L'ablazione del reimpiego del profitto derivante dal reato e la confisca diretta del valore del denaro

22 Luglio 2022

Le questioni giuridiche sottese al caso di specie attengono più in generale al rapporto sussistente tra il bene da sequestrare a fini della confisca diretta ed il reato da cui è scaturito il profitto, nonché alla natura della misura ablativa allorquando il profitto sia costituito dal denaro.
Massima

Costituisce profitto del reato ed è quindi sottoponibile a misura ablativa il risultato del reimpiego delle somme di denaro illecitamente conseguite, allorquando tale attività sia causalmente collegata al reato nonché soggettivamente attribuibile al reo.

La confisca del denaro, bene fungibile, è sempre diretta e può attingere anche le somme di cui sia certa l'origine.

Il caso

I principi di diritto espressi dalla Suprema Corte traggono origine dalla vicenda cautelare originatasi a seguito del rigetto, da parte del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, della richiesta - avanzata dal Pubblico Ministero in sede - di sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto (art. 321, comma 2 c.p.p. e art. 240 c.p.) dei delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Si consideri che il giudice adito aveva rigettato la richiesta di misura cautelare reale, ritenendo non sufficienti gli indizi circa l'esistenza del richiesto nesso pertinenziale tra la somma da sequestrare ed il reato. Inoltre, non vi sarebbero stati elementi utili a quantificare i singoli vantaggi conseguiti da ognuno dei correi.

Avvero tale pronuncia, ex art. 322-bis c.p.p., il P.M., aveva proposto appello, accolto parzialmente dal Tribunale del Riesame con distinte ordinanze applicative della misura ablativa, ciascuna per ogni diverso concorrente.

Un indagato ha infine proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame, al fine di chiederne l'annullamento.

Per quanto di interesse in questa sede, si evidenzia che il ricorrente ha prospettato, tra gli altri, due motivi di ricorso: 1) la mancanza ovvero il difetto di motivazione, ex art. 606 comma 1 lett. b) e c) c.p.p, in quanto il Tribunale del Riesame non avrebbe superato i rilevi del GIP circa l'assenza del nesso pertinenziale tra le somme da sottoporre a vincolo ed i reati contestati; 2) la violazione degli articoli 240 c.p. e 321 c.p.p., in quanto il Tribunale del Riesame avrebbe sottoposto a sequestro somme confluite su un conto bancario in tempo successivo al reato, non potendo dunque costituirne profitto né essere oggetto di confisca diretta. Inoltre, fondando l'ordinanza sulla fungibilità del denaro, il Tribunale del Riesame avrebbe in realtà confuso la confisca diretta con quella di valore.

La Suprema Corte di cassazione, decidendo sul ricorso, ha statuito per la sua infondatezza.

Nello specifico, secondo i Giudici era priva di rilievo la circostanza per cui le somme non erano state trasferite direttamente dal patrimonio della società a quello degli indagati; ciò in quanto le somme erano state reimpiegate attraverso il trasferimento su conti di società controllate dagli indagati. Si poteva quindi procedere con l'applicazione della misura ablativa, potendo costituire oggetto di confisca ogni trasformazione del profitto, quando sia causalmente collegata al reato e soggettivamente attribuibile all'autore del reato.

Infine, secondo la Corte di cassazione, possono confiscarsi in via diretta anche le somme di denaro quandanche relativamente ad esse sia incontroversa l'origine lecita, in considerazione della natura fungibile della pecunia.

La questione

Le questioni giuridiche sottese al caso di specie attengono più in generale al rapporto sussistente tra il bene da sequestrare a fini della confisca diretta ed il reato da cui è scaturito il profitto, nonché alla natura della misura ablativa allorquando il profitto sia costituito dal denaro.

Che tipo di correlazione deve esistere tra condotta illecita e profitto confiscabile?

Nel caso in cui i beni oggetto di profitto siano stati reimpiegati, ci si deve fermare solo al primo rapporto di scambio?

Ai fini della confisca, possono essere apprese utilità realizzate quali effetto mediato e indiretto della condotta criminosa?

Nel caso in cui il profitto sia costituito dal denaro, qual è la natura della confisca?

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, ai sensi del combinato disposto degli articoli 321 c.p.p. e 240 c.p., è possibile procedere al sequestro preventivo di beni in ordine ai quali è consentita la confisca (prezzo, prodotto, profitto, beni intrinsecamente pericolosi) – cd. sequestro strumentale alla confisca diretta, misura di sicurezza che si attua «mediante l'espropriazione a favore dello Stato di cose che, provenendo da illeciti penali o comunque collegate alla loro esecuzione, mantengono viva l'idea e l'attrattiva del reato» (Cass. pen., sez. VI, n. 9903/1986).

È patrimonio comune, inoltre, il fatto che il nostro sistema processualpenalistico prevedea specifici casi in cui è possibile la confisca per l'equivalente del prezzo o del profitto (cd. confisca di valore), allorquando non sia più possibile la loro apprensione. Tale istituto ha carattere sanzionatorio, essendo teso a privare il responsabile di ogni beneficio economico derivante dal reato, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e deterrente di tale strumento che, a differenza di quanto previsto per la confisca diretta, come si vedrà di qui ad un attimo, non richiede l'accertamento del c.d. nesso di pertinenzialità tra bene e reato.

Avuto riguardo al caso in esame, occorre premettere che con riferimento ai reati di bancarotta, il nostro ordinamento non considera l'istituto della confisca per equivalente e quindi del sequestro ad esso preordinato. Ciò trova giustifica nel fatto che i reati fallimentari sono posti a presidio della par condicio creditorum, di talché la massa fallimentare (i creditori) non si gioverebbe della confisca di valore.

Sicché è possibile esclusivamente sequestrare i beni costituenti profitto del reato di bancarotta, al fine di garantire la cosiddetta confisca diretta.

Espletata tale premessa, deve ricordarsi che, a mente dell'art. 321, comma 1 c.p.p., è possibile sottoporre ad ablazione una cosa “pertinente” al reato, sottraendola dunque alla libera disponibilità del reo. Inoltre, il comma secondo del medesimo articolo disciplina il sequestro strumentale alla confisca. In ragione di tale richiamo normativo ed a seguito dell'ormai granitico orientamento di legittimità (ex multis, Cass. pen., sez. V., n. 32824/16), debbono intendersi quali “cose pertinenti al reato” suscettibili di confisca «non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato fu commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa, come il risultato della trasformazione del prodotto o del profitto del reato». Ne consegue che condizione legittimante per poter applicare la misura ablativa diretta è che la res sia in un rapporto di correlazione con la commissione del reato: tale è il nesso funzionale, che deve essere intrinseco, essenziale e non meramente occasionale. Si badi come è necessario un legame, ma non è richiesto che il bene sia strumentale alla commissione del reato.

Con riguardo al caso di specie, sia il Giudice per le indagini preliminari sia la difesa del ricorrente hanno sostenuto il difetto del nesso di pertinenzialità tra le somme sequestrate ed il reato: le somme non erano state trasferite direttamente dal patrimonio sociale verso i conti degli indagati, ma erano dapprima transitate sui conti di una società controllata dagli indagati a titolo di restituzione di flussi monetari. Successivamente, il denaro era stato trasferito nella disponibilità degli indagati.

Dopo aver analizzato le doglianze del ricorrente, per giungere alla sua decisione, la Corte di Cassazione ha passato in rassegna i diversi orientamenti giurisprudenziali che nel corso degli anni hanno cercato di risolvere la vexata quaestio relativa al tipo di correlazione sussistente tra res da apprendere e reato, affrontata più volte dalle Sezioni Unite sin dal 2004.

In particolare, intorno a tale problematica, in giurisprudenza e in dottrina sono diffusi due orientamenti.

Il primo, più radicale e restrittivo, prescrive la necessità di una stretta correlazione tra res e reato, considerando irrilevante qualsiasi altro legame di derivazione meramente indiretto ed immediato. Esso è teso ad evitare l'indiscriminata estensione e la dilatazione indefinita delle misure ablative ad ogni ipotesi di vantaggio patrimoniale, facendo ricondurre il profitto del reato al primo rapporto di scambio. Il legame in tanto è ritenuto rilevante in quanto vi sia stretta affinità del bene con l'oggetto del reato (Cass. pen., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951).

Per converso, il secondo orientamento è di tipo estensivo e considera profitto del reato anche i beni acquisiti con il reimpiego di denaro: infatti, ammettere che il reimpiego di un profitto illecitamente conseguito possa impedire l'adozione di misure ablative darebbe adito ad un paradosso, in quanto vorrebbe dire consolidare l'obiettivo criminoso.

Secondo tale interpretazione, il profitto va riguardato in relazione all'arricchimento complessivo, con la precisazione che il frutto di un reimpiego di denaro illecitamente conseguito, se collegato all'esecuzione del crimine, ne protrae l'idea e la sua vis attrattiva.

Deve procedersi dunque a confisca, sì da rendere improduttiva l'avvenuta consumazione di un reato (Cass. pen., sez. un., 25 ottobre 2007, n. 10280).

La Corte di cassazione, confacendosi al proprio orientamento in materia di reati contro la PA e reati tributari (ex multis, oltre alle menzionate pronunce, cfr. Cass. pen., sez. un., n. 10561/2014 c.d. Gubert e Cass. pen., sez. un., n. 31617/2015, c.d. Lucci), ha ritenuto di aderire alla seconda soluzione tra quelle innanzi richiamate.

La Corte ha sottolineato altresì che è la natura logico sistematica dell'istituto della confisca ad imporre che «qualsiasi trasformazione che il denaro illecitamente conseguito subisca per effetto di investimento dello stesso deve essere considerata profitto del reato quando sia causalmente collegata al reato stesso ed al profitto immediato - il denaro - conseguito e sia soggettivamente attribuibile all'autore del reato, che quella trasformazione abbia voluto».

Applicando detti principi al caso di specie, la Corte di cassazione ha ritenuto non viziata la decisione del Tribunale del Riesame, che ha riscontrato che gli indagati avevano acquisito la diretta disponibilità delle somme distratte già nel momento in cui esse sono state trasferite alla società della quale essi avevano il controllo, per poi accreditarle sui propri conti.

Di talché, le mutazioni della natura del profitto non sono di ostacolo al sequestro ed alla successiva confisca, quando l'attività ulteriore sia soggettivamente riconducibile all'autore del reato e causalmente collegata al reato.

In conclusione, per la Corte «costituisce profitto del reato anche il bene acquistato con somme di denaro illecitamente conseguite, quando l'impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all'autore di quest'ultimo».

Dopo aver concluso la disamina in relazione al nesso di pertinenzialità, la Corte ha analizzato l'altro motivo di ricorso, quello circa le conseguenze, in materia di confisca, derivanti dalla natura fungibile del denaro, richiamando la decisione delle Sezioni Unite n. 42415 del 27 maggio 2021.

Come è noto, il denaro è il bene fungibile per eccellenza, che una volta entrato nella disponibilità di un soggetto si mescola con le altre disponibilità economiche, perdendo ogni crisma in termini di autonomia ed identificabilità.

La sentenza n. 42415/2021 ha precisato come del tutto particolare sia il nesso pertinenziale, in materia di confisca di denaro, tra quest'ultimo e il reato da cui si origine. In considerazione della natura giuridica della pecunia, il nesso di pertinenzialità non si prova attraverso l'identità fisica tra il numerario conseguito indebitamente e quello da vincolare, bensì attraverso l'effettiva effettiva derivazione dal reato di un accrescimento patrimoniale conseguito dal reo, che sia ancora rinvenibile.

Cioè, in ragione delle caratteristiche del denaro (recessività fisica, automatica confusione nel patrimonio del reo, perdita di identificabilità fisica) al nesso di pertinenzialità si risalirebbe attraverso la prova dell'effettivo conseguimento, da parte del reo, dell'indebito profitto monetario con relativo accrescimento patrimoniale.

Attesa la naturale confusione del numerario all'interno del patrimonio anche pecuniario, non risultano ostative alla confisca diretta le lecite attività patrimoniali ovvero i leciti flussi monetari rinvenuti.

La confisca del denaro, dunque, sarebbe sempre diretta e possibile, a meno che non vi sia stato il solo impedimento costituito dalla “novazione oggettiva” (sostituzione integrale del denaro con altri beni): si parla di confisca diretta del valore del denaro.

Conseguentemente, nel caso di specie, la Corte di cassazione ha ritenuto incensurabile la decisione del Tribunale del Riesame, potendo essere confiscate in via diretta anche somme di denaro di cui sia certa l'origine lecita, aggredendo somme giacenti su conti ed affluite prima della commissione del reato o anche successivamente e che non si siano confuse con quelle provenienti dal delitto.

Osservazioni

Come si è avuto modo di riscontrare, la sentenza in commento da un lato, in materia di nesso di pertinenzialità, si inserisce nel solco della giurisprudenza di legittimità che ha teso adottare una interpretazione estensiva; dall'altro, in materia di confisca di denaro, essa si è conformata all'indicazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 42415/21, secondo cui la confisca di denaro è sempre diretta, in ragione della fungibilità della pecunia.

La sentenza in esame, invero, ha applicato sinteticamente al caso concreto i principi di diritto predetti, lasciando adito a dubbi nella misura in cui, in punto di diritto, in primo luogo ha riaffermato la confiscabilità dell'esito del reimpiego del profitto, ove causalmente collegato al reato e soggettivamente attribuibile all'autore nonché, in secondo luogo, ha aderito all'orientamento della sentenza n. 42415/21, che secondo parte della dottrina avrebbe quasi introdotto una presunzione assoluta di illiceità delle somme sequestrande rinvenute nel patrimonio del reo, negando a questi di poter provare l'origine lecita delle somme.

Così statuendo, i Giudici non hanno placato, a parere di chi scrive, le critiche di certa dottrina che, già a seguito della sentenza Gubert, ha sostenuto l'avvenuta creazione per via giurisprudenziale di una sorta di terzium genus tra pene e misure di sicurezza (confisca diretta del valore del denaro) o quanto meno l'implicita trasformazione della confisca per equivalente in diretta.

In particolare, per le Sezioni Unite Gubert e Lucci, in presenza di profitto costituito da denaro, occorre parlare sempre di confisca diretta, stante la natura fungibile del denaro, il cui importo confiscato deve «corrispondere per valore al prezzo o al profitto del reato».

Secondo una parte dei critici, la sentenza Gubert avrebbe quasi comportato una abolitio della distinzione tra confisca diretta e confisca per equivalente, nei casi in cui il profitto sia costituito da denaro. Si ricorda infatti che le Sezioni Unite hanno affermato che la confisca del denaro è sempre diretta e che «qualora il profitto tratto da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca [anche] per equivalente sia costituito da denaro, l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato». Ciò porta ad una concreta elisione del presupposto del nesso pertinenziale tra il denaro che abbia meramente corrispondenza nominale al valore del profitto ed il reato commesso.

Ancora! Nella sentenza Gubert si evidenzia che costituiscono profitto da confiscare, oltre che i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ogni altra utilità conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa, ove causalmente riconducibile al reato e soggettivamente ascrivibile al suo autore.

Sembra evidente la contraddizione: pur estendendo la nozione di profitto del reato alle res in cui quel profitto si sia trasformato e, pur non potendosi prescindere dalla persistenza di un collegamento pertinenziale, anche mediato, tra reato e reimpiego del profitto, tali principi non sarebbero applicabili alla confisca del denaro, sempre diretta, in ragione della sua natura fungibile e della sua confusione nel patrimonio del reo.

Quindi, la statuizione per cui la confisca del denaro sarebbe sempre diretta costituisce una sorta di automatismo di matrice giurisprudenziale, collidendo con la necessità, pur affermata, di provare il nesso pertinenziale: solo l'individuazione della somma di denaro che costituisce il profitto del reato, ovvero l'individuazione dell'ulteriore somma in cui quel denaro si sia trasformato dovrebbero permettere di operare la confisca in via diretta; viceversa, la mancata individuazione del denaro profitto di reato, ovvero il mescolamento con altre somme di denaro imporrebbero di poter confiscare solo per equivalente.

Pur facendo salve le sentenze Gubert e Licci, nella consapevolezza dei loro limiti, negli ultimi anni le sezioni semplici della Cassazione hanno cercato di mitigare il lapidario contenuto dei detti principi. In particolare, successive decisioni di legittimità, in considerazione anche della costruzione euro- unitaria in materia di lotta alla criminalità di impresa, hanno precisato come non sia controverso che la confisca diretta del valore del denaro rappresenti un istituto da preservare, per non stravolgere l'attuale sistema punitivo. Tuttavia, si rendono necessari dei limiti, in deroga alla vera e propria configurata presunzione di confiscabilità diretta delle somme di denaro comunque rinvenute.

Nello specifico, la sentenza emessa dalla III Sezione Penale della Cassazione n. 8995/2017, cd. Barletta, resa in materia di omesso versamento di ritenute dovute o certificate, ha in un primo momento richiamato integralmente le sentenze Gubert e Lucci (quest'ultima, si ricorderà, ha affermato che il denaro, in quanto res fungibile, si confonde ex se con le disponibilità economiche ulteriori); successivamente, ha escluso la confiscabilità diretta del denaro in presenza di prove circa la legittima provenienza delle somme, nel caso concreto confluite nel patrimonio a seguito di rimesse di terzi successivamente al reato e non costituite dunque dal risparmio derivante dal mancato pagamento delle imposte.

La sentenza Barletta ha quindi affermato l'impossibilità di aggredire le somme dinanzi alla prova che le stesse «non possano proprio in alcun modo derivare dal reato».

Altra sentenza emessa dalla VI Sezione Penale della Cassazione n. 17997 del 2018, c.d. Bagalà ha invece affermato la necessità individuare il nesso di pertinenza in relazione ad ognuno degli specifici beni rinvenuti, anche in presenza di denaro, non potendo la confisca colpire “indistintamente e genericamente” i singoli beni dell'indagato.

Analogamente, la sentenza emessa dalla III Sezione Penale della Cassazione n. 41104/2018, c.d. Vincenzini ha escluso l'applicabilità della misura ablativa stante la prova della totale estraneità delle somme apprese rispetto all'illecito. Per la Corte, l'onus probandi è a carico dell'indagato/imputato.

In maniera più dirompente si è invece espressa la Suprema Corte nel caso Ratio S.r.l., deciso dalla Sezione V con sentenza n. 48625/2018: se è vero che può procedersi alla confisca diretta delle somme di denaro, non va dimenticato il requisito imprescindibile che «presuppone che vi siano indizi tali da rendere ragione del fatto che realmente il denaro sia di provenienza illecita … sia entrato nella disponibilità della persona fisica o giuridica… accrescendone il relativo patrimonio: infatti, prima ancora di occuparsi della natura della confisca del denaro, è necessario stabilire che questo rappresenti effettivamente il profitto del reato».

Altresì la sentenza emessa dalla III Sezione, n. 6348/2019 ha escluso la confisca diretta del denaro, ove sia provata l'estraneità delle somme rispetto alla commissione del reato.

Più di recente, ed anche successivamente alla pronuncia 42415/2021, la II Sez. della Cassazione, con sentenza n. 43072 del 12 ottobre 2021 ha avuto modo di chiarire che il sequestro funzionale alla confisca diretta del profitto del reato è legittimo anche su somme di corrispondente valore pervenute nella disponibilità in epoca posteriore alla commissione o all'accertamento del reato, purché venga dimostrata la loro derivazione, anche indiretta, dall'illecito. Diversamente, ci si troverebbe di fronte ad una confisca per equivalente.

Come appare evidente, l'evoluzione successiva alle sentenze Gubert e Lucci aveva quasi consolidato l'esistenza di una presunzione iuris tantum, dunque solo relativa poiché superabile dalla prova contraria, circa l'illiceità delle somme rinvenute nel patrimonio del reo (Cass. pen. sez. VI, n. 6816/2019).

Tale impostazione, pur invertendo l'onere della prova, aveva il merito di garantire il diritto di difesa, bilanciandolo con l'interesse statuale alla pretesa espropriativa.

La pronuncia in esame, invece, facendo propri i principi di diritto che da un lato consentono di apprendere il risultato del reimpiego di denaro, purché risulti che l'attività sia causalmente collegata al reato e soggettivamente riferibile al suo autore, mentre dall'altro prescrivono di procedere alla confisca diretta delle somme di denaro, anche nel caso in cui ne sia certa l'origine lecita, si pone come un passo indietro rispetto alle evoluzioni degli ultimi anni, andando a ledere le garanzie difensive.

Riferimenti

Gambogi, Diritto penale dell'impresa nel suo aspetto pratico, Giuffrè, 2018.

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