Caso "Impregilo": il nesso intercorrente fra colpa di organizzazione e commissione del reato presupposto

Ciro Santoriello
07 Luglio 2022

La sentenza in esame contiene una molteplicità di spunti di interesse, in quanto affronta diversi (e centrali) profili problematici della disciplina in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi. In questa sede, verranno approfonditi gli aspetti relativi al cd. nesso di imputazione oggettivo del fatto di reato alla persona giuridica, individuando quale rapporto debba intercorrere fra il profilo di colpevolezza dell'ente, rappresentato dal deficit organizzativo riscontrabile al suo interno, e la commissione dell'illecito a vantaggio o nell'interesse della società.
Premessa. Il ruolo della previsione della colpa di organizzazione nel sistema della responsabilità da reato degli enti

Come è noto, nel disegno del d.lgs. n. 231/2001 la responsabilità dell'ente trae origine da una fattispecie complessa nell'ambito della quale il fatto di reato rappresenta un mero presupposto che non esaurisce l'orizzonte degli elementi costitutivi dell'illecito attribuito alla società. Alla commissione del delitto, infatti, devono affiancarsi, per individuare una responsabilità dell'ente, sul piano oggettivo la circostanza che il reato sia stato commesso da determinati soggetti che abbiano un rapporto qualificato con la persona giuridica ed abbiano agito nell'interesse o a vantaggio di quest'ultima; sul piano soggettivo, invece, occorre che all'interno dell'ente che si pretende coinvolto e compartecipe della vicenda criminale sia rinvenibile quella che si suol denominare come “colpa di organizzazione”, intesa quale deficit organizzativo rispetto ad un modello di diligenza esigibile dalla persona giuridica nel suo insieme.

La previsione di questa forma di partecipazione della società alla vicenda a cagione della censurabile compliance aziendale consente di escludere che il d.lgs. n. 231/2001 abbia delineato per le aziende una ipotesi di responsabilità oggettiva giacché al mero dato oggettivo rappresentato dalla commissione di un illecito nell'interesse o a vantaggio della società deve accompagnarsi una colpevolezza dell'ente consistente per l'appunto nel non aver provveduto alla predisposizione dei necessari accorgimenti preventivi idonei ad incidere, ridimensionandone la rilevanza, sul rischio del verificarsi di determinati illeciti.

Può dirsi, dunque, che se nel d.lgs. n. 231/2001 riveste assoluta centralità il profilo della (mancata) adozione di un satisfacente assetto organizzativo in cui siano presenti cautele impeditive di altrui illeciti, indubbia rilevanza va altresì riconosciuta alla circostanza che tale censurabile compliance abbia fatto in qualche modo da presupposto per la commissione dell'evento reato, sì da doversi escludere che la responsabilità dell'ente (possa essere abbandonata) sulle secche della strict liability. Si deve ritenere, quindi, che, pur se la colpa di organizzazione è l'oggetto ed il contenuto del rimprovero da muovere all'ente, il legislatore richieda una reazione penalistica non a fronte di una qualsivoglia forma di disorganizzazione ma solo in relazione a quelle censurabili scelte di strutturazione aziendale che abbiano una determinata connessione con l'illecito effettivamente verificatosi.

Depongono in tale senso alcuni chiari indici normativi. In relazione al fondamento della responsabilità dell'ente, gli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/2001 fanno riferimento non ad un generico apprezzabile assetto organizzativo dell'impresa ma alla necessità che lo stesso sia idoneo «a prevenire reati della specie di quello verificatosi» (art. 6, comma 1, lett. a) ovvero alla circostanza che «la commissione del reato [sia] stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza» (art. 7, comma 1); per quanto attiene, invece, alla determinazione della risposta sanzionatoria, l'art. 13 comma 1, lett. a) annovera fra i presupposti applicativi delle sanzioni interdittive la circostanza che il delitto sia stato determinato o agevolato da gravi carenze organizzative.

Se, dunque, sul piano tanto giuridico quanto sul piano, per così dire, fenomenico la fattispecie incriminatrice della persona giuridica non può prescindere dalla condotta materiale della persona, diventa necessario individuare quale sia il nesso, il collegamento fra i due presupposti che vanno a comporre l'illecito plurisoggettivo disegnato dal d.lgs. n. 231/2001 e rappresentati dal reato commesso dal singolo e la colpa di organizzazione dell'ente.

Il reato presupposto della responsabilità degli enti quale “condizione obiettiva di punibilità”?

E' evidente che la domanda con cui abbiamo concluso il precedente paragrafo (ovvero la definizione della natura della connessione fra disorganizzazione e commissione del delitto presupposto) non avrebbe ragione di porsi laddove si aderisse alla tesi secondo cui il d.lgs. n. 231/2001 richiamerebbe una responsabilità autonoma dell'ente, focalizzata su una rimproverabilità essenzialmente organizzativa che salda la responsabilità dell'impresa alla sola non adeguatezza della “macrostruttura preventiva” che essa ha l'onere di adottare, per cui alla società andrebbe rimproverato “un colposo modo di essere organizzato”, la cui rilevanza sul piano sanzionatorio emergerebbe in presenza della commissione di un fatto illecito avente caratteristiche definite (inerenti al ruolo del responsabile all'interno della società ed alle ragioni che ne hanno determinato la realizzazione).

All'interno di una tale impostazione, infatti, il reato del singolo assumerebbe la natura di condizione obiettiva di punibilità, e diventerebbe dunque irrilevante la presenza (o meglio la mancanza) di un qualsiasi nesso o criterio di connessione fra l'illecito commesso nell'ambito dell'impresa e la colpa di organizzazione della società, la quale colpa «potrebbe essere intesa, più che come vera colpevolezza, come l'autentico fatto della persona giuridica e costituire, pertanto, più che il criterio, l'oggetto ed il contenuto del rimprovero che si muove nei suoi confronti».

Tale conclusione, tuttavia, non può operare nell'ambito della disciplina n. 231/2001 perché, secondo quanto già sottolineato in precedenza, plurime disposizioni evidenziano come non sia consentita la chiamata a giudizio dell'ente sulla base di un rimprovero esclusivamente oggettivo ed in omaggio alla logica del mero versari in re illicita: il legislatore, infatti, prevedendo la necessità, accanto al criterio di attribuzione oggettivo, di un nesso di imputazione soggettivo del reato ha precluso la possibilità di ritenere l'ente, non idoneamente preparato a gestire il rischio reato, responsabile, etiam pro casu, del delitto commesso dalla persona fisica. La colpevolezza dell'ente, dunque, deve essere riscontrata (non in relazione ad un obbligo di adeguatezza degli assetti generico, ma) in relazione allo specifico evento reato di cui si discute.

Posto ciò, però, quale nesso deve allora ricorrere fra delitto e deficit di compliance?

Nessun nesso di causalità materiale fra colpa di organizzazione e commissione del fatto di reato

Parimenti da escludere è la tesi secondo cui la colpa di organizzazione dovrebbe essere legata alla violazione della legge penale da parte del singolo sulla base di un nesso di causalità materiale, come delineato dall'art. 43 c.p.

Nell'ambito della disciplina in tema di responsabilità degli enti collettivi, infatti, al delitto non può essere attribuito il significato di “evento” il cui verificarsi consegue alla presenza in azienda di una colpa di organizzazione.

In primo luogo, tale ricostruzione non è conforme al dato normativo giacché il d.lgs. n. 231/2001 si limita ad affermare all'art. 5 che «l'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio» senza richiedere che la violazione della legge penale possa riconnettersi casualmente alla (non apprezzabile) compliance della persona giuridica. Inoltre, dai successivi artt. 6 e 7 del medesimo testo normativo si evince che se il contributo della società allo svolgersi della vicenda delittuosa con la violazione della legge penale da parte del singolo va rinvenuta nella colpa di organizzazione, al contempo non occorre che tale deficit del sistema abbia cagionato il verificarsi del delitto ma solo aver reso possibile la commissione dello stesso: ciò significa dunque che la società risponde non perché la sua struttura organizzativa ha “causato” il reato (essendo, peraltro, ben difficile ipotizzare che una carenza dell'ente determini causalmente un evento che è rappresentato dall'assunzione da parte della persona fisica di una determinata condotta), ma in ragione del fatto che il deficit organizzativo presente nella società ha consentito o quantomeno facilitato l'adozione delle condotte vietate.

Infine, qualora il reato venisse considerato quale conseguenza casualmente determinata dalla colpa di organizzazione dell'azienda sarebbe ben difficile sfuggire alla logica condizionalistica secondo la quale il verificarsi del delitto dimostrerebbe in maniera inequivocabile l'inidoneità del modello ex d.lgs. n. 231/2001. Infatti, se si asserisce che la commissione di un delitto da parte di un soggetto operante nell'impresa è la conseguenza di una colpa di organizzazione della stessa, allora è evidente che ben potrebbe dimostrarsi la presenza di tale colpevolezza limitandosi a richiamare la circostanza del verificarsi del reato: detto altrimenti, così come può affermarsi l'esistenza di un omicidio doloso in presenza di un accoltellamento essendo notorio che il colpire un soggetto con un coltellata al cuore ne cagionato il decesso, del pari potrebbe facilmente affermarsi che, siccome l'assunzione di una condotta delittuosa all'interno di un'azienda è conseguenza della colpa di organizzazione della stessa, il verificarsi del reato rappresenta l'evento finale della preesistente inadeguatezza del modello organizzativo adottato dall'ente.

Il punto è correttamente ed efficacemente sottolineato nella pronuncia in esame, dove, con riferimento alla valutazione della compliance aziendale, si afferma che «nel giudicare dell'idoneità del modello organizzativo è indiscutibile che non possa assegnarsi rilievo al fatto che un reato sia stato effettivamente consumato: ad opinare diversamente, infatti, qualora un reato venisse realizzato, essendosi il modello rivelatosi, nei fatti, incapace di prevenirne la commissione, la clausola di esonero della responsabilità dell'ente non potrebbe mai trovare applicazione e la citata disposizione normativa sarebbe, di fatto, inutiliter data. La commissione del reato, in altri termini, non equivale a dimostrare che il modello non sia idoneo».

La colpa di organizzazione quale forma di agevolazione colposa dell'altrui condotta delittuosa

Rinunciato a ricostruire la partecipazione della persona giuridica alla vicenda criminale in termini di (quanto meno concorso materiale alla) causazione dell'adozione da parte di terzi di una condotta criminosa, la dottrina è in assoluta prevalenza orientata nel senso di inquadrare il contributo dell'ente alla produzione del reato presupposto secondo schemi assimilabili a quelli che caratterizzano l'agevolazione colposa, per cui la società fornirebbe un apporto che potrebbe ricalcare una tipologia del tutto anomala di concorso morale, una figura debole ed involontaria di istigazione che, attraverso una cultura della devianza sedimentata al suo interno, l'ente eserciterebbe sugli autori individuali.

Il d.lgs. n. 231/ 2001, dunque, individua un paradigma concorsuale anomalo e diverso da quanto previsto in sede di codice penale, rispetto alle cui previsioni la diversità è rinvenibile (non solo nella natura di uno dei concorrenti, che è una persona giuridica e non una persona fisica, ma anche) nei criteri identificativi del contributo rilevante, che non possono iscriversi né nella categoria del nesso di causalità di cui all'art. 43 c.p. né in quelle del concorso fra esseri umani di cui agli artt. 110 e 113 c.p., ma che vanno rinvenuti in un nesso di carattere prettamente normativo fra l'agire disorganizzato della società e la produzione materiale dell'evento da parte del singolo.

Quanto al contenuto del collegamento che il d.lgs. n. 231/2001 pretenda corra fra la colpevolezza dell'ente e la condotta delittuosa del singolo, lo stesso è ricavabile dai presupposti e dalla ratio fondante la disciplina in tema di responsabilità da reato dei soggetti collettivi.

L'idea alla base del coinvolgimento dell'impresa nelle vicende criminali che germinano al suo interno è che il disordine organizzativo consente o comunque facilita la commissione di reati ovvero l'adozione da parte di singoli di condotte distoniche rispetto alle regole, di modo che, nell'ambito dell'attività imprenditoriale, l'individuazione di adeguate soluzioni di compliance elimina i più immediati presupposti di violazione della legge penale, posto che aumentando le condizioni di sicurezza e di affidabilità del sistema organizzativo si eliminano (o comunque se ne riduce l'incidenza) i possibili fattori latenti e le criticità all'origine di un incidente, evitando così altri incidenti. Proprio in ragione della rilevanza che il disordine organizzativo può rivestire in relazione a violazioni della legge penale rende evidente come per la contestazione dell'illecito all'ente sia necessario che si rinvenga un riscontro circa la sussistenza di una connessione fra l'evento delittuoso e (non l'eventuale censurabile compliance, ma, più specificatamente) lo scopo della regola precauzionale violata per cui il fatto illecito realizzato deve rappresentare una concretizzazione del rischio la cui intensità la prescrizione organizzativa violata o non inserita nel modello organizzativo era diretta a diminuire.

Non a caso gli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231/2001 riferiscono il parametro di adeguatezza del modello alla circostanza che lo stesso possa contenere la possibilità di avveramento di fatti del tipo di quello verificatosi: il legislatore vuole evitare che in presenza di un riscontrato deficit organizzativo dell'ente si giunga ad una iper-valorizzazione dei difetti strutturali che però siano risultati eccentrici rispetto allo specifico focolaio di rischio poi verificatosi fondando così la responsabilità dell'ente su un rimprovero squisitamente oggettivo, ed ancora una volta suo vieto canone del versari.

Perché possa affermarsi una responsabilità colposa è insufficiente la realizzazione del risultato offensivo tipico in conseguenza della condotta inosservante di una data regola cautelare, ma «occorre che il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo che la regola cautelare violata era diretta a fronteggiare. Occorre, cioè, una corrispondenza causale tra la violazione della regola cautelare e la produzione del risultato offensivo» (la pronuncia in commento ha escluso la responsabilità dell'ente nonostante in azienda operasse un Organismo di Vigilanza privo di adeguate garanzie rispetto al management tale circostanza non aveva inciso sulle scelte e condotte criminose dei vertici aziendali).

Per le ragioni già menzionate, tuttavia, tale contributo non va ricostruito in termini di causalità materiale ma può essere rappresentato da una facilitazione della condotta criminale altrui, per cui l'ente surroga la sua incapacità naturalistica di azione attraverso una (diversa) capacità organizzativa, che si traduce nell'assegnazione di ruoli (copioni operativi) e nella predisposizione di una strategia operazionale che tende al perseguimento di uno scopo (detto altrimenti ed esemplificativamente: la mancata formalizzazione delle modalità di gestione dei contanti che consente la formazione di “fondi neri” certo non determina causalmente né è presupposto indispensabili per future attività illecite, ma certo la presenza non contabilizzata nelle casse sociali di somme di denaro facilita la commissione di reati come l'evasione fiscale o la corruzione) o potrebbe ricalcare una tipologia del tutto anomala di concorso morale, una figura debole ed involontaria di istigazione che, attraverso una cultura della devianza sedimentata al suo interno, l'ente eserciterebbe sugli autori individuali, nella consapevolezza dell'importanza che assume la cultura e l'attenzione alla legalità nelle strutture complesse (per esemplificare: si pensi ad una società in cui non si reagisca, in sede disciplinare, a plurime e ripetute violazione delle prescrizioni organizzative, instaurando così nei dipendenti la convinzione dell'irrilevanza delle procedure cautelari in funzione di prevenzione del rischio reato).

In ogni caso, è indefettibile la conclusione secondo cui la colpevolezza di organizzazione implica sempre la necessaria ricostruzione di una puntale connessione fra deficit organizzativo ed il singolo fatto criminoso su cui si fonda l'accusa, sicché nella peculiare dinamica che vede combinarsi la responsabilità dell'ente a responsabilità individuali (spesso dolose) l'accertamento anche se non può essere riferito alla presenza di un nesso causale rigoroso fra disordine aziendale e commissione del delitto, deve comunque dirigersi verso la verifica della presenza di un nesso di rischio, rispetto al quale la cautela omessa o negligentemente attuata avrebbe garantito – quanto meno – una apprezzabile riduzione del rischio. Come efficacemente detto nella recente ed illuminata decisione della Cassazione, «il giudice è chiamato ad una valutazione del modello in concreto, non solo in astratto. Tale controllo, tuttavia, è sempre limitato alla verifica dell'idoneità del modello a prevenire reati della specie di quello verificatosi, sicché dev'escludersi che il controllo giudiziario della compliance abbia una portata "totalizzante", dovendo essere rivolto, invece, ad escludere la reiterazione degli illeciti già commessi. Il modello organizzativo, cioè, non viene testato dal giudice nella sua globalità, bensì in relazione alle regole cautelari che risultano violate e che comportano il rischio di reiterazione di reati della stessa specie. E' all'interno di questo giudizio che occorre accertare la sussistenza della relazione causale tra reato ovvero illecito amministrativo e violazione dei protocolli di gestione del rischio».

Dalla teoria dell'”aumento del rischio” alla valorizzazione del cd. comportamento alternativo lecito

Le conclusioni cui si è approdati, se da un lato, nella misura in cui richiedono la verifica di una connessione fra l'evento reato verificatosi e lo scopo della regola precauzionale violata, evitano che il sistema punitivo delineato dal d.lgs. n. 231/2001 sia applicato utilizzando schemi ricalcati sul “tipo di autore”, sulla “colpevolezza per il modo di essere”, dall'altro, rinunciando a rinvenire un nesso causale ex art. 43 c.p. fra i due presupposti (comportamento criminale del singolo e colpa di organizzazione) dell'illecito dell'ente, sembrano consentire una ricostruzione del contributo della persona giuridica in termini di mero “aumento del rischio” ovvero, con lo stesso esito pregiudizievole per l'accusato, modificano la struttura dell'illecito che subisce una destrutturazione ricostruendosi la responsabilità dell'ente sullo schema del reato di pericolo, in cui la prevenzione del rischio-reato costituisce solo la ratio di tutela, non anche un elemento di tipizzazione delle regole cautelari autonormate.

Quest'esito può essere evitato valorizzando, in sede di giudizio circa la responsabilità della società, il cd. criterio della rilevanza del comportamento alternativo lecito. Proprio in ragione della circostanza che per affermarsi una responsabilità colposa dell'ente occorre (non solo la realizzazione del risultato offensivo tipico in conseguenza della condotta inosservante di una data regola cautelare, ma anche) che il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo che la regola cautelare violata era diretta a fronteggiare, bisogna ritenere che il giudice debba verificare se l'osservanza della regola cautelare, al posto del comportamento inosservante, avrebbe o meno consentito di eliminare o ridurre il pericolo derivante da una data attività: «se l'evento realizzato a causa dell'inosservanza della regola cautelare risulta non evitabile, non vi è spazio per l'affermazione di colpa; ne deriva che, nel caso in cui non sia possibile escludere con certezza il ruolo causale dei fattori di rischio considerati dalla norma cautelare, la responsabilità colposa non potrà essere affermata. Nel momento in cui si costruisce una responsabilità dell'ente per colpa, questo tipo di valutazione dev'essere condotta anche nel giudizio sull'idoneità dei modelli adottati. Ne consegue che il giudice, nella sua valutazione, dovrà collocarsi idealmente nel momento in cui il reato è stato commesso e verificarne la prevedibilità ed evitabilità qualora fosse stato adottato il modello "virtuoso", secondo il meccanismo epistemico-valutativo della cd. "prognosi postuma", già sperimentato in altri ambiti del diritto penale».

Alla società, dunque, potrà essere imputato solo quel risultato offensivo che un assetto organizzativo conforme alla diligenza prescritta avrebbe evitato. L'accertamento di tale circostanza – ovvero la strumentalità impeditiva o riduttiva del rischio ascrivibile al modello “idoneo” – andrà condotta utilizzando lo schema controfattuale, declinato in una prospettiva ex ante, pensato per le ipotesi di colpa della persona fisica, ma con una importante precisazione circa il giudizio (presente anche in sede di valutazione della responsabilità della persona fisica) inerente alla concreta esigibilità del “comportamento alternativo lecito” ovvero alla necessaria verifica circa l'effettiva possibilità per l'ente di integrare il contenuto del suo assetto organizzativo con quelle cautele mancanti e la cui previsione si ritiene avrebbe inciso sulle modalità di violazione della legge penale.

Quando tale accertamento sia condotto nei confronti di un'impresa e del suo assetto organizzativo occorre anche considerare se le ulteriori misure eventualmente pretendibili dall'imprenditore sarebbero state esigibili dallo stesso in quanto compatibili con la sua struttura imprenditoriale. Infatti, per riconoscere la responsabilità dell'ente non è sufficiente accertare che carenze del suo sistema organizzativo hanno facilitato o consentito la commissione del reato, né che miglioramenti nella governance avrebbero evitato il verificarsi dell'illecito, ma occorre che il giudice – oltre a dimostrare che la efficacia precauzionale dei profili cautelari, procedure, misure di compartimentazione fra funzioni ecc. assenti nella compliance aziendale sia già stata riconosciuta ed argomentata dalla scienza dell'organizzazione, dalle diverse esperienze imprenditoriali e dalle conoscenze scientifiche – sappia evidenziare come l'adozione delle suddette ulteriori misure organizzative fosse effettivamente eventualmente esigibile dai vertici dell'azienda in quanto non eccessivamente impattanti con la concreta e continua attività dell'azienda.

Riferimenti
  • De Simone, Il «fatto di connessione», tra responsabilità individuale e responsabilità corporativa, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2011, 33;
  • Greco, L'illecito dell'ente dipendente da reato. Analisi strutturale del tipo, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2020, 2096;
  • Manes, Realismo e concretezza nell'accertamento dell'idoneità del modello organizzativo, in PIVA (a cura di), La responsabilità degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 fra diritto e processo, Torino 2021, 482;
  • Paliero, La colpa di organizzazione fra responsabilità collettiva e responsabilità individuale, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2018, 175;
  • Paliero, La società punita: del come, del perché e del per cosa, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2008, 1545;
  • Paliero – Piergallini, La colpa di organizzazione, in Riv. Resp. Amm. Enti, 3/2006, 169;
  • Piergallini, Premialità e non punibilità nel sistema della responsabilità degli enti, in Dir. Pen. Proc., 2019, 534;
  • Piergallini, Paradigma dell'autocontrollo penale (dalla funzione alla struttura del “modello organizzativo” ex d.lg. n. 231 del 2001, in Studi in onore di M. Romano, Napoli 2011, 2099;
  • Piergallini, Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, 571;
  • Santoriello, Il ruolo del reato nella responsabilità da illecito degli enti collettivi: condizione obiettiva di punibilità per sanzionare la colpa di organizzazione, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2/2018, 10.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario