle discipline di settore.

A sua volta, l'art. 5, rinvia a un decreto del Ministro della salute, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, la definizione dei livelli massimi di residui di THC ammessi negli alimenti, mentre l'art. 9, assegna al Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali il compito di promuovere il riconoscimento di un sistema di qualità alimentare per i prodotti derivati dalla canapa, ai sensi dell'art. 16, par. 1, lett. b) o c) del regolamento (UE) n. 1305/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 dicembre 2013.

Nell'ottica del legislatore del 2016 la fissazione del limite dello 0,6% di THC rappresenta, quindi, un ragionevole punto di equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e quelle inerenti alla commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni.

La percentuale dello 0,6% di THC costituisce, infatti, il limite minimo al di sotto del quale i possibili effetti della cannabis non possono essere considerati, sotto il profilo giuridico, psicotropi o stupefacenti.

Di conseguenza, il rapporto fra la legge del 2016 ed il d.P.R. 309/1990 deve essere ispirato al principio di non contraddizione.

Si osserva, infatti, che se, ai sensi della l. 242/2016, art. 1, comma 2, la coltivazione di canapa delle varietà ammesse, iscritte nel catalogo indicato dalla predetta norma, esula dall'ambito di applicazione del d.P.R. 309/1990, e se il consumo umano, e quindi la commercializzazione, di prodotti alimentari contenenti THC rientra nel predetto ambito di piena liceità, sembrerebbe contraddittorio ritenere vietata la detenzione, cessione e vendita di derivati della cannabis provenienti dalle coltivazioni contemplate dalla l. 242/2016.

2.

Con ordinanza n. 8654, depositata il 27 febbraio 2019, la Cassazione penale, Sez. IV, ha rimesso alle Sezioni unite la seguente questione controversa:

«Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa».

3.

Il Primo Presidente della Cassazione ha fissato per il 30 maggio 2019 la discussione davanti alle Sezioni Unite della questione:

«Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, la commercializzazione di cannabis sativa L, rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa»

4.

Nell'udienza del 30 maggio 2019 le Sezioni Unite Penali della Suprema Corte hanno affermato che:

«la commercializzazione di cannabis sativa L, e in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicazione della l. n. 242/2016, che qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varianti iscritte nel Catalogo comune della specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».

5.

Con motivazione depositata in data 10 luglio 2019, le Sezioni Unite, nel dirimere il contrasto interpretativo illustrato, hanno aderito all'orientamento restrittivo delle posizioni che avevano delineato il contrasto interpretativo analizzato.

La Suprema Corte - pur precisando la possibilità per il legislatore di determinare una diversa regolamentazione valoriale del settore che involge la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L., nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali – considerando che la novella del 2016 promuove la coltivazione di piante oleaginose e da fibra, le quali rientrano, prima facie, tra quelle di cui, in Italia, il d.P.R. 309/1990 vieta la coltivazione, ai fini della risoluzione della questione interpretativa rimessa alla propria attenzione ha ritenuto necessario procedere al coordinamento dei dati normativi di riferimento, utilizzando gli ordinari strumenti euristici, senza la necessità di sollevare alcun incidente di costituzionalità, procedendo all'analisi del sistema normativo e, in tale ambito, valorizzando la ratio delle disposizioni rilevanti.

In particolare, quanto al d.P.R. 309/1990 - che delinea il regime repressivo e sanzionatorio degli stupefacenti in relazione alle norme che regolano la coltivazione della cannabis - la Suprema Corte ha scandito la propria analisi valorizzando il sistema tabellare, la nozione legale di stupefacente e l'unicità dell'eccezione al delineato sistema repressivo costituita dall'art. 26, comma 2, del T.U. stupefacenti nel cui ambito rientra anche la novella del 2016 finalizzata, come vedremo, a promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della canapa.

Segnatamente, le Sezioni Unite hanno rilevato che il quadro normativo di riferimento, secondo la testuale elencazione contenuta nella tabella II, in assenza di alcun valore soglia preventivamente individuato dal legislatore penale rispetto alla percentuale di THC, consente di affermare che la coltivazione della cannabis e la commercializzazione dei prodotti da essa ottenuti, quali foglie, inflorescenze, olio e resina, rientrano nell'ambito dell'art. 73, commi 1 e 4 D.P.R. 309/1990.

A tal fine, le Sezioni Unite hanno richiamato il dictum di precedente arresto – Cass. pen., Sez. Unite, n. 29316 del 26 febbraio 2015, Rv. 264263 – che, in seguito a numerosi interventi normativi, ha chiarito che nell'attuale ordinamento penale vige una nozione legale di stupefacente ed hanno evidenziato, al contempo, la struttura di norma parzialmente in bianco dell'art. 73deld.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 integrato dagli atti di natura amministrativa che, in attuazione delle direttive, indicano le sostanze di cui è vietata la circolazione.

Il T.U. stupefacenti risulta, dunque, strutturato secondo il sistema tabellare che assegna valenza legale alla nozione di sostanza stupefacente: sono soggette alla normativa che vieta la produzione e la circolazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope solo quelle che risultano indicate nelle Tabelle allegate al T.U. stup. (cfr. Cass. pen., Sez. IV,n. 27771 del 14 aprile 2011, Cardoni, Rv. 25069301).

Il sistema tabellare, rilevano inoltre le Sezioni Unite, è stato oggetto dell'intervento della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 32 del 2014, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 4-bis e 4-vicies ter, del decretolegge 30 dicembre2005,n.272, convertito, con modificazioni, dalla legge21 febbraio2006, n. 49, disposizioni in virtù delle quali le sostanze stupefacenti erano state classificate in due sole tabelle.

In seguito, il legislatore è intervenuto con il decretolegge 20 marzo 2014, n. 36 convertito, con modificazioni, dalla legge 16 maggio 2014, n. 79, che, tra l'altro, ha reintrodotto quattro tabelle, comprendenti le sostanze che, sulla base della legge n. 49 del 2006, erano state raggruppate nelle due tabelle sopra citate, modificando , di conseguenza, i criteri di inclusione delle sostanze all'interno delle tabelle medesime ed interpolando le disposizioni sulle coltivazioni vietate (art. 26, comma 1, T.U. stup.).

Nel delimitare il vigente quadro sanzionatorio, le Sezioni Unite richiamano le disposizioni di seguito indicate che nel nostro ordinamento concorrono a delineare il quadro repressivo vigente in materia.

In particolare, la Corte ha richiamato:

- l'art. 14, comma 1, lett. b), d.P.R. n.309/1990, come sostituito dall'art.1, comma 3, decretolegge n. 36 del 2014, cit., il quale detta i criteri per la formazione delle tabelle che includono le sostanze stupefacenti sottoposte a vigilanza e stabilisce che nella tabella II sia indicata «la cannabis e i prodotti da essa ottenuti», senza effettuare alcuna distinzione rispetto alle diverse varieta;

- la tabella II, inserita dall'art. 1, comma 30, decreto-legge n. 36 del 2014, cit., che include, tra le sostanze vietate, «Cannabis (foglie e inflorescenze), Cannabis (olio), Cannabis (resina)», nonche le preparazioni contenenti le predette sostanze in conformita alle modalita di cui alla tabella dei medicinali, senza effettuare alcun riferimento alla percentuale di THC;

- l'art. 26, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, rubricato Coltivazioni e produzioni

vietate, nel testo sostituito dall'art. 1, comma 4, del decreto-legge 20 marzo 2014,

n. 36, cit., ii quale stabilisce che e vietata nel territorio dello Stato la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II di cui all'art. 14, del medesimo testo unico, «ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli indicati dall'art. 27, consentiti dalla normativa dell'Unione europea».

- l'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, nel testo in vigore a seguito della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, che incrimina, tra le diverse condotte ivi elencate, la coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella II dell'art. 14, citato.

In tale ambito, evidenziano le Sezioni Unite, l'unica eccezione al contesto repressivo fin qui delineato è costituito dalla “canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli di cui all'art. 27, consentiti dalla normativa dell'Unione europea» (art. 26, comma 2, T.U. stup.), introdotta dal legislatore nel 2014, ed in cui si colloca la novella del 2016 finalizzata a promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della canapa.

Le Sezioni Unite precisano, infine, che dalla lettura delle suddette disposizioni può desumersi la precisa volontà del legislatore del 2014 di qualificare la cannabis, intesa in ogni sua varietà, quale sostanza stupefacente.

Infatti, la legge n. 79 del 2014, nel convertire il decreto-legge n. 36 del 2014, ha operato una modifica di ordine sostanziale alla tabella II, indicando la cannabis - ed i suoi derivati - senza effettuare alcun riferimento alla specie indica.

Inoltre, attraverso la modifica dell'art. 14, comma 1, lett. a), n. 6, T.U. Stup. il legislatore del 2014 ha inserito tra le sostanze stupefacenti anche quei preparati che, pur non direttamente provenienti dalla produzione di canapa, contengono un principio attivo che, per struttura ed effetti psicotropi, risultano assimilabili al THC.

Quanto alla novella del 2016 ed all'impatto che essa ha avuto sulle disposizioni del T.U. Stup. le Sezioni Unite hanno, anzitutto, considerato la finalità specificamente merceologica della legge ed il porsi, rispetto al T.U., analizzato nei termini che precedono, in chiave di eccezione alla regola della rilevanza penale della coltivazione e del commercio delle sostanze in quella sede contemplate.

Di conseguenza, dal carattere eccezionale della previsione normativa, la Suprema Corte ne ha desunto la tassatività delle categorie enucleate dall'art. 2, comma 2,l.242/2016 che, dunque, costituiscono previsioni di stretta interpretazione.

Osserva, in particolare, la Suprema Corte che la finalità merceologica dei prodotti delle coltivazioni connota profondamente l'attività prevista e disciplinata da tale legge e, pertanto, trattandosi di settori ontologicamente estranei dai divieti del d.P.R. 309/1990, il legislatore del 2016 non ha avuto la necessità di modificare il T.U. Stup. neppure nella parte in cui il T.U. disciplina la cannabis ed i prodotti da essa ottenuti.

Ciò deriva dal fatto che il legislatore del 2016 ha provveduto a disciplinare lo specifico settore della coltivazione industriale di canapa finalizzata alla produzione di fibre o ad altri usi consentiti dalla legge.

Nel dettaglio, evidenziano, infatti, le Sezioni Unite che la legge del 2016 si colloca dichiaratamente nell'alveo del settore merceologico, regolando, come evincibile dall'art. 1 che ne enuclea le finalità, e promuovendo la coltivazione industriale di determinate varietà di canapa considerata una coltura in grado di soddisfare le esigenze del settore agro industriale, che involgono la riduzione del consumo dei suoli ed il contrasto alla desertificazione.

Oltre che dal corpo della legge, rilevano le Sezioni Unite, la ratio e l'ambito applicativo dell'intervento normativo del 2016 risultano ulteriormente delineati dalle fonti sovranazionali richiamate dal legislatore nazionale.

Fra queste, oltre ai regolamenti U.E. 1307/2013 ed a quello successivo adottato in integrazione al primo, 639/2014 – recanti disposizioni relative alla produzione della canapa ed i pagamenti degli agricoltori in relazione all'utilizzo di sementi delle varietà elencate nel «catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole» - risultano particolarmente rilevanti la Direttiva U.E. 2002/53/CE e la decisione quadro 2004/757.

In particolare, la Direttiva U.E. 2002/53/CE del 13 giugno 2002, relativa al catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, riguarda l'ammissione di diverse varietà di piante (barbabietole, piante foraggere, cereali, patate) fra cui piante oleaginose e da fibra in un catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole le cui sementi o i cui materiali di moltiplicazione possono essere commercializzati secondo le disposizioni delle direttive specificamente indicate, fra cui per quanto di interesse, rileva la 2002/57/CE relativa alle sementi di piante oleaginose e da fibra.

L'art. 17, della Direttiva in esame, stabilisce, inoltre, che, conformemente alle informazioni fornite dagli Stati membri e via via che esse le pervengono, la Commissione provvede a pubblicare nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, serie C, sotto la designazione "Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole", tutte le varietà le cui sementi e materiali di moltiplicazione, ai sensi dell'articolo 16, non sono soggetti ad alcuna restrizione di commercializzazione per quanto concerne la varietà.

È evidente che la Direttiva U.E. 2002/53 riguarda le sementi e stabilisce quali possano essere ammesse alla coltivazione, secondo ii richiamato catalogo, comprendente le sementi di canapa sativa L. utilizzabili nell'Unione Europea.

L'ambito agroindustriale della Direttiva fin qui descritto, osservano le Sezioni Unite, per un verso, chiarisce e delimita la portata delle disposizioni che promuovono la coltivazione della cannabis sativa L., nell'Unione Europea e, per altro verso, ne garantisce la coerenza con un altro strumento sovranazionale, la decisione quadro U.E. 2004/757, recante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti.

In particolare, la Decisone Quadro, a sua volta, nel delineare le condotte connesse al traffico di stupefacenti che gli Stati membri dell'Unione europea sono chiamati a configurare come reati, richiama espressamente la coltura della «pianta della cannabis» (art. 2, comma 1, lett. b)).

Al contempo, il testo normativo esclude dal campo di applicazione della medesima decisione quadro le condotte tenute dai loro autori esclusivamente ai fini del loro consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali.

Di conseguenza, concludono le Sezioni Unite, la coltura agroindustriale della cannabis, connessa e funzionale alla produzione di sostanze stupefacenti, deve ritenersi rientrante senz'altro tra le condotte che gli Stati membri sono chiamati a reprimere sulla base della Decisione Quadro.

Ciò posto, sulla scorta delle finalità perseguite dalla legge n. 242 del 2016 fin qui descritte, le Sezioni Unite procedono all'inquadramento sistematico della materia regolata dalla novella e ne definiscono i rapporti con il d.P.R. 309/1990.

Si osserva, dunque, che la legge n. 242 del 2016 intende promuovere la coltivazione della filiera agroindustriale della Canapa sativa L. e, a tal fine, ha dettato disposizioni volte a incentivare la coltivazione delle varietà di canapa ammesse, iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, che si collocano esattamente nell'ambito delle coltivazioni di canapa per la produzione di fibre o per altri usi industriali.

Trattasi di coltivazioni già previste dall'art. 26, comma 2, T.U. stup., il quale contiene la richiamata eccezione al divieto di coltivazione della canapa nel territorio nazionale.

Tale disposizione seleziona le piante la cui coltivazione è vietata, rinviando all'art. 14, comma 1, lett. b), T.U. stup., che, nel dettare i criteri per la formazione delle tabelle, prevede un'eccezione per la «canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali».

La coltivazione industriale di cannabis sativa L., promossa dalla legge 242 del 2016, rientra, quindi, tra le coltivazioni di canapa per la produzione di fibre o di altri usi industriali, diversi da quelli farmaceutici, per le quali non opera il divieto di coltivazione di cui all'art. 26, d.P.R. n. 309/1990.

Il carattere specifico del settore dell'attività di coltivazione industriale di canapa, funzionale esclusivamente alla produzione di fibre o altri usi consentiti dalla normativa dell'U.E. non traducendosi nella necessità di modificare il T.U. stup. lascia , dunque, intatto il principio generale del divieto di coltivazione della cannabis che, dunque, rimane penalmente sanzionato.

Di conseguenza, i prodotti ottenuti dalla coltivazione agroindustriale della cannabis sativa L derivano da una coltivazione consentita in via eccezionale e , pertanto, le sette categorie di prodotti previste dall'art. 2 comma 2 L. 242/2016 devono ritenersi oggetto di elencazione tassativa.

In tal senso depone, inoltre, lo stesso tenore letterale dell'art. 26 comma 2 T.U. stupefacenti che, come visto, pur con l'introduzione, nel 2014, di deroghe ai principi del D.P.R. 309/1990 , nell'ambito delle quali si colloca la novella del 2016, fa espresso riferimento alle finalità della coltivazione che “esclusivamente” deve risultare finalizzata alla produzione di fibre o alla realizzazione di usi industriali “diversi” da quelli inerenti la produzione di sostanze stupefacenti.

Rilevano le Sezioni Unite che la validità di tale conclusione risulta, inoltre, avvalorata anche dalla circostanza che nella legge del 2016 non sono desumibili elementi in grado di sostenere letture di segno contrario.

In particolare, non si rinviene alcun dato testuale, ne alcuna indicazione di ordine sistematico, che possa giustificare la tesi - che pure è stata espressa – volta a far rientrare le inflorescenze della canapa nell'ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo.

Né, osserva la Suprema Corte, è possibile trarre dal testo del 2016 indicazioni utili a sostenere una generalizzata liceità della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione disciplinata dalla l. 242 dalle previsioni relative agli alimenti (art. 2 lett. a , art. 5), trattandosi di disposizioni relative ad obblighi per il produttore di alimenti derivanti dalla canapa.

Così come le disposizioni (artt. 4 e 7) relative alla esclusione di responsabilità per l'agricoltore, là dove fanno riferimento alla percentuale di THC compresa fra lo 0,2% e lo 0,6%, si ritiene che concernono la sola posizione dell'agricoltore dovendo , pertanto, considerarsi erronee quelle ricostruzioni che affermavano la liceità dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L e la loro commercializzazione ove contenenti percentuali inferiori ai suddetti limiti.

Tanto chiarito, le Sezioni Unite, nell'enunciare il principio di diritto succitato, procedono alle seguenti precisazioni:

  1. la legge n. 242 del 2016 e volta a promuovere la coltivazione agroindustriale di canapa delle varietà ammesse (cannabis sativa L.), coltivazione che beneficia dei contributi dell'Unione europea, ove ii coltivatore dimostri di avere impiantato sementi ammesse;
  2. si tratta di coltivazione consentita senza necessita di autorizzazione ma dalla stessa possono essere ottenuti esclusivamente i prodotti tassativamente indicati dall'art. 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016 (esemplificando: dalla coltivazione della canapa di cui si tratta possono ricavarsi fibre e carburanti, ma non hashish e marijuana);
  3. la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra ii reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate all'art. 4, commi 5 e 7 della legge del 2016. L'art. 73, cit., incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di THC che deve essere presente in tali prodotti, attesa la richiamata nozione legale di sostanza stupefacente, che informa gli artt. 13 e 14 T.U. stup.

Alla luce di tali considerazioni, le Sezioni Unite affermano che la cessione, la messa in vendita ovvero la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti - diversi da quelli espressamente consentiti dalla legge n. 242 del 2016 - derivati dalla coltivazione della cosiddetta cannabis light, integra gli estremi del reato ex art. 73, T.U. stup.

L'effettuata ricostruzione del quadro normativo di riferimento conduce ad affermare che la commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., che pure si caratterizza per il basso contenuto di THC, vale comunque ad integrare il tipo legale individuato dalle norme incriminatrici.

A tale ultimo proposito, tuttavia, la Suprema Corte, ripercorrendo gli arresti che si sono succeduti in materia, sostiene che la eventuale rilevanza penale delle suddette soglie percentuali può essere recuperata attraverso la valorizzazione del principio di concreta offensività della condotta nel caso in cui la cessione illecita riguardi inflorescenze e derivati ottenute dalla coltivazione della richiamata varietà di canapa che si caratterizza per il basso contenuto di THC.

In tal caso, il giudice sarà chiamato a verificare la rilevanza penale della singola condotta rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione.

Infine, la Corte ha osservato che in via eventuale le questioni interpretative relative alla disciplina del 2016 e che hanno determinato l'intervento delle Sezioni Unite possono riverberare effetti in ordine all'elemento psicologico del soggetto agente rispetto alle condotte di commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L., effettuate all'indomani dell'entrata in vigore della novella.

In tal caso, si sostiene, il giudizio sulla inevitabilità dell'errore sul divieto, cui consegue l'esclusione della colpevolezza, secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale (Corte cost. sent. n. 364 del 1988) deve risultare ancorato a criteri oggettivi, quali l'assoluta oscurità del testo legislativo o l'oscillazione interpretativa dell'autorità giudiziaria.

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