Le conseguenze del rilievo in appello della nullità dell'atto di citazione

10 Marzo 2022

Le Sezioni Unite hanno stabilito che nel caso in cui venga dedotta in appello la nullità della citazione per vizi inerenti alla vocatio in ius, la rimessione in termini del contumace appellante per le attività che gli sarebbero precluse è ammessa solo qualora dimostri di non aver avuto conoscenza del processo.
Questione controversa

Con la sentenza oggetto del ricorso definito con l'ordinanza in commento la Corte d'appello, pur rilevando la nullità dell'atto di citazione con il quale era stata evocata in giudizio la parte appellante, ha escluso la possibilità di rimessione al primo giudice e, confermando la validità di un contratto di affitto oggetto del contenzioso, ha condannato l'appellante, quale fideiussore, al pagamento di quanto dal medesimo garantito.

Nel caso di specie, infatti, il terzo chiamato in causa era rimasto estraneo al giudizio di primo grado, non essendosi costituito dopo aver ricevuto la notificazione di un atto di chiamata in causa invalido, siccome contenente un termine a comparire in giudizio inferiore a quello stabilito dalla legge. Il giudice di primo grado, non essendosi avveduto di tale vizio della vocatio in ius ai sensi dell'art. 164, comma 1, c.p.c. aveva omesso di provvedere ai sensi del comma 2 di tale articolo, e, dunque, di disporre la rinnovazione dell'atto entro un termine perentorio, dichiarando erroneamente la contumacia del convenuto e giungendo alla definizione del giudizio con la sentenza impugnata.

Avverso la sentenza della Corte il soccombente ha promosso ricorso per Cassazione, evidenziando l'erroneità della decisione della Corte d'appello per aver omesso di procedere alla rimessione della causa al primo giudice ex art. 354 c.p.c. considerata la mancata integrazione del contraddittorio in primo grado nei confronti del predetto e per non aver disposto in suo favore la rimessione in termini, anche in presenza di un atto di chiamata del terzo (quale fideiussore) non valido, poiché recante un termine a comparire inferiore a quello di legge.

Ravvisando una serie di soluzioni parzialmente confliggenti ad opera della giurisprudenza, la sezione terza della Cassazione, ritenendo la questione di massima di particolare importanza, ha chiesto al Primo Presidente di valutare se rimettere la questione alle Sezioni Unite.

Orientamenti contrapposti

La Corte è chiamata a stabilire quali siano le conseguenze in appello nel caso in cui venga rilevata la nullità dell'atto di citazione in primo grado (precisamente di un atto di chiamata in causa) per vizi della vocatio in ius; in particolare, se occorre disporre la rimessione al primo giudice e, in caso di risposta negativa, se il convenuto contumace possa essere comunque rimesso in termini, ovvero se possa esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado se il processo si fosse ritualmente instaurato.

A tal fine, appare opportuno ricordare come, secondo un orientamento ormai consolidato, l'applicabilità dell'art. 354 c.p.c., ovvero la rimessione al primo giudice in casi di nullità dell'atto di citazione per vizi della vocatio in ius non rilevata in primo grado sia da escludere (cfr. Cass. civ., 26 settembre 2018, n. 22787; Cass. civ., sez. lav., 12 ottobre 2017, n. 24017; Cass. civ., 8 giugno 2012, n. 9306). Le ipotesi di rimessione al primo giudice sono infatti tassativamente previste dagli art. 353 e 354 c.p.c., per cui non è ammissibile una estensione analogica di siffatte norme laddove venga riscontrato in appello un vizio della citazione introduttiva non sanato in primo grado.

Sul punto, si sono pronunciate anche le Sezioni Unite della Corte, le quali hanno affermato, dapprima con specifico riguardo al rito del lavoro, come il giudice d'appello che rilevi la nullità dell'introduzione del giudizio, determinata dall'inosservanza del termine dilatorio di comparizione stabilito dall'art. 415, comma 5, c.p.c., non può dichiarare la nullità e rimettere la causa al giudice di primo grado (non ricorrendo in detta ipotesi nè la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, nè alcuna delle altre ipotesi tassativamente previste dall'art. 353 c.p.c. e dall'art. 354, comma 1, c.p.c), ma deve trattenere la causa e, previa ammissione dell'appellante ad esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado se il processo si fosse ritualmente instaurato, decidere nel merito (cfr. Cass. civ., sez. un., 21 marzo 2001, n. 122).

Tale principio è stato ribadito anche in altre e successive pronunce di questa Corte, secondo cui nel caso in cui sia accertata, in secondo grado, una nullità non sanata della citazione introduttiva del giudizio, non rientrante tra quelle indicate dall'art. 354 c.p.c., il giudice di appello non può rimettere la causa al primo giudice, nè limitarsi a dichiarare la nullità dell'atto invalido e di tutti quelli conseguenti, sentenza inclusa, definendo in tal modo il giudizio, ma deve, dopo aver dichiarato la nullità del giudizio di primo grado, consentire alle parti le attività che le sono state precluse dalla nullità e, quindi, decidere la causa nel merito, a meno che nessuna delle parti gli abbia richiesto una tale pronuncia. Né ciò configura una violazione dei principi stabiliti dagli artt. 24 e 3 Cost., tenuto conto che: 1)- il diritto di difesa è garantito dalla previsione del potere-dovere del giudice d'appello di decidere la causa nel merito previa rinnovazione degli atti nulli, 2)- che la regola del doppio grado di giurisdizione non ha garanzia costituzionale e 3)- che il principio di uguaglianza non preclude al legislatore di dettare norme differenti per regolare situazioni ritenute diverse (cfr. Cass. civ., 13 dicembre 2005, n. 27411; Cass. civ., sez. lav., 18 maggio 2010, n. 12101; Cass. civ., sez. lav., 26 luglio 2013, n. 18168).

Chiarito ciò, ci si chiede se il convenuto contumace in primo grado in virtù della mancata rilevazione del vizio dell'atto di citazione possa esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado e che sono ormai precluse.

Sulla possibilità di ammettere l'applicabilità della rimessione in termini nei confronti del convenuto contumace, ovvero di consentire a quest'ultimo di compiere tutte le attività che sarebbero ormai precluse, la giurisprudenza della Corte non appare uniforme.

Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, la proposizione dell'appello per far valere la nullità dell'atto di citazione equivale a costituzione tardiva nel processo, per cui il convenuto contumace, pur avendo diritto alla rinnovazione dell'attività di primo grado da parte del giudice di appello, può essere ammesso a compiere le attività colpite dalle preclusioni verificatesi nel giudizio di primo grado solo se dimostri che la nullità della citazione gli ha impedito di conoscere il processo e, quindi, di difendersi, se non con la proposizione del gravame. Tale situazione, tuttavia, può verificarsi solo nel caso di nullità per omessa o assolutamente incerta indicazione del giudice adito in primo grado, mentre, in ogni altra ipotesi, occorre la dimostrazione, del tutto residuale, che le circostanze del caso concreto abbiano determinato anche la mancata conoscenza della pendenza del processo (cfr. Cass. civ., 7 maggio 2013, n. 10580; Cass. civ., 26 luglio 2016, n. 15414; Cass. civ. 15 gennaio 2020, n. 544).

Occorre, quindi, distinguere la rimessione in termini, per la concessione della quale occorre che il convenuto contumace involontario dimostri la mancata conoscenza del processo, dalla rinnovazione degli atti nulli, la quale comporta solo la rinnovazione di quelli posti in essere dalla parte che ha subito la nullità, senza che ciò comporti anche la rimessione nell'esercizio di poteri processuali che dovevano essere esercitati in una fase del processo ormai superata. L'orientamento in parola, peraltro, riconosce al giudice di primo grado la possibilità di rilevare d'ufficio la nullità in ogni fase, disponendo contestualmente la rinnovazione ex art. 162 c.p.c. degli atti dipendenti dall'atto nullo senza che questo significhi far ritornare automaticamente il processo alla prima udienza, essendo comunque la rimessione in termini subordinata alla prova del convenuto tardivamente costituitosi che la nullità della citazione gli ha impedito di aver conoscenza del processo.

La norma dell'art. 294 c.p.c. si connota, dunque, come «una disposizione che suona come deroga all'automatico operare dell'art. 162, comma 1, c.p.c». L'ordinamento, insomma, vuole dare rilievo al comportamento del convenuto erroneamente dichiarato contumace che rimanga inerte nonostante la conoscenza del processo e la possibilità di costituirsi eccependo la nullità.

Tuttavia, sottolinea la Corte, l'idea di affidare all'art. 294 c.p.c., oltre alla disciplina dell'ipotesi riguardante la richiesta di rimessione in termini da parte del contumace che si costituisce nel giudizio di primo grado invocando il compimento di attività che gli sarebbero precluse, anche la regolamentazione delle conseguenze in appello dell'erronea dichiarazione di contumacia avvenuta in primo grado a causa della nullità dell'atto di citazione per mancato rispetto dei termini a comparire, non appare convincente. Tale prospettazione presuppone, infatti, la sussistenza di un onere processuale in capo al convenuto di costituirsi in ogni caso in giudizio qualora abbia ricevuto un atto nullo che non gli abbia impedito di avere nozione del processo, eventualmente al solo fine di far valere la nullità. Tale onere appare palesemente gravoso, quando si consideri che si è in presenza di un atto di citazione nullo, nella specie per difetto della vocatio in ius e che il giudice non ha provveduto al rilievo della nullità dell'atto per mancato rispetto del termine a comparire e alla conseguente rinnovazione dell'atto di citazione nel rispetto di tali termini entro un termine perentorio (art. 164, comma 2, c.p.c.). «Una rinnovazione sul cui compimento il convenuto non correttamente citato avrebbe diritto di riporre il proprio ragionevole affidamento, consapevole, in difetto, del dovere del giudice di disporre la cancellazione della causa dal ruolo e la conseguente estinzione del giudizio a norma dell'art. 307, comma 3, c.p.c.».

Insomma, ad avviso del Collegio, seguire tale opzione interpretativa finirebbe con il danneggiare la posizione dell'appellante, il quale non potrebbe svolgere tutte le attività assertive e probatorie precluse dalla nullità della citazione originaria verificatasi in suo danno; tale ricostruzione si fonda peraltro su una lettura delle norme processuali (gli artt. 162 e 294 già citati) potenzialmente lesiva del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Tale conseguenza, invece, potrebbe sempre ad avviso della Corte, essere evitata «attraverso la ragionevole alterazione della funzione del giudizio di appello, adeguatamente giustificata dalla prevalenza del richiamato principio costituzionale».

Sul punto la stragrande maggioranza della dottrina ammette che ogni volta che il convenuto si costituisca tardivamente deducendo la nullità della citazione introduttiva del giudizio (o il che è lo stesso dell'atto di chiamata in causa), il giudice sia tenuto a disporre la fissazione di una nuova udienza di trattazione ai sensi dell'art. 183 c.p.c., senza che il convenuto subisca le decadenze già nel frattempo maturate.

Invero, come rileva la decisione in commento, vi è chi in dottrina ha prospettato tre diverse possibili soluzioni alla questione: 1) non essendo il potere di rilievo d'ufficio dei vizi indicati nell'art. 164, comma 1, c.p.c. limitato alla prima udienza, si potrebbe ammettere il giudice a rilevare la nullità in ogni fase del giudizio in primo grado e conseguentemente rinnovare ex art. 162 c.p.c. gli atti ai quali si estende la nullità; 2) secondo un'altra impostazione, occorre distinguere la rinnovazione degli atti nulli dalla rimessione in termini, per cui la rinnovazione degli atti nulli comporta solo la rinnovazione degli atti nel contraddittorio della parte che ha subito la nullità, senza che ciò comporti la regressione del processo alla prima udienza di trattazione, impedendosi così l'esercizio di poteri processuali che dovevano essere compiuti in una fase del processo oramai superata; 3) secondo una terza soluzione che fa leva sull'art. 294 c.p.c., il contumace tardivamente costituitosi, in tanto può essere rimesso in termini, in quanto la nullità della citazione gli abbia impedito la conoscenza del processo; ciò considerato che, ai fini delle sanatoria delle nullità per vizi formali, occorre tener conto non solo della convalidazione oggettiva per raggiungimento dello scopo, ma anche della convalidazione soggettiva ex art. 157, comma 2, c.p.c., in virtù della quale la nullità si sana se la parte, nel cui interesse era stabilito il requisito, non eccepisce la nullità nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso, cioè nel primo atto del processo successivo alla conoscenza dell'atto viziato e/o del processo.

Rimessione alle Sezioni Unite

Considerato, quindi, «l'obiettivo contrasto» manifestatosi in taluni diversi orientamenti fatti propri dalle sezioni semplici, «l'effettiva pluralità delle soluzioni astrattamente formulabili con riguardo alla questione in esame, la contemporanea incidenza, in relazione a ciascuna delle soluzioni assumibili, di principi e valori di elevato spessore e dignità costituzionale», la Terza sezione civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite sollevando una questione di massima di particolare importanza volta a stabilire se nelle controversie soggette al rito del lavoro, quando il giudice d'appello, rilevata la nullità dell'introduzione del giudizio per l'inosservanza del termine dilatorio di comparizione stabilito dall'art. 415, comma 5, c.p.c., trattenga la causa per decidere nel merito (non potendo dichiarare la nullità e rimettere la causa al giudice di primo grado in quanto non ricorrono né la nullità della notificazione dell'atto introduttivo, né alcuna delle altre ipotesi tassativamente previste dagli artt. 353 e 354, comma 1, c.p.c.), nell'ammettere l'appellante ad esercitare tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado, se il processo si fosse ritualmente instaurato, debba procedere secondo quanto previsto dall'art. 294 c.p.c., equivalendo la proposizione dell'appello a costituzione tardiva nel processo, con la conseguenza che il convenuto contumace, pur avendo diritto alla rinnovazione dell'attività di primo grado da parte del giudice di appello ai sensi dell'art. 354, comma 4, c.p.c., intanto potrà essere ammesso a compiere le attività che sono colpite dalle preclusioni verificatesi nel giudizio di primo grado, in quanto dimostri che la nullità della citazione gli abbia impedito di conoscere il processo e, quindi, di difendersi, se non con la proposizione del gravame.

Soluzione

Le Sezioni Unite con la pronuncia in commento, dopo aver ripercorso l'excursus giurisprudenziale, ritengono di comporre il contrasto evidenziato dando continuità all'interpretazione più rigorosa scelta dalla pronuncia n. 10580/2013, ovvero di condizionare la rimessione in termini ex art. 294 c.p.c. per le attività precluse alla dimostrazione della mancata conoscenza del processo nel caso in cui venga dedotta in appello dal convenuto, rimasto contumace in primo grado, la nullità della citazione, dovendo in mancanza il giudice limitarsi a disporre la rinnovazione degli atti nulli compiuti in primo grado ex artt. 354, comma 4, e 356 c.p.c.

L'appellante potrà, quindi, essere ammesso ad esercitare tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado se il processo si fosse ritualmente instaurato, solo in quanto dimostri che la nullità della citazione gli ha impedito di conoscere il processo e, dunque, di difendersi, se non con la proposizione del gravame, equivalendo la proposizione dell'appello a costituzione tardiva nel processo.

La Corte precisa, infatti, che «la nullità della citazione introduttiva del giudizio di primo grado per vizi della vocatio in ius, riguardando l'atto preordinato all'instaurazione del contraddittorio, ove il convenuto non si costituisca e non sia rilevata d'ufficio dal giudice (art. 164 c.p.c.), comporta l'estensione a tutti gli atti del processo che ne sono dipendenti (art. 159, comma 1, c.p.c.), ovvero agli atti che devono compiersi nel contraddittorio delle parti. Allorché tale nullità non sia stata sanata dalla costituzione del convenuto né rilevata d'ufficio, non operando per essa il regime di cui all'art. 157 c.p.c., comma 2, la stessa nullità si converte in motivo di impugnazione e deve perciò essere fatta valere dal contumace mediante appello, contemporaneamente spiegato, a pena di inammissibilità, anche in rapporto alle statuizioni di merito (cfr., Cass. civ., sez. un., 25 novembre 2021, n. 36596). La proposizione dell'appello, d'altro canto, non sana ex se la nullità degli atti successivi dipendenti dalla citazione viziata. Il giudice d'appello, preso atto della nullità del giudizio di primo grado e della stessa sentenza, non potendo disporre la rimessione al primo giudice, ai sensi dell'art. 354 c.p.c., è dunque tenuto a trattare la causa nel merito, rinnovando gli atti dichiarati nulli».

L'aspetto di rilievo evidenziato dalla Corte, relativamente alla nullità della citazione per vizi della vocatio in ius, riguarda la portata dell'obbligo di rinnovazione delle attività eseguite in primo grado. Secondo le Sezioni Unite non è necessario, infatti, rinnovare l'intero processo, rimettendo in termini la parte, ma solo le attività strettamente conseguenziali all'atto rinnovato. Infatti, «la rinnovazione degli atti nulli che sia ordinata dal giudice d'appello coinvolge, peraltro, le attività difensive correlate e strettamente conseguenziali all'atto rinnovato, ma non equivale alla rimessione in termini integrale ed automatica del contumace nello svolgimento di tutte le attività difensive impedite dalla mancata instaurazione del contraddittorio. La rimessione in termini è, infatti, ristretta dall'art. 294 c.p.c. alle sole attività ormai precluse il cui tempestivo svolgimento sia stato impedito dall'ignoranza del processo».

La Corte sottolinea, dunque, come si tratti di due rimedi differenti: la rinnovazione degli atti nulli, svolti in primo grado e dipendenti dalla nullità, avviene mediante la ripetizione degli stessi nel contraddittorio delle parti, per cui, il convenuto, rimasto contumace in primo grado, potrà esercitare i poteri difensivi non esercitati e non soggetti a preclusione; ad esempio, potrà essere riassunta una prova, ma il convenuto, durante la rinnovazione, non può introdurre prova contraria, essendo maturate le preclusioni. La rimessione in termini, viceversa, riammette la parte all'esercizio di attività soggette a preclusione, come ad esempio l'eccezione di incompetenza ex art. 38 c.p.c., la domanda riconvenzionale o la chiamata in causa di terzo ex art. 167 c.p.c., le memorie istruttorie ex art. 183, comma 6, c.p.c., a patto che la nullità della citazione abbia impedito al convenuto di avere conoscenza del processo.

Pertanto, nell'ipotesi in cui l'appellante sia rimasto contumace in primo grado e la nullità da lui dedotta in appello riguardi l'inosservanza dei termini a comparire oppure la mancanza dell'avvertimento di cui all'art. 163, n. 7, c.p.c. potrà ottenere in appello la rimessione in termini per le attività che gli sarebbero precluse solo qualora dimostri di non aver avuto conoscenza del processo. Tale dimostrazione non sarà, invece, necessaria nell'ipotesi in cui il vizio dell'atto di citazione riguardi l'omessa indicazione o l'assoluta incertezza del giudice adito.

La mancata conoscenza del processo ed i vizi che l'abbiano provocata chiaramente impongono la rimessione in termini; viceversa, i vizi che comportano una nullità della citazione ma non escludono la conoscenza del processo, non possono portare alle stesse conseguenze. La parte, infatti, conosceva l'esistenza del processo ed aveva, quindi, la possibilità di parteciparvi.

Il principio posto alla base di tale pronuncia può apparire collegato al concetto di buona fede processuale, dato che appare espressione di un atteggiamento opportunistico quello di non partecipare ad un giudizio noto per far valere in appello un vizio che non poggia sulla mancata conoscenza dell'esistenza del processo per far venire meno tutte le attività eseguite in primo grado.

Tuttavia, la sentenza de quo basa la soluzione prescelta, prima ancora che sul principio di buona fede, su quello della ragionevole durata del processo.

Infatti, dalla nullità dell'atto di citazione, pur non seguendo la rimessione al primo giudice, non può discendere automaticamente la rimessione in termini del contumace appellante. Diversamente opinando, si determinerebbe un incentivo alla contumacia, considerato che il contumace otterrebbe un “premio” per non essersi costituito in primo grado, pur avendo contezza del processo, per poi far valere l'invalidità con la proposizione dell'appello. Il mancato esercizio dei poteri processuali soggetti a preclusione da parte del convenuto contumace è dipeso dalla sua strategia difensiva e non dalla difformità della citazione dal modello legale; pertanto, una totale regressione del giudizio per consentire al contumace di svolgere le attività ormai precluse si tradurrebbe in una “reazione ordinamentale sproporzionata rispetto alla lesione del diritto di difesa addebitabile all'attore”.

La Corte afferma, quindi, il seguente principio di diritto: «allorché come motivo di appello venga dedotta la nullità della citazione di primo grado per vizi della “vocatio in ius” (nella specie, per inosservanza dei termini a comparire), in assenza di costituzione del convenuto e di rilievo d'ufficio della nullità ex art. 164 c.p.c., il giudice di appello, non ricorrendo una ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, deve ordinare, in quanto possibile, la rinnovazione degli atti compiuti in primo grado, potendo tuttavia il contumace chiedere di essere rimesso in termini per compiere attività ormai precluse a norma dell'art. 294 c.p.c., e dunque se dimostra che la nullità della citazione gli ha impedito di avere conoscenza del processo».

Nella fattispecie portata alla attenzione delle Sezioni unite era stata negata all'appellante la concessione dei termini ex art. 183, comma 6, c.p.c. L'appellante, rimasto contumace in primo grado, avrebbe pertanto potuto chiedere ai giudici di appello di essere ammesso a compiere le attività di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. ormai precluse, solo allegando e dimostrando che la nullità della citazione gli aveva impedito di avere materiale conoscenza del processo. Ciò non era accaduto nel caso in questione, trattandosi della deduzione della nullità derivante dalla concessione di termini a comparire inferiori a quelli prescritti ed in quanto tale incapace di impedire la conoscenza del processo.

Le S.U. disattendono, quindi, quanto prospettato dalla Terza sezione civile nell'ordinanza di rimessione, secondo la quale l'idea di affidare all'art. 294 c.p.c. la regolamentazione delle conseguenze in appello dell'erronea dichiarazione di contumacia in primo grado nonapparivaconvincente. Così facendo, infatti, sorgerebbe in capo al convenuto un onere processuale di costituirsi in ogni caso in giudizio là dove abbia ricevuto un atto nullo che non gli abbia impedito di avere conoscenza del processo, eventualmente al solo fine di denunciare la rilevata nullità.

La Suprema Corte sceglie, dunque, la soluzione più rigorosa in nome della ragionevole durata del processo, sottolineando giustamente che, se da un lato è corretto che il convenuto, rimasto contumace in primo grado perché non correttamente citato, ha diritto di riporre il proprio affidamento sulla necessità che venga disposta la rinnovazione degli atti nulli, dall'altro tale rinnovazione non equivale ad una rimessione in termini integrale ed automatica, potendo l'appellante solo svolgere quelle attività che sono strettamente collegate all'atto rinnovato e non anchetutte quelle impedite dalla mancata instaurazione del contraddittorio, laddove abbia avuto la possibilità di esercitarle a suo tempo ed abbia scelto scientemente di non farlo.

Nonostante l'appunto mosso nell'ordinanza di rimessione, la soluzione scelta dalle Sezioni Unite merita di essere salutata con favore. Ragionando diversamente, infatti, si incentiverebbe una contumacia dettata da una strategia processuale in evidente contrasto con il principio cardine della ragionevole durata del processo.

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