L'inibitoria in appello ex art. 283 c.p.c.: quando le incertezze applicative rischiano di sfociare in una interpretatio abrogans

08 Luglio 2022

Il Focus ripercorre, in estrema sintesi, gli indirizzi interpretativi che si sono delineati con riguardo ai provvedimenti sull'esecuzione provvisoria in appello, disciplinati dall'art. 283 c.p.c. e dall'art. 351 c.p.c.
Introduzione

Il presente contributo si pone l'obiettivo di ripercorrere, in estrema sintesi e senza alcuna pretesa di esaustività, gli indirizzi interpretativi che si sono delineati con riguardo ai provvedimenti sull'esecuzione provvisoria in appello, disciplinati – quanto a contenuto, presupposti ed effetti – dall'art. 283 c.p.c. e, per quanto concerne i profili strettamente procedurali, dall'art. 351 c.p.c. Particolare attenzione verrà posta su uno dei presupposti che devono sussistere per la concessione del rimedio cautelare, ossia il periculum in mora: l'espressione “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti” utilizzata dal legislatore, diviene, infatti, talora oggetto di un'interpretazione giurisprudenziale eccessivamente restrittiva che porta con sé il rischio di disapplicare di fatto l'istituto.

Breve ricostruzione delle vicende legislative

La prima riforma della disciplina dell'inibitoria prevista dal codice del 1940 è avvenuta ad opera della l. 26 novembre 1990 n. 353. Mentre nel vigore della previgente formulazione il legislatore aveva optato per un effetto sospensivo dell'appello operante ope iudicis in casi predeterminati, con la riforma del 1990 si è inteso delineare i presupposti e i limiti per l'esercizio di tale facoltà giudiziale. Modifiche sono state, quindi, introdotte con la l. 28 dicembre 2005 n. 263 e con la successiva l. 12 novembre 2011, n. 183.

La prima ha riscritto l'art. 283 c.p.c. sostituendo la precedente formula “gravi motivi” con l'espressione “gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”, ammettendo altresì la possibilità di subordinare la concessione dell'inibitoria alla cauzione.

La riforma del 2011, ai fini che qui interessano, ha apportato due importanti modifiche: da un lato, ha attribuito al giudice il potere di comminare una sanzione pecuniaria a carico della parte che abbia presentato un'istanza sospensiva inammissibile o manifestamente infondata e, dall'altro, ha previsto la non impugnabilità dell'ordinanza che decide sull'inibitoria. La ratio sottesa all'introduzione della pena pecuniaria è ovviamente ravvisabile nell'intento del legislatore di arginare il fenomeno della presentazione delle istanze inibitorie – del tutto inammissibili o infondate – al mero scopo di differire l'esecuzione della sentenza di primo grado.

I gravi e fondati motivi: orientamenti a confronto

Prima dell'intervento di riforma del 2005 la concessione dell'inibitoria, come detto, era subordinata alla presenza di “gravi motivi”.

L'espressione utilizzata dal legislatore aveva generato già allora un dibattito indirizzato per lo più a circoscrivere il perimetro applicativo di una formulazione ritenuta alquanto elastica.

L'indirizzo giurisprudenziale prevalente riteneva che fosse necessaria la compresenza tanto del periculum – consistente in gravi e seri pregiudizi per la parte soccombente in primo grado – quanto del fumus, ossia la delibazione sulla sommaria fondatezza dell'atto d'appello (cfr. App. Bari, ord. 7 luglio 2004).

Secondo un altro orientamento, invece, l'inibitoria poteva essere concessa addirittura in presenza del solo fumus, il quale dunque rivestiva un ruolo fondamentale, se non addirittura totalizzante.

Di contro, vi era un terzo indirizzo per il quale la presenza del periculum bastava a conferire all'istanza di sospensione un'autonoma giustificazione (cfr. App. Milano, ord. 26 giugno 2003).

Il dibattito, in definitiva, verteva essenzialmente sulla sussistenza dei due presupposti che avrebbero potuto essere presenti in via alternativa o cumulativa.

La novella del 2005 non sembra avere dissipato le incertezze interpretative.

Secondo un primo indirizzo, l'espressione “gravi e fondati motivi” imporrebbe al giudice un'attività investigativa da esercitarsi con maggiore profondità e latitudine rispetto al passato. La Corte d'appello, in particolare, sarebbe chiamata a pronunciarsi su una prognosi di fondatezza dell'impugnazione e, al contempo, a confrontare i pregiudizi e i pericula incombenti sulle parti (cfr. App. Milano, ord. 16 gennaio 2017; App. Potenza, ord. 26 luglio 2017; App. Napoli, ord. 9 maggio 2018). In una tale prospettiva, si ritiene concedibile il rimedio cautelare anche nelle ipotesi in cui fumus e periculum non assumano ex se un particolare rilievo ma quando, nel loro insieme, essi risultino sufficienti per inibire l'inizio o la prosecuzione del processo esecutivo, dovendo il giudice del merito procedere ad una valutazione dei due presupposti per sommatoria algebrica.

Non manca chi, tuttavia, ritiene che la fondatezza dell'impugnazione possieda in ogni caso un autonomo rilievo e ciò per due ragioni: se l'impugnazione è palesemente infondata, non potrebbe dirsi ingiusto il danno derivante dall'esecuzione di una sentenza destinata ad essere confermata in appello e, in secondo luogo, dinanzi ad un appello destinato all'accoglimento, la sospensione potrà essere comunque ordinata anche in assenza di un periculum consistente, al fine di evitare un'esecuzione che diverrebbe illegittima all'esito dell'impugnazione.

Parte della dottrina, peraltro, ritiene che, con l'utilizzo dell'espressione “fondati motivi, il legislatore avesse voluto restituire “dignità valutativa” al fumus dell'impugnazione, contrariamente a chi, invece, non ravvisa nella nuova formulazione alcuna portata innovativa, trattandosi di una mera codificazione di obiettivi già raggiunti in via interpretativa.

Quanto, poi, ai gravi motivi, appare pacifico che il danno “grave” sia da ricollegarsi ad un pregiudizio diverso e ulteriore rispetto a quello normalmente insito nell'esecuzione forzata.

In tale solco, il legislatore del 2005 ha inserito altresì il riferimento alla “possibilità di insolvenza di una delle parti” tra i criteri che devono – o, come si dirà nel prosieguo, dovrebbero – orientare la decisione della Corte d'appello. Il succitato inciso, in particolare, opera un chiaro riferimento al c.d. “pericolo di danno da infruttuosità”, rappresentato tanto dal rischio di non recuperare quanto corrisposto in esecuzione della sentenza oggetto di gravame, quanto dall'eventualità che, in assenza dell'inibitoria, l'esecuzione del provvedimento impugnato possa ingenerare un potenziale dissesto in capo al debitore.

Un orientamento di merito, peraltro, ammette la possibilità di concedere la sospensiva anche laddove possa sussistere una mera difficoltà di ottenere la restituzione di quanto prestato (cfr. App. Potenza, ord. 26 luglio 2017).

In dottrina si è altresì sottolineato come la possibile futura insolvenza del creditore in primo grado, in rapporto all'eventuale riforma della sentenza impugnata e al conseguente obbligo di restituzione di quanto ricevuto, costituisca addirittura una tipizzazione del “grave motivo”, in grado di assurgere ad unico motivo di per sé sufficiente ai fini dell'accoglimento dell'inibitoria (si pensi al caso del creditore che abbia debiti ben maggiori della somma liquidatagli con il provvedimento appellato).

Segue: l'orientamento restrittivo

Va, a questo punto, dato conto di un filone giurisprudenziale particolarmente limitativo nel riconoscere la sussistenza del periculum ex parte debitoris.

Secondo questo indirizzo, l'insussistenza di beni immobili nel patrimonio del creditore in primo grado non può di per sé costituire un indizio sufficiente per fondare un ragionevole timore che, in caso di riforma in appello, questi non possa restituire gli importi ricevuti.

La Corte d'Appello di Potenza, con la citata ordinanza del 26 luglio 2017, ha, ad esempio, ritenuto insussistente il periculum “…giacché, da un lato, la pronuncia di condanna ha ad oggetto una somma di denaro che non si palesa di per sé significativamente consistente [nella specie, si trattava di poco più di 40.000 euro] e tale, comunque, da costituire, da sola, valido indizio per la configurabilità di un pregiudizio patrimoniale in danno all'ente appellante e, dall'altro, non risulta comprovata la sussistenza di elementi oggettivi a riscontro del pericolo di non ottenere, in caso di accoglimento del gravame, la restituzione di quanto pagato alla controparte in esecuzione della sentenza impugnata, non valendo a tal fine richiamare soltanto la circostanza che il […] non risulti titolare di diritti su beni immobili giacché tanto non esclude la sussistenza nel patrimonio dell'appellato di beni mobili di valore e di risorse finanziarie sufficienti e, comunque, non comprova uno stato di insolvenza dello stesso appellato”.

Analogamente, la Corte d'Appello di Trieste, con la recente ordinanza del 16.02.2022, ha ritenuto, quanto al periculum, che “la mancanza di proprietà immobiliari in capo alla signora X non è un dato sufficiente, in difetto di ulteriori elementi probatori, per fondare un ragionevole timore che quella nel caso di accoglimento dell'appello non sia in grado di restituire quanto ricevuto in esecuzione della sentenza appellata [nella fattispecie, si trattava di oltre 320.000 euro in linea capitale]”.

La stessa Corte d'Appello di Trieste, con ordinanza pronunciata in data 9.02.2022, ha rigettato l'istanza di sospensiva, domandata da un'Azienda sanitaria debitrice in primo grado dell'importo capitale di € 370.000, ritenendo, quanto al periculum, che: “l'iscrizione di due distinte ipoteche, una a carico dell'immobile di proprietà della signora X e l'altra su quello di proprietà della signora Y a garanzia di due distinti mutui fondiari piuttosto che apparire significativa di una loro situazione di difficoltà finanziaria, costituisce indice della loro affidabilità a restituire il denaro ricevuto perché, se fosse altrimenti, la banca difficilmente avrebbe concesso i due prestiti”.

Le tre ordinanze appena esaminate – deve sottolinearsi - avevano altresì escluso la sussistenza del fumus in sede di delibazione sommaria.

Osservazioni conclusive

Un dato di partenza che pare ineludibile è rappresentato dalla disposizione dell'art. 283 c.p.c. alla luce dell'ultimo rimaneggiamento legislativo del 2005.

Il criterio della “possibilità di insolvenza di una delle parti” appare certamente un dato sul quale il giudice del merito deve attentamente confrontarsi e soffermarsi, dovendo egli soppesare, con sensibilità ed equilibrio, le reciproche posizioni delle parti come se si trovasse a gestire un delicato sistema di vasi comunicanti.
Andranno, pertanto, scongiurati due rischi: da un lato, che l'esecuzione della sentenza finisca per sbilanciare il debitore in primo grado e non solo sotto il profilo eminentemente finanziario (si pensi, ad es., ad un ente pubblico, dove tale minaccia di destabilizzazione economica potrebbe astrattamente anche non manifestarsi), dovendosi anche traguardare il rischio di un'esecuzione infruttuosa in caso di riforma del provvedimento impugnato (ed in tale caso, la mancata concessione dell'inibitoria suonerebbe in modo beffardo per chi ha avrà poi ottenuto ragione in appello, perché non potrà più ottenere quanto versato, in tutto o in parte, in esecuzione del provvedimento di primo grado); dall'altro, che la concessione del rimedio cautelare non immobilizzi capitali che, qualora non incamerati, potrebbero pregiudicare esizialmente l'equilibrio finanziario del creditore (si pensi ad un ingente importo liquidato in primo grado a favore di una piccola o media impresa).

Appare maggiormente bilanciata, sotto questo profilo, la linea interpretativa che richiede alla Corte di delibare sommariamente il fumus, quasi – si potrebbe aggiungere - secondo una scansione diacronica rispetto alla valutazione d'inammissibilità dell'impugnazione ex art. 348 bis c.p.c. (quando questa, cioè, non ha una ragionevole probabilità di essere accolta) e, contestualmente, di sottoporre a serrato scrutinio le conseguenze dei diversi pregiudizi potenzialmente incombenti sulle parti.

Ed ancora, sempre nell'ottica del perseguimento del più corretto equilibrio degli interessi in gioco, la Corte avrà agio di utilizzare il rimedio stabilizzatore - invero poco impiegato nella pratica - rappresentato dall'imposizione della cauzione non solo a carico della parte che si avvantaggia dell'inibitoria (unica ipotesi in cui, secondo la prevalente dottrina, il provvedimento impositivo risulterebbe ammissibile), ma anche, nel silenzio della legge e a determinate condizioni, a carico di quella che dovrebbe subirla (un'interessante applicazione, ancorché in tema di inibitoria ex art. 373 c.p.c., si rinviene nell'ordinanza della Corte d'Appello di Trieste: ”considerato che la valutazione dei presupposti della richiesta sospensione deve riguardare, sotto il profilo soggettivo, la sussistenza di un'eccezionale sproporzione tra il vantaggio che può ricavare il creditore dall'esecuzione ed il pregiudizio che ne deriva all'altra parte, tale da apparire superiore a quello di norma conseguente all'esecuzione forzata e, invece, sotto il profilo oggettivo, la ricorrenza di una situazione di pregiudizio irreversibile ed insuscettibile di restitutio in integrum; considerato che a riguardo i ricorrenti hanno evidenziato il rilevante importo da versarsi in forza della sentenza di appello e di contro la consistenza delle risorse economiche e reddituali e delle proprietà immobiliari della resistente che non paiono dare garanzia di solvibilità della stessa, ed essere inoltre le medesime sulla base delle quali era stata concessa la sospensione della sentenza di primo grado impugnata; […] ritenuto che la resistente ha promosso l'esecuzione della sentenza; considerato che dalle circostanze dedotte dai ricorrenti non risulta evidente un grave ed irreparabile che legittima la sospensione dell'esecuzione ex art. 373 c.p.c., in quanto questo non può consistere nel subire gli effetti della condanna pronunciata, mentre le risorse della istante non risultano tali da escludere la insolvibilità dell'accipiens […]; ritenuta pertanto l'incertezza della situazione di specie; visto l'art. 373 c.p.c. in forza del quale il giudice può disporre che venga prestata un congrua cauzione, ritiene questa Corte che ricorrano i presupposti per porre una cauzione a carico dell'odierna resistente e che, alla luce della pronuncia gravata, la stessa sia congrua nella misura di € 500.000,00 da prestarsi mediante fideiussione bancaria a prima richiesta per detto importo, rilasciata da primario istituto di credito […]”)

Di certo, se davvero, in sede cautelare, si dovesse accreditare la linea interpretativa che esclude il periculum anche in assenza di beni del creditore (ovviamente immobili) a conforto del richiedente l'inibitoria per la restituzione degli importi versati, si giungerebbe ben presto alla disapplicazione pratica dell'istituto, giacché non vi è alcun altro modo per l'istante di provare – sempre in questa stessa sede - l'impalpabilità patrimoniale avversaria se non mediante il deposito delle visure immobiliari (alle quali possono, al limite, aggiungersi quelle relative alle partecipazioni societarie).

Alla fine, l'interpretazione utile sopra condivisa apporterebbe il vantaggio di salvare l'istituto cautelare dall'inevitabile depotenziamento operato da un'accezione eccessivamente restrittiva del periculum, tale da rendere l'inibitoria nient'altro che un simulacro di rimedio, uno strumento desolatamente spuntato.

Rifermenti
  • Impagnatiello G., L'appello civile (II parte) – i provvedimenti sull'esecuzione provvisoria, in Giur. It., 2, 2019, pp. 456 ss.;
  • Lombardi V., Il periculum dell'art. 283 c.p.c.: concordanze e discordanze tra le corti di merito, in www.judicium.it
  • Lombardi V., L' (enigma dell') art. 283 c.p.c. in una recente pronuncia sulla sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata: contraddizioni odiose, oneri inesigibili, auspicabili rimedi per la parte infine vittoriosa, in www.judicium.it
  • Scognamiglio V., La sospensione dell'efficacia esecutiva e dell'esecuzione delle sentenze di primo e di secondo grado impugnate in appello ed in cassazione – Il commento, in Società, 3, 2018, pp. 339 ss.

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