Ordinanza che determina il compenso degli arbitri e ricorso in Cassazione

13 Gennaio 2017

È ammissibile il ricorso straordinario in Cassazione nei confronti del provvedimento con il quale la Corte d'appello abbia deciso sul reclamo avverso l'ordinanza del Presidente del Tribunale che abbia determinato, ex art. 814 comma 3 c.p.c., il compenso spettante agli arbitri.
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L'art. 814, comma 2, c.p.c., afferma che «quando gli arbitri provvedono direttamente alla liquidazione delle spese e dell'onorario, tale liquidazione non è vincolante per le parti se esse non l'accettano. In tal caso l'ammontare delle spese e dell'onorario è determinato con ordinanza dal Presidente del tribunale indicato nell'art. 810, comma 2, c.p.c. su ricorso degli arbitri e sentite le parti». Il successivo ultimo comma attribuisce a detto provvedimento la natura di titolo esecutivo ed estende la possibilità di reclamo alla Corte d'appello nei termini di cui all'art. 825 ult. comma (quindi entro 30 giorni dalla comunicazione) e la facoltà di sospensione dell'esecutorietà.

Secondo un prevalente indirizzo (peraltro formatosi sulla scorta della disciplina anteriormente vigente rispetto all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 40/2006, ma ribadito anche successivamente) il procedimento di cui all'art. 814 c.p.c. avrebbe natura di giurisdizione volontaria non contenziosa, che si conclude con un provvedimento a base essenzialmente privatistica (in pratica un procedimento di integrazione della volontà negoziale al pari di quello previsto dall'art. 1349, comma 1, c.c.). Lo schema procedimentale camerale, tuttavia, non è di per sé essenziale nella qualificazione del provvedimento che ne costituisce l'atto terminale. Infatti, come noto, vi sono più procedimenti camerali nei quali la natura decisoria del provvedimento che li conclude non può essere messa in dubbio (ad es. Cass. 30 ottobre 2009, n. 23032 in tema di ricorso in Cassazione avverso provvedimento della Corte d'appello in sede di reclamo ex art. 317-bis c.c.; si pensi anche a Cass., 20 luglio 2015, n. 15131, che nell'affermare il carattere non contenzioso dell'opposizione al rifiuto da parte del Conservatore dei registri immobiliari, legittima il ricorso ex art. 111 Cost avverso il provvedimento che abbia statuito sulle relative spese processuali).

Peraltro la discutibilità dell'orientamento tradizionale, volto a negare in questa materia il ricorso alla Suprema Corte, rischiava di apparire ancora più evidente dopo che la Cassazione nel 2013 (ord. n. 24153/2013), avendo riferimento ad un caso di arbitrato estero, ma con osservazioni allargate ad una complessiva rivisitazione dell'arbitrato rituale, aveva affermato che «l'attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 5 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione».

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ORIENTAMENTO CHE RITIENE INAMMISSIBILE IL RICORSO STRAORDINARIO IN CASSAZIONE AVVERSO L'ORDINANZA PRESIDENZIALE DI DETERMINAZIONE DEL COMPENSO AGLI ARBITRI

Ripetute pronunce della Corte di Cassazione hanno affermato in passato la non impugnabilità davanti ai giudici di legittimità del provvedimento presidenziale di determinazione del compenso degli arbitri che non sia stato oggetto di spontanea accettazione delle parti.

Si può ricordare, in particolare, la non risalente decisione di Cass., Sez. Un., 31 luglio 2012, n. 13620, la quale aveva ancora ribadito che «è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 Cost., proposto avverso provvedimento del competente presidente del tribunale, relativo alla determinazione del compenso e delle spese dovuti agli arbitri, ex art. 814, secondo comma, c.p.c., dovendosi confermare l'orientamento ancora recentemente espresso dalle Sezioni Unite». In motivazione si era giunti ad affermare che «benché non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello "stare decisis", essa costituisce, tuttavia, un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente nell'ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un'interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomofilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative; in particolare, in tema di norme processuali, per le quali l'esigenza di un adeguato grado di certezza si manifesta con maggiore evidenza, anche alla luce dell'art. 360-bis, primo comma, n. 1, c.p.c. (nella specie, non applicabile "ratione temporis"), ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, deve preferirsi quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione».

In realtà, a ben vedere, le Sezioni unite alle quali il provvedimento del massimo consesso del 2012 aveva fatto riferimento risalivano al 3 luglio 2009, n. 15586, la cui motivazione poggiava su di un quadro normativo antecedente le modifiche apportate dal d.lgs. n. 40/2006, quindi ben difficilmente giustificabili nel nuovo contesto legislativo di riferimento. Infatti, le Sez.Un. del 2009 avevano ritenuto che «in tema di determinazione del compenso e delle spese dovuti agli arbitri dai conferenti l'incarico, secondo il regime previgente alla novella recata dal d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, qualora, in assenza di espressa rinunzia da parte degli aventi diritto, il contratto di arbitrato non contenga la relativa quantificazione, esso è automaticamente integrato, in base all'art. 814 c.p.c., con clausola devolutiva della pertinente determinazione al presidente del tribunale, il quale, una volta investito (con ricorso proponibile anche disgiuntamente da ciascun componente del collegio arbitrale) in alternativa all'arbitratore, svolge una funzione giurisdizionale non contenziosa, adottando un provvedimento di natura essenzialmente privatistica. Ne consegue che detto provvedimento è privo della vocazione al giudicato e, dunque, insuscettibile di impugnazione con ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 cost.; tale natura del procedimento, inoltre, esclude l'ipotizzabilità di una soccombenza ed osta, pertanto, all'applicazione del relativo principio ed all'adozione delle conseguenziali determinazioni in tema di spese».

Tuttavia, forse in modo tralatizio, ancora nel 2013 l'orientamento tradizionale era stato ribadito: «in tema di determinazione del compenso e delle spese dovuti agli arbitri dai conferenti l'incarico, è inammissibile, anche nel regime previsto dall'art. 814 c.p.c. nella nuova formulazione introdotta dall'art. 21 d.lg. n. 40/2006, il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell'art. 111 cost., proposto avverso l'ordinanza resa dalla corte di appello in sede di reclamo contro il provvedimento del competente presidente del tribunale e relativa alla quantificazione del compenso, trattandosi di provvedimento adottato nell'ambito di una attività non giurisdizionale contenziosa ma sostanzialmente privatistica e, dunque, priva di natura decisoria ed attitudine al giudicato» (Cass. 8 febbraio 2013, n. 3069).

Si era altresì osservato, sotto un distinto ed ancor valido punto di vista, che «non sussiste alcuna pregiudizialità in senso tecnico giuridico fra il giudizio di impugnazione del lodo arbitrale e il procedimento inerente alla liquidazione del compenso degli arbitri, di talché la pendenza del giudizio di impugnazione del lodo per nullità, fondata sulla illegittimità dell'investitura degli arbitri, non impedisce al presidente del tribunale di liquidare il compenso per l'opera prestata ai sensi dell'art. 814 c.p.c., essendo la sua competenza limitata alla determinazione del quantum senza che egli possa conoscere della denuncia di eventuali vizi del procedimento arbitrale» (cfr. Cass. 7 settembre 2012 n. 15051).

Si può quindi ritenere che l'orientamento tradizionale, del tutto maggioritario, fondasse la ritenuta non impugnabilità in Cassazione del provvedimento presidenziale su di una sorta di natura non giurisdizionale in senso tecnico, bensì di volontaria giurisdizione integrativa dell'autonomia privata che, tuttavia, proprio la riforma del 2006, nel riconoscere la possibilità di reclamo alla Corte d'appello, veniva a mettere in discussione.

ORIENTAMENTO CHE RITIENE DETTA ORDINANZA ESPRESSIONE DI ATTIVITA' GIURISDIZIONALE DECISORIA SU DIRITTI SOGGETTIVI

L'orientamento appena ricordato appariva del tutto maggioritario e pressochè incontrastato nella giurisprudenza di legittimità successiva al 2009. Bisogna infatti risalire sino al 2003 per ritrovare un indirizzo diverso, ove Cass., Sez. 1, 15 aprile 2003, n. 5950, aveva ritenuto che «l'ordinanza con la quale il presidente del tribunale provvede, ai sensi dell'art. 814 c.p.c., alla liquidazione dell'onorario e delle spese agli arbitri, avendo carattere decisorio, in quanto diretta a risolvere il conflitto di interessi tra gli arbitri e le parti del procedimento arbitrale, e non essendo soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione, nè revocabile o modificabile dal giudice che l'ha emessa, è impugnabile in cassazione, a norma dell'art. 111, comma 7, cost., per violazione di legge, con riferimento sia alle norme regolatrici del rapporto sostanziale controverso, sia alla legge regolatrice del processo».

Come si è già osservato, la rivisitazione dei rapporti fra giudice ordinario ed arbitrato rituale, operata da Cass. (ord) n. 24153/2013, appariva più compatibile con questo secondo orientamento, considerato che se l'attività di detti arbitri va ricondotta all'esercizio dell'attività giurisdizionale, secondo un rapporto di competenza con il G.O., allora anche le questioni riguardanti le spese di tale procedimento avrebbero natura processuale ed il relativo provvedimento inciderebbe su una situazione di contrasto concernente diritti soggettivi.

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La prima sezione della Cassazione, con il provvedimento interlocutorio dell'8 marzo 2016, n. 4517 (ord) ha ritenuto che «vanno rimessi gli atti al Primo Presidente affinché valuti l'opportunità che la Corte di Cassazione pronunci a Sezioni Unite sulla questione di massima importanza, ai sensi dell'art. 374, secondo comma, ultima parte, c.p.c., riguardante la natura del procedimento di cui all'art. 814 c.p.c., previsto per la liquidazione del compenso agli arbitri, in particolare al fine di stabilire se l'ordinanza conclusiva del procedimento in parola sia suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.». In motivazione la prima sezione della Corte ha rilevato come la giurisprudenza successiva alla pronuncia delle S.U. del 2012 si fosse forse troppo affrettatamente allineata all'indirizzo contrario all'ammissibilità del ricorso straordinario in cassazione senza tenere in sufficiente considerazione che il decisum del 2012 non aveva in sostanza aggiunto alcun argomento ulteriore alla statuizione delle S.U. del 2009, mostrando di aderire a queste ultime più per ragioni di certezza del diritto e di ordine pratico, che per un vero e meditato ripensamento delle questioni alla luce della riforma dell'arbitrato nel frattempo entrata in vigore. Si deve infatti ricordare che la pronuncia del 3 luglio 2009 riguardava una fattispecie anteriore all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 40/2006 che, oltre ad introdurre un maggior tasso di “giurisdizionalizzazione” in termini più generali dell'intero arbitrato rituale, aveva in particolare previsto il reclamo alla Corte d'appello avverso l'ordinanza presidenziale emessa nel procedimento ex art. 814 c.p.c.. Da cui il dubbio, influente sulla stessa soluzione della problematica e costituente questione di “massima importanza”, che anche questo procedimento avesse “mutato pelle” in senso giurisdizionale, finendo per dare luogo ad una decisione su diritti controversi potenzialmente definitiva.

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La diffusa e completa motivazione della decisione in esame ripercorre i due indirizzi appena ricordati, passando in rassegna le pronunce a sostegno dell'uno o dell'altro orientamento.

Si afferma, tuttavia, come proprio l'entrata in vigore del D.Lgs. 40/2006 - così come del resto già acutamente osservato dalla Cassazione n. 24153/2013 in tema di rapporto di competenza e non di giurisdizione fra arbitri rituali e G.O. - debba oggi far propendere l'interprete per una convinta adesione alla tesi minoritaria, che ammette in questo ambito il ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost.

In primo luogo, si ribadisce che il procedimento di cui all'art. 814 c.p.c. non riposa su di un fondamento volontaristico, ma costituisce, al pari dell'arbitrato rituale cui si collega, espressione di un'attività giurisdizionale contenziosa.

Condivisibilmente, ancora, vengono illustrati i presupposti della decisorietà e definitività del provvedimento, al fine di censirne la sua attitudine al giudicato, ciò che si riconosce:

  • nell'incidenza su diritti soggettivi;
  • nell'impossibilità di revoca o modifica attraverso l'esperimento di altro rimedio giurisdizionale.

A tal punto, si rileva che l'ordinanza emessa dal Presidente ai sensi dell'art. 814 c.p.c. è un vero e proprio provvedimento di determinazione in contraddittorio di compensi professionali, incidente su diritti soggettivi, che deve pertanto confrontarsi con analoghi procedimenti per i quali si è da tempo ammesso la ricorribilità in Cassazione, indipendentemente dalla forma dell'atto conclusivo (ad es. procedimento camerale e sommario per la determinazione degli onorari degli avvocati; opposizione al decreto di liquidazione degli onorari spettanti all'ausiliare del giudice; liquidazione dei compensi in ambito fallimentare).

Non osta a tale conclusione il fatto che le parti o gli arbitri possano, alternativamente ricorrere ad un processo ordinario o monitorio per la determinazione ed esazione del compenso. Il rapporto fra il procedimento speciale di cui all'art. 814 c.p.c., indipendentemente dalla semplificazione delle sue forme, e la tutela ordinaria, infatti, deve essere vista in termini di analoga attitudine al giudicato, con la conseguenza che una volta formatosi quest'ultimo in uno dei due giudizi resta precluso all'altro di emanare pronuncia sulla stessa controversia.

Tanto premesso, nel merito, la Corte ha ravvisato l'erroneità della pronuncia della Corte nella parte in cui aveva ritenuto abrogate le precedenti tariffe forensi di cui al d.m. n. 147/2004. Peraltro, stante la composizione “mista” del collegio arbitrale, la ratio decidendi volta a compiere comunque riferimento alle citate tariffe quale parametro di commisurazione equitativo del quantum è stata giudicata corretta (v. in proposito Cass. n. 53/2003) ed autosufficiente nonostante il primo errore di diritto, considerato che la conclusione raggiunta poteva fondarsi anche soltanto su una delle due distinte rationes decidendi esposte dai giudici di secondo grado. E'stato invece ritenuto un errore evidente, nel provvedimento impugnato, l'aver utilizzato quale criterio equitativo di determinazione del compenso degli arbitri quello del valore della domanda (620 milioni di Euro), piuttosto che il contenuto della somma attribuita con il lodo (10 milioni), considerato che i giudici di merito avrebbero dovuto necessariamente applicare l'art. 6 delle citate tariffe, sia perché norma vigente (diversamente da quanto ritenuto), sia perché l'utilizzazione equitativa delle tabelle di cui al d.m. n. 147/2004 si doveva necessariamente accompagnare ai principi generali che ne costituivano premessa applicativa.

In definitiva, ammesso il ricorso in Cassazione ex art. 111 Cost. e così risolta la questione di massima sollevata dalla prima sezione, le Sez. Un., 7 dicembre 2016, n. 25045, hanno cassato con rinvio il provvedimento della Corte d'appello di Roma emesso in sede di reclamo avverso l'ordinanza presidenziale prevista dall'art. 814 commi 2 e 3 c.p.c..

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