Duplicità di date, di deposito e di pubblicazione annotate sulla sentenza e decorrenza del termine lungo per l'impugnazione

Francesco Bartolini
09 Novembre 2016

Le Sezioni Unite si sono pronunciate sul contrasto interpretativo riguardante il momento in cui deve intendersi avvenuta la pubblicazione della sentenza, anche agli effetti della decorrenza del termine “lungo” per l'impugnazione, quando sull'atto il cancelliere annota due date, l'una di deposito e l'altra di pubblicazione.
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La questione sottoposta alla decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione riguarda le disposizioni dettate dagli artt. 133, primo e secondo comma, e 327, primo comma, c.p.c. e, particolarmente, il modo con il quale esse debbono venire intese con riferimento ad una prassi attuativa formatasi in senso difforme da quanto ricavabile dalla lettura del testo normativo. Come è noto, l'art. 133, nelle parti ricordate, dispone che la pubblicazione della sentenza avviene mediante il deposito dell'originale nella cancelleria. Di tale deposito dà atto il cancelliere, che appone in calce al documento l'indicazione della data e la sua sottoscrizione; nei giorni successivi una comunicazione è inviata alle parti. A sua volta, l'art. 327 c.p.c. indica nella data di deposito il momento di decorrenza del termine c.d. lungo per la proposizione dell'impugnazione avverso il provvedimento. Il quesito si pone quando l'adempimento del cancelliere, che la prima delle norme citate sottintende debba risolversi in un comportamento contestuale (presa in consegna dell'atto; pubblicazione della sentenza), viene eseguito in tempi diversi, spezzandone l'unicità con una prima attestazione di avvenuto deposito e con una successiva (spesso a mesi di distanza) annotazione di pubblicazione. È palese la peculiarità di una condotta che così si allontana dalla descrizione che si desume dal tenore letterale dell'art. 133 c.p.c.. Questa norma implica che deposito e pubblicazione siano contestuali e su questo presupposto l'art. 327 c.p.c. dispone che dal deposito/pubblicazione decorra il termine per l'impugnazione. Ma se deposito e pubblicazione diventano atti separati si pone il problema di stabilire come la conseguente divaricazione temporale possa essere conciliata con l'onere delle parti di osservare il termine di ammissibilità del gravame. Una impugnazione che si assuma tempestiva perché proposta nel lasso temporale decorrente dalla data di pubblicazione può essere dichiarata tardiva ( e tanto è avvenuto, ripetutamente) se si afferma che essa doveva rispettare la decorrenza avente inizio dalla precedente annotazione di deposito. Per i soggetti interessati o controinteressati al gravame è rilevante sapere se il termine lungo per l'impugnazione va computato con riguardo alla prima data in ordine temporale oppure tenendo conto di quella successiva, nei casi di loro diversità.

Il quesito era stato risolto in senso contrastante dalla giurisprudenza e il numero delle pronunce in proposito appare rivelatore della frequenza di una modalità di adempiere ai propri doveri, ad opera del cancelliere, che negli anni è divenuta ripetitiva e sintomatica di un grave disservizio.

Due erano stati gli autorevoli interventi che avevano preceduto l'ultimo arresto della Corte di cassazione.

La Corte, con la sent., Sez. Un., 1 agosto 2012, n. 13794, aveva avallato l'indirizzo giurisprudenziale per il quale, nel caso di apposizione di due date di deposito nella sentenza, gli effetti giuridici connessi alla pubblicazione devono intendersi verificati già dalla prima di esse, quella, cioè, che il cancelliere indica come di deposito. Sulla conformità alla Costituzione di questo orientamento la seconda sezione della stessa Corte Suprema chiamò a pronunciarsi la Consulta, ipotizzando un contrasto con gli artt. 3 e 24 della Carta. Con C. cost., sent. n. 3/2015 la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione sull'assunto di una interpretazione diversa, costituzionalmente orientata, tale da escludere ogni dubbio di legittimità e da tutelare adeguatamente le parti interessate. Essa ha affermato che, in ipotesi di divergenza di date e quando non risulti che il magistrato ha consegnato una minuta del suo elaborato, deve aversi come fonte degli effetti propri della pubblicazione l'ultima tra esse, in ordine di tempo, alla quale il cancelliere riferisce essere avvenuta la pubblicazione.

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Orientamento che individua nel deposito (quale primo atto del cancelliere, nel caso di intervallo temporale tra esso e l'annotazione della pubblicazione della sentenza) il momento di pubblicazione della sentenza, per gli effetti di cui agli artt. 133 e 327

Le pronunce, anche di legittimità, che avevano dato rilievo al momento di deposito della sentenza, ove diverso da quello della pubblicazione, hanno fondato la decisione su una constatazione di tipo logico, prima che giuridico, e apparentemente inattaccabile. Se un evento, quale quello del deposito, in cui per legge si risolve la venuta ad esistenza della sentenza civile, si afferma essere già avvenuto, risulta poi impossibile darlo per verificatosi in una epoca temporale successiva. Le Sezioni Unite, ad esempio, avevano con la sentenza Cass., n. 13794/2012 sintetizzato le loro argomentazioni in proposito nel seguente principio di diritto: il procedimento di pubblicazione «… si compie, senza soluzione di continuità con la certificazione del deposito mediante l'apposizione, in calce al documento, della firma e della data del cancelliere, che devono essere contemporanee alla data della consegna ufficiale della sentenza, in tal modo resa pubblica per effetto di legge. E' pertanto da escludere che il cancelliere, preposto… alla tutela della fede pubblica (art. 2699 c.c.), possa attestare che la sentenza, già pubblicata, ai sensi dell'art. 133 c.c., alla data del suo deposito, viene pubblicata in data successiva, con la conseguenza che, ove sulla sentenza siano state apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l'altra di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono già dalla data del suo deposito». Nella motivazione si era spiegato che nel deposito doveva essere individuato il momento di perfezionamento, efficacia, esistenza, irretrattabilità della sentenza, trattandosi di un momento in cui è determinante l'intervento del giudice, posto che la procedura di deposito prende l'avvio proprio da un atto di volizione al medesimo riferibile, con la conseguenza che la data in cui il cancelliere ne dà atto deve coincidere con quella dell'effettivo deposito e con l'ulteriore conseguenza che l'eventuale apposizione da parte del cancelliere di una data ulteriore e successiva non potrebbe giammai incidere su un fatto (l'avvenuto deposito) già verificatosi.

Nello stesso senso possono ricordarsi:

Cass. 17 novembre 2011, n. 24178: «Qualora la sentenza presenti, oltre la sottoscrizione del giudice e del relatore, due date diverse, entrambe apposte con timbro datario della cancelleria ed affiancate dall'indicazione “depositato in cancelleria”, al fine di individuare il giorno di deposito, dal quale decorre il termine di decadenza dell'impugnazione ex art. 327 c.p.c.., occorre far riferimento alla data cronologicamente precedente, poiché l'annotazione del deposito della sentenza, dopo le sottoscrizioni del presidente e del relatore, deve intendersi apposta sull'originale della stessa ed è perciò escluso che tale documento possa essere qualificato come semplice minuta e che l'annotazione possa essere riferita alla previsione del primo comma dell'art. 119 disp. att. c.p.c.».

Cass. 29 settembre 2009, n. 20858: «Qualora la sentenza presenti, oltre la firma del giudice, due timbri di deposito entrambi sottoscritti dal cancelliere, al fine di individuare il giorno del deposito, dal quale decorre il termine di decadenza dall'impugnazione ex art. 327 c.p.c., occorre far riferimento alla prima data, in riferimento alla quale risulta accertata la formazione della sentenza per la ricorrenza dei requisiti indispensabili prescritti dall'art. 133, primo comma, c.p.c. (ovvero, la consegna della sentenza da parte del giudice al cancelliere e il suo contestuale deposito da parte di quest'ultimo), atteso che il successivo timbro di deposito, non potendo attestare un evento già verificatosi (la pubblicazione della sentenza), è riconducibile agli adempimenti a carico del cancelliere medesimo, di cui al secondo comma dell'art. 133 cod. proc. civ.».

Nello stesso senso, incidentalmente, Cass. 23 giugno 2016, n. 12986 e, assai prima, Cass., Sez. Un. n. 3501/1979.

Orientamento che individua nella attestazione di pubblicazione (ove essa segua a distanza di tempo all'annotazione di deposito) il momento nel quale la sentenza deve intendersi venuta formalmente ad esistenza e deve ritenersi iniziata la decorrenza del termine “lungo” per l'impugnazione

Il divergente modo di intendere il dettato degli artt. 133 e 327 si fonda su una concezione che ravvisa un contenuto complesso di operazioni e una funzione articolata nella nozione di deposito quale modalità di pubblicazione della sentenza. L'adempimento demandato al cancelliere, si afferma, deve intendersi costituito da un comportamento che unitariamente comprende la presa in consegna del provvedimento del giudice e le formalità costituite dalla registrazione e dalla numerazione progressiva dell'atto ricevuto. In proposito la Corte costituzionale ha osservato che la separazione temporale dei due passaggi in cui si articola la procedura di pubblicazione della sentenza (deposito da parte del giudice e presa d'atto del cancelliere), comprovata dall'apposizione di date differenti, costituisce una patologia gravemente incidente sulle situazioni giuridiche degli interessati. Essa, ha aggiunto, si risolve nel tardivo adempimento delle operazioni previste dalla disciplina legislativa e regolamentare (tra le quali, l'inserimento nell'elenco cronologico delle sentenze, con l'attribuzione del relativo numero identificativo) nonché delle disposizioni sul processo telematico; e ha affermato che solo con il compimento delle operazioni prescritte può dirsi realizzata quella pubblicità alla quale è subordinata la titolarità in capo ai potenziali interessati di puntuali situazioni giuridiche, come il potere di prendere visione degli atti pubblicati e di estrarne copia. Alla luce di una interpretazione conforme alla Costituzione del diritto vivente doveva pertanto concludersi che, per costituire dies a quo del termine per l'impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere va qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzato esclusivamente in corrispondenza di quest'ultima, con la conseguenza che il ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende inoperante la precedente dichiarazione dell'intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa.

A queste asserzioni si era adeguata in modo esplicito Cass. ord. 25 marzo 2015, n. 6050.

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La seconda sezione della Corte di cassazione, dinanzi alla quale era riproposto il quesito della tempestività dell'impugnazione di una sentenza riportante date distanziate di deposito e di pubblicazione, si è trovata di fronte al contrasto tra la pronuncia delle sezioni Unite del 2012 (che ha ritenuto costituire il “diritto vivente”) e l'alto indirizzo della Corte costituzionale: ed ha chiesto con ordinanza Cass. n. 19140/2015 che esso venisse composto dalle Sezioni Unite. Il nuovo intervento è stato domandato, in particolare, con riguardo anche alla possibile ampiezza ed agli eventuali limiti del ricorso alla rimessione in termini per la proposizione dell'impugnazione, cui era stato fatto riferimento nelle decisioni citate, quale istituto idoneo ad assicurare comunque alla parte incolpevole la tutela del suo interesse a proporre il gravame pur nell'equivoco interpretativo indotto dalla duplicità delle date apposte sul provvedimento da impugnare.

Gli argomenti utilizzati a sostegno delle diverse opinioni formatesi sulla questione portata all'esame delle sezioni Unite possono essere sintetizzati come segue.

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Le Sezioni Unite, nella loro sentenza 22 settembre 2016, n. 18569 affermano che il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l'inserimento della sentenza nell'elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo e conseguente possibilità per gli interessati di venirne a conoscenza e richiederne copia autentica: da tale momento la sentenza “esiste” a tutti gli effetti e comincia a decorrere il cosiddetto termine lungo per la sua impugnazione. Il collegio decidente ha stigmatizzato una prassi delle cancellerie che ha definito quale «sciagurata consuetudine di apporre una doppia data in calce alle sentenze civili». E ha ricordato che tutte le decisioni adottate sul punto, pur nella diversità delle soluzioni adottate, avevano descritto quel comportamento come lesivo delle posizioni giuridiche delle parti e fonte di dubbi e perplessità in un momento processuale di massimo rilievo: il momento dell'individuazione della data di perfezionamento dell'iter procedimentale che conduce alla pubblicazione della sentenza e alla decorrenza dei termini per l'impugnazione. In questo incerto contesto la statuizione di non fondatezza della questione di costituzionalità degli artt. 133 e 327 c.p.c., se interpretati nel senso indicato dalla Corte costituzionale, era venuta a costituire un punto fermo e un vincolo esegetico per l'interprete, tenuto a conciliare l'indicazione adeguatrice della Consulta con l'esigenza di assicurare che il momento in cui viene ad essere la sentenza sia riconducibile ad una iniziativa del giudice e non resti nella disponibilità del cancelliere: non è questi, infatti, il soggetto al quale il legislatore attribuisce la titolarità – e quindi la responsabilità – delle scelte incidenti sul processo. Per pervenire, dunque, ad una soddisfacente composizione della questione, le Sezioni Unite hanno osservato che l'art. 133 c.p.c. non considera la pubblicazione come un posterius o comunque come una attività diversa dal deposito ma la identifica in questo, sì che non è logicamente ipotizzabile una pubblicazione quale attività autonoma del cancelliere, diversa e successiva. Ai fini della pubblicazione non è necessario che si dia notizia alle parti costituite; ma la rilevanza dell'atto per le importanti conseguenze che ne derivano rende necessario un collegamento tra esse e una volizione del giudice, cui spetta di rendere definitiva e irretrattabile la sentenza, depositandola in cancelleria.

Allo scopo, afferma la Corte, va considerato che il deposito è un atto sui generis, sia perché non serve (solo) a custodire la cosa ma (innanzitutto) serve ad attuarne la pubblicazione, quale strumento a tal scopo individuato dal legislatore, e sia perché la norma si riferisce chiaramente ad un deposito “in cancelleria” del quale il cancelliere dà atto in calce alla sentenza. E' allora evidente che un tale atto effettuato presso un ufficio pubblico non può risolversi nella semplice traditio brevi manu della sentenza, attestata dal cancelliere, risultando assolutamente indispensabile, in relazione alle conseguenze che debbono trarsene, che esso abbia carattere ufficiale e cioè che nel luogo individuato per il deposito (la cancelleria) esso risulti ufficialmente. Questa risultanza non può verificarsi se non a seguito dell'inserimento dell'atto oggetto di deposito nell'elenco cronologico delle sentenze esistente presso la cancelleria, con assegnazione del numero identificativo, non fosse altro perché una sentenza non identificabile non può neppure risultare ufficialmente depositata. È, pertanto, l'inserimento nell'elenco cronologico delle sentenze il “mezzo” attraverso il quale si realizza ufficialmente il «deposito in cancelleria» della sentenza e, al contempo, la pubblicità necessaria alla conoscibilità della stessa. Una conclusione in tal senso, si afferma, è l'unico modo per attribuire significato ad una norma che descrive il deposito quale strumento della pubblicazione e che fa coincidere questi due momenti.

Nella sua motivazione le Sezioni Unite rivolgono un monito ai principali soggetti processuali per i quali la pubblicazione della sentenza assume rilievo.

Al giudice che deposita la sentenza viene indicato che: «La coincidenza strumentale tra deposito e pubblicazione comporta inoltre la necessità che le attività di deposito (consegna della sentenza in cancelleria da parte del giudice e recepimento di essa da parte del cancelliere mediante inserimento nell'elenco cronologico e relativa attestazione) intervengono senza soluzione di continuità. E se anche situazioni contingenti non lo rendessero talora possibile, le suddette operazioni dovrebbero tuttavia sempre essere completate in breve tempo e comunque in un unico contesto soggettivo-temporale, senza che possa ritenersi esaurito il rapporto tra il giudice depositante e il cancelliere preposto alle attività di “recepimento” in cancelleria id est: nell'elenco cronologico esistente presso la stessa) e di relativa attestazione; con la conseguenza che il giudice che ha dato impulso al procedimento di deposito non può disinteressarsene finchè il completamento dello stesso non venga attestato e deve pertanto assicurarsi che tale comportamento intervenga al più presto e risulti certificato dall'apposizione della relativa (e unica) data in calce alla sentenza, eventualmente, ove il procedimento non si completi entro un tempo ragionevole, segnalando particolari urgenze, denunciando inefficienze o anche sollecitando, attraverso l'intervento del capo dell'ufficio, un maggior controllo e, se del caso, una migliore organizzazione del lavoro e distribuzione del personale, essendo in ogni caso da escludere che il “deposito”… possa proseguire poi ad opera esclusiva del cancelliere, al di fuori di ogni controllo del giudice…».

Al difensore viene indicato che l'affermata interpretazione dell'art. 133 c.p.c. comporta che, a partire dal deposito, sia assicurata (se non la conoscenza, di certo) la conoscibilità della sentenza, nel senso che il difensore, con la diligenza dovuta in rebus suis, recandosi periodicamente in cancelleria per informarsi sull'esito di una causa della quale conosce la data di deliberazione, potrebbe, a partire del momento del deposito, stante l'annotazione nell'elenco cronologico, venirne a conoscenza ed estrarne copia.

Al giudice dell'impugnazione, infine, è ricordato che suo primo compito è quello di verificare tempestività (e perciò anche l'ammissibilità) dell'impugnazione proposta, atteso il dovere di rilevare d'ufficio la formazione di eventuali giudicati. In proposito si afferma che si tratta di un preliminare accertamento in fatto che compete ad ogni giudice d'impugnazione, anche a quello di legittimità, al quale è riconosciuta ampia facoltà di accertamento del fatto processuale, essendo allo scopo anche disciplinati dall'art. 372 i termini di un'istruttoria documentale, come risulta dalla prevista possibilità di depositare in cassazione documenti riguardanti l'ammissibilità del ricorso e del controricorso. Questo accertamento va condotto in maniera rigorosa, posto che all'interesse di una parte a veder affermata la tempestività della propria impugnazione corrisponde l'interesse della controparte al rilievo di un eventuale giudicato, soprattutto se si considera che l'apposizione della doppia data è sintomatica di una situazione gravemente disfunzionale che, nel migliore dei casi, testimonia disorganizzazione, ignavia ed ignoranza.

La rimessione in termini consente alla parte di essere ammessa ad esercitare una facoltà processuale dalla quale è decaduta allorchè la preclusione è dovuta ad una causa ad essa non imputabile. Una siffatta causa può essere individuata in un diverso modo di intendere il dettato di una norma, ad opera di una pronuncia giurisprudenziale, che venga a sorprendere l'affidamento sino ad allora fondato dalla parte sull'orientamento che viene sconfessato. A questo istituto avevano fatto riferimento le Sezioni Unite con la sentenza 13794/2012 e l'accenno era stato ripreso dalla Corte costituzionale nella ricordata decisione n. 3/2015. La concreta possibilità di un soccorso ottenibile dalla rimessione in termini è documentato dalla decisione di Cass. 22 maggio 2015, n. 10675, così massimata: «In caso di doppia data – di deposito e di pubblicazione – apposta dal cancelliere sulla sentenza, si intende rimessa in termini e non decaduta la parte che abbia proposto l'impugnazione nel termine “lungo” decorrente non dalla data di deposito ma dalla successiva data di pubblicazione, qualora emerga dagli atti, anche per implicito, che dall'attestazione del deposito non sia derivata la conoscenza della sentenza».

Se, ora, si ammette che, nel caso di duplicità di date, devesi considerare quella cronologicamente successiva, ogni questione riferita all'utilità della rimessione in termini perde, evidentemente, ogni rilevanza. In proposito già la Consulta aveva affermato che il riferimento alla rimessione in termini per causa non imputabile, effettuato dalle sezioni Unite nel 2012 (pur da considerare utile strumento di chiusura equitativa del sistema in situazioni particolari), andava inteso come un doveroso riconoscimento d'ufficio di uno stato di fatto contra legem che, in quanto addebitabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all'impugnazione, riducendo i termini previsti, talvolta anche in misura significativa. Nella loro recente pronuncia le Sezioni Unite hanno dato atto che il richiamo alla rimessione in termini aveva un senso quando era logicamente collegato all'affermazione secondo la quale, ai fini della decorrenza del termine d'impugnazione, era sufficiente il semplice deposito della sentenza attestato dal cancelliere, senza necessità che l'inizio del decorso del termine coincidesse con il momento di effettiva possibilità che la parte venisse a conoscenza dell'avvenuto deposito. In quella prospettiva la detta rimessione costituiva un correttivo per le situazioni limite nelle quali il giudice dell'impugnazione avesse ravvisato la “grave difficoltà” per l'esercizio del diritto di difesa, determinata dall'avere il cancelliere non reso conoscibile la data di deposito della sentenza prima della successiva data attestante la “pubblicazione” della stessa, specie se annotata a notevole distanza di tempo e in prossimità del termine di decadenza (come avvenuto nella specie decisa: intervallo di sette mesi). Ma, una volta stabilito che il termine d'impugnazione decorre dal momento in cui la sentenza è conoscibile (circostanza che si verifica, di regola, con la seconda delle date, se esse sono due), non sembra, conclude la Corte, che possono residuare margini di applicabilità per alcuna ipotesi di rimessione in termini.

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