Una ragionevole ricostruzione della nozione di “elusione fraudolenta” del modello da parte dei vertici aziendali

Ciro Santoriello
25 Luglio 2022

Il lavoro esamina la decisione n. 23401/2022 della Corte di cassazione, con cui viene posta la parola fine alla cd. vicenda Impregilo. Dopo aver ricostruito le vicende, di fatto e processuali, del procedimento avente ad oggetto l'accusa di aggiotaggio ad un'azienda in relazione ad un comunicato falso reso dall'amministratore delegato e dal presidente del consiglio di amministrazione, il contributo si sofferma sulla nozione di elusione fraudolenta, accolta con una innovativa impostazione dalla pronuncia menzionata.
Premessa

Come è noto, quando il delitto presupposto sia commesso da soggetti apicali è la persona giuridica a dover dimostrare l'idoneità e l'efficace attuazione del modello, nonché la mancanza di carenze nella vigilanza dell'Organismo di Vigilanza, individuando nel comportamento fraudolento della persona fisica autore dell'illecito la ragione dell'inefficacia dei sistemi preventivi adottati.

La ratio di tale previsione è agevolmente ricostruibile: il legislatore muove dal presupposto che i vertici aziendali, secondo la teoria dell'identificazione o immedesimazione organica, esprimono la volontà dell'ente e, dunque impegnano la responsabilità dello stesso, costituendo il reato di questi soggetti un'espressione della politica aziendale. Ritenendo non conforme al dettato dell'art. 27 Cost. adottare una forma di responsabilità oggettiva dell'ente, incentrata sulla sola immedesimazione organica, il legislatore ha adottato una soluzione di compromesso, riconoscendo come rilevante la circostanza che il reato (anziché da dipendenti) sia commesso da soggetti apicali ma consentendo all'ente di dimostrare, in specie evidenziando il comportamento fraudolento delle persone fisiche responsabili, l'estraneità dell'illecito rispetto al tessuto organizzativo dell'impresa.

La nozione di “elusione fraudolenta” nella dottrina

In dottrina si individuano tre proposte interpretative circa il significato da attribuire alla espressione “elusione fraudolenta”.

Secondo una prima lettura, l'avverbio “fraudolenta” farebbe riferimento all'intenzionalità della condotta elusiva.

In base ad una seconda impostazione, la fraudolenza richiamerebbe la stretta connessione dell'elusione con il reato, vale a dire l'utilizzo consapevole della violazione in funzione del crimine: sarebbe quindi da un lato esclusa la necessità del comportamento ingannevole, funzionale all'aggiramento di livelli rafforzati di vigilanza, e dall'altro non sarebbe sufficiente, per la difesa, dimostrare la mera violazione frontale del modello, richiedendosi quanto meno un agire nascosto, anche se non necessariamente di portata ingannatoria.

In terzo luogo, si è proposto di leggere l'espressione in discorso come elusione non concordata, con ciò indicandosi l'autenticità dell'elusione del modello e dunque la genuinità della contrapposizione instaurata dal suo vertice autore del crimine: l'avverbio “fraudolentemente” dunque starebbe ad indicare la presenza di una antitesi reale fra questi soggetti.

La Cassazione e la nozione di “elusione fraudolenta”. La vicenda Impregilo

La giurisprudenza si è pronunciata in ordine alla nozione di “elusione fraudolenta” con due decisioni, entrambe relativo al medesimo procedimento indicato come caso Impregilo.

La vicenda si riferiva ad un reato di aggiotaggio commesso dai vertici di tale azienda, i quali avevano diffuso un comunicato contenente notizie false ed idonee a provocare una alterazione del valore delle azioni della stessa società, dopo aver sostituito i dati elaborati dai competenti organi interni. In sede di merito la società era stata assolta, in quanto, pur riconosciuta la commissione del reato-presupposto da parte dei vertici societari nell'interesse dell'ente, si riteneva da un lato che l'ente aveva adottato un modello organizzativo idoneo, secondo una valutazione da effettuarsi ex ante e non ex post, alla prevenzione del reato di aggiotaggio – essendo lo stesso conforme alle Linee-Guida elaborate da Confindustria e nel quale era prevista un'apposita procedura di formazione dei comunicati stampa ed era stato costituito un Organismo di Vigilanza monocratico nella persona del responsabile del servizio di internal auditing - e dall'altro che nella concreta vicenda vi era stata un'elusione fraudolenta dello stesso come dimostrato dalla scelta dei vertici societari di non seguire il previsto iter per la formazione delle comunicazioni price sensitive, posto che gli amministratori avevano omesso di coinvolgere gli uffici interni della società, competenti secondo le previsioni del Modello a realizzare gli studi e le valutazioni preliminari ai comunicati stampa.

Tale decisione di assoluzione è stata però annullata una prima volta dalla Cassazione con la sentenza n. 4677/2013, sostenendo che la condotta del presidente e dell'amministratore delegato di una società, consistita semplicemente nel sostituire i dati elaborati dai competenti organi interni e nel diffondere un comunicato contenente notizie false ed idonee a provocare una alterazione del valore delle azioni della stessa società, non potesse costituire una elusione fraudolenta del modello organizzativo, dovendosi invece censurare la circostanza che il modello organizzativo non prevedesse che il comunicato stampa, poi rivelatosi mendace, fosse sottoposto all'esame dell'Organismo di Vigilanza.

Quanto alla nozione di “elusione fraudolenta”, secondo la Suprema Corte l'aggettivazione aveva una valenza “oggettiva”, non riferita quindi (o quanto meno non in via esclusiva) all'atteggiamento del soggetto agente; la condotta di frode richiamata dalla lett. c) dell'art. 6 in esame, pur «non [dovendo] necessariamente coincidere con gli artifizi e i raggiri di cui all'art. 640 c.p., non [poteva] non consistere in una condotta ingannevole, falsificatrice, obliqua, subdola…, insomma, una condotta di "aggiramento" di una norma imperativa, non di una semplice e "frontale" violazione della stessa». Sulla scorta di questa indicazione, si concludeva nel senso che il mancato rispetto delle prescrizioni presenti nel modello organizzativo poteva ritenersi essere avvenuto con modalità fraudolente solo se il soggetto agente avesse fatto ricorso a comportamenti, a tecniche ingannatorie che nelle loro caratteristiche essenziali richiamano gli “artifici e raggiri” di cui all'art. 640 c.p.: l'“elusione fraudolenta” del modello era dunque riconnessa ad una simulazione di circostanze inesistenti o una dissimulazione di circostanze esistenti che avesse generato un camuffamento della realtà esterna (nel qual caso ci si sarebbe trovati innanzi ad un artificio) o si fosse assistito all'adozione di un comportamento subdolo e ingegnoso destinato a convincere, orientando in modo fuorviante le rappresentazioni e decisioni altrui (nel qual caso si sarebbe stati in presenza di un raggiro).

Inoltre, perché potesse ritenersi sussistente l'esimente di cui all'art. 6 lett. c) d.lgs. n. 231/2001 non era sufficiente che il responsabile della violazione del modello organizzativo avesse assunto i suddetti atteggiamenti menzogneri ed ingannatori ma occorreva altresì – al pari di quanto previsto per il reato di truffa - che per il tramite di tali comportamenti di artificio e raggiro lo stesso avesse tratto in inganno la vittima della frode. In particolare, mentre nel delitto di truffa l'induzione in errore della persona offesa è funzionale ad ottenere che costui in conseguenza della falsa rappresentazione della realtà si determini per l'assunzione di un atto di disposizione patrimoniale dalle conseguenze nefaste, nel caso richiamato dal citato art. 6 l'induzione in inganno doveva diretta ad (e pervenire al risultato di) impedire che la persona giuridica (o meglio i responsabili delle relative funzioni di controllo) si potesse avvedere della circostanza che i titolari delle più alte funzioni dirigenziali non rispettavano le prescrizioni della compliance.

In termini generali, dunque, nella prima pronuncia della Suprema Corte in materia, la violazione del modello in termini di “elusione fraudolenta” dello stesso presupponeva non la una mera violazione delle procedure e dei protocolli aziendali ma era necessario che il mancato ossequio a tali prescrizioni fosse avvenuto in maniera subdola, nascosta e che tale inosservanza fosse accompagnata dal ricorso a sotterfugi (sostanzialmente analoghi agli artifici e raggiri di cui fa menziona l'art. 640 c.p.) grazie ai quali veniva installata negli esponenti della compliance aziendale l'erronea convinzione che le prescrizioni del modello organizzativo erano rispettate e seguite anche da quanti governano la società stessa e rivestono in essa ruoli apicali.

Assai diverse le conclusioni cui la Cassazione è giunta con la seconda pronuncia Cass. pen., sez. VI, n. 23401/2022 sulla medesima vicenda.

Viene confermata la tesi secondo cui «il concetto di "elusione" implic[a] necessariamente una condotta munita di connotazione decettiva, consistendo nel sottrarsi con malizia ad un obbligo ovvero nell'aggiramento di un vincolo, nello specifico rappresentato dalle prescrizioni del modello; rafforzato poi dal predicato di "fraudolenza", contenuto nella norma, che, lungi dall'essere una mera ridondanza, vuole evidenziare l'insufficienza, a tal fine, della semplice e frontale violazione delle regole del modello, pretendendo una condotta ingannatoria». La ragione di tale conclusione è rinvenuta nella circostanza che «l'esonero dell'ente dalla responsabilità da reato può trovare una ragione giustificativa solamente in quanto la condotta dell'organo apicale rappresenti una dissociazione dello stesso dalla politica d'impresa; in tale evenienza, dunque, il reato costituisce il prodotto di una scelta personale ed autonoma della persona fisica, realizzata non già per effetto di inefficienze organizzative, ma, piuttosto, nonostante un'organizzazione adeguata, poiché aggirabile, appunto, soltanto attraverso una condotta ingannevole».

Le assonanze fra le due decisioni, però, terminano qui. Mentre, infatti, nella prima occasione l'alterazione da parte del presidente e dell'amministratore delegato della società era ritenuta una mera “violazione frontale” delle prescrizioni del modello – ovvero una loro violazione priva di connotati ingannatori – nella nuova decisione si sostiene che il mero fatto che i responsabili del reato presupposto avessero «approfittato dello spazio di autonomia tollerabilmente lasciato loro dal modello organizzativo in ragione del loro ruolo e, sì d'intesa tra loro ma in completo spregio dei dati elaborati e loro offerti dalle competenti strutture tecniche della società, l'aver alterato questi ultimi e divulgato ai mercati informazioni inveritiere non rappresenta una mera violazione delle prescrizioni del modello. Una siffatta condotta, invero, risulta munita di efficacia decettiva nei confronti degli altri organi dell'ente, non soltanto perché tenuta senza il rispetto del procedimento di comunicazione previsto dal modello, ma altresì in quanto frutto di un accordo estemporaneo e tale, perciò, da rendere impossibile ogni interlocuzione da parte di qualsiasi altro organo sociale (non soltanto, cioè, dell'organismo di vigilanza, ma anche, ad esempio, del consiglio di amministrazione). Si è trattato, cioè, proprio di una condotta del tipo più sopra descritto: falsificatrice, rispetto ai dati dell'istruttoria compiuta dagli uffici competenti; nonché ingannevole e subdola, perché prodotta da un'intesa occulta e repentina tra i suoi autori, in violazione del patto di fiducia che lega i rappresentanti dell'ente agli organi societari che hanno conferito loro tale ruolo».

Le ragioni della decisione n. 23401

La decisione della Cassazione in esame perviene alla ricostruzione della nozione di “elusione fraudolenta” in termini radicalmente diversi da quanto fino ad ora sostenuto in dottrina, escludendo che il modello organizzativo debba strutturarsi in termini tali da determinare una sostanziale impossibilità della sua violazione.

Nel confermare la decisione di assoluzione della società, cui era addivenuto il giudice del rinvio dopo la prima pronuncia di annullamento n. 4677/2013, la Suprema Corte innanzitutto ricostruisce quale fosse la procedura prevista nel modello per «la predisposizione delle comunicazioni prices sensitive ai mercati [e che consisteva] una procedura a più fasi successive e con la partecipazione di distinte strutture aziendali, secondo le rispettive competenze tecniche, affidando ai vertici societari, coerentemente con il loro potere di rappresentanza dell'ente all'esterno, il compito di approvarne il testo definitivo e di divulgarle, con l'ulteriore cautela che tanto dovesse avvenire d'intesa tra tali due organi, nonché prescrivendo loro che l'informazione resa dovesse essere completa, tempestiva, adeguata e non selettiva: in breve, un dovere di verità». Una tale struttura organizzativa è, a dire della Corte, adeguata alla prevenzione di reati "di comunicazione": «l'apprestamento di procedure complesse, con la partecipazione necessaria di differenti articolazioni dell'organizzazione dell'ente, ciascuna secondo le specifiche competenze, può ritenersi un congruo presidio preventivo così come appropriata, e perciò non censurabile, è la scelta di affidare ai vertici assoluti dell'ente, d'intesa tra loro, l'approvazione del testo definitivo della comunicazione all'esterno ed a ciascuno di essi la legittimazione alla divulgazione delle notizie rilevanti … nessuno, più degli organi per legge titolari del potere di rappresentanza della società, avrebbe potuto avervi maggior titolo».

E' innegabile, tuttavia, riconosce la Corte, che un tale assetto di compliance fa residuare in capo ai vertici aziendali uno spazio di autonomia, ma il riconoscimento di questa discrezionalità, di un tale potere decisionale non governabile è scelta non censurabile, essendo una ineludibile conseguenza del ruolo e delle funzioni che gli apicali rivestono all'interno dell'impresa, sicché la circostanza che i vertici aziendali ne abbiano approfittato divulgando ai mercati informazioni inveritiere in completo spregio ed alterando i dati loro offerti dalle competenti strutture tecniche «non rappresenta mera violazione delle prescrizioni del modello. Una siffatta condotta, invero, risulta munita di efficacia decettiva nei confronti degli altri organi dell'ente, non soltanto perché tenuta senza il rispetto del procedimento di comunicazione previsto dal modello, ma altresì in quanto frutto di un accordo estemporaneo e tale, perciò, da rendere impossibile ogni interlocuzione da parte di qualsiasi altro organo sociale (non soltanto, cioè, dell'organismo di vigilanza, ma anche, ad esempio, del consiglio di amministrazione). Si è trattato, cioè, proprio di una condotta del tipo più sopra descritto: falsificatrice, rispetto ai dati dell'istruttoria compiuta dagli uffici competenti; nonché ingannevole e subdola, perché prodotta da un'intesa occulta e repentina tra i suoi autori, in violazione del patto di fiducia che lega i rappresentanti dell'ente agli organi societari che hanno conferito loro tale ruolo».

La differenza rispetto alle conclusioni cui la medesima Corte era giunta nel 2013 pare innegabile. Diversamente da quanto ritenuto nella precedente occasione, con la pronuncia qui in commento la Corte riconosce che nella costruzione di un modello organizzativo in relazione alla prevenzione del delitto di aggiotaggio da parte degli organi apicali dell'azienda non è individuabile una soluzione atta ad impedire che l'amministratore di una S.p.A. comunichi, con decisione autonoma ed improvvisa, al mercato falsi dati e notizie price sensitive: la facilità con cui tale soggetto può rivolgersi al mercato non è in alcun modo arginabile e quindi egli, con un semplice comunicato, può creare disorientamento negli investitori; ciò che si può fare, nell'ottica del d.lgs. n. 231/2001, è dare vita ad un protocollo per la formazione dei comunicati da fornire al mercato, introdurre un codice sanzionatorio che prevede adeguate risposte in caso di violazione di tale procedura e prevedere – in caso di commissione dell'illecito – un'immediata segnalazione all'autorità giudiziaria dell'amministratore infedele. Oltre tali strumenti preventivi, per le ragioni anzidette, non si può andare e di conseguenza deve concludersi nel senso che l'adozione degli stessi rende il modello adeguato e conforme alle prescrizioni di cui al d.lgs. n. 231/2001; ma se è così, allora, il giudizio circa la natura fraudolenta della condotta dell'amministratore va formulato – non in relazione e con riferimento all'aggiramento di protocolli organizzativi che la società non ha mai introdotto nella sua compliance, bensì – facendo riferimento alla capacità che il comportamento dell'amministratore ha avuto di rendere irrilevanti le procedure organizzative previste. Con il che anche l'improvvisa decisione del dirigente aziendale di fornire al mercato dati mendaci e di elaborati autonomamente, senza alcun rispetto dei vincoli protocollari, o la promessa corruttiva formulata, in violazione del codice etico e delle prescrizioni ivi presenti in tema di rapporti con i terzi e senza che la società disponga dei fondi neri necessari per il pagamento, dall'amministratore ad un pubblico ufficiale o all'esponente di un'altra impresa, ben possono – pur rappresentando una “violazione frontale” della compliance – dare vita ad un'ipotesi di elusione fraudolenta.

L'"elusione fraudolenta” come concetto di relazione

La lettura dell'ultima decisione del 2022 pare riconoscere che della nozione di “elusione fraudolenta” non sia possibile fornire una definizione oggettiva, valida per ogni situazione e circostanza, e ciò in quanto il significato di questa espressione è ricostruibile solo in termini di relazione, considerando cioè qual è l'oggetto dell'elusione (ovvero come sono strutturati i profili della compliance non rispettati nel caso di specie) e chi sono i soggetti verso i quali si è diretto il comportamento fraudolento (ovvero le figure aziendali che, grazie al truffaldino atteggiamento dei responsabili, non si sono avveduti della imminente elusione della procedura). Ciò significa che alla domanda «la condotta dell'amministratore della società può rientrare nell'ipotesi considerata dalla lett. c) dell'art. 6 d.lgs. n. 231/2001?» non si può rispondere se prima non si precisa quali sono gli obblighi di diligenza che gravano in capo alla società, quali sono i protocolli organizzativi minimali che la stessa deve approntare e quali sono i controlli che ogni azienda deve adottare per verificare il rispetto del modello organizzativo e quale deve essere lo sforzo dell'ente per evitare l'elusione del compliance model: non è possibile dunque ricostruire la nozione di “elusione fraudolenta” se prima non si stabilisce quali siano i doveri di attenzione e prevenzione che gravano sulla società e che devono essere oggetto di surrettizio aggiramento».

La motivazione della Cassazione pare in effetti ripercorrere questa modalità dell'argomentazione. Innanzitutto, si procede ad una valutazione del modello in relazione alla tipologia di reato che si intende fronteggiare e se ne verifica la sua idoneità: nel caso di specie, il giudizio, come detto, si è concluso con esito positivo giacché anche se le procedure adottate in tema di comunicazioni al mercato lasciava residuare un significativo margine di loro elusione tale rischio doveva ritenersi “tollerabile” – come si esprime la decisione, con avverbio di significativa rilevanza – in quanto non altrimenti arginabile, non essendo ipotizzabile alcuna cautela contro decisioni repentine e criminali degli organi apicali. Come si legge nella decisione, «un modello organizzativo che rendesse obbligatorio un preventivo controllo di qualsiasi atto del presidente o dell'amministratore delegato di una società, senza distinzione di contenuti e/o di rilevanza, sarebbe difficilmente conciliabile con il potere di rappresentanza, d'indirizzo e di gestione dell'ente, che la legge civile riconosce a quegli organi [e di conseguenza] al momento in cui il reato è stato realizzato, il modello adottato … con riferimento alla prevenzione dei cc.dd. "reati di comunicazione", [doveva ritenersi] idoneo, pur non prevedendo una forma di controllo preventivo del testo finale dei comunicati e delle informazioni divulgate da presidente ed amministratore delegato della società, essendo ineliminabile un margine di autonomia di questi organi nell'esercizio di tale attività, poiché coessenziale al fascio di poteri e responsabilità loro riconosciuti dalla legge civile».

All'esito di questa verifica positiva circa l'assetto organizzativo, si procede poi alla valutazione circa il possibile carattere “fraudolento” dell'elusione del modello, avendo cura però da un lato di non richiedere l'adozione da parte dei responsabili di comportamenti di insuperabile spessore criminale, di pianificata ed acuta organizzazione, di una portata ingannatoria tale da rendere quasi impossibile “disegnare” un modello organizzativo idoneo a impedire e prevenire l'adozione di tali comportamenti e dall'altro di non cadere nella contraddittoria conclusione di ritenere insufficienti ed inadeguate – perché eluse in virtù di condotte non particolarmente callide e criminali – le misure preventive presenti nel modello e che in una precedente fase del giudizio circa la compliance si erano apprezzate positivamente per la loro efficacia e capacità precauzionale.

Si noti come questa impostazione risulti coerente anche con l'obiettivo al cui perseguimento deve tendere la predisposizione del modello organizzativo e che (come si afferma nella medesima sentenza) deve consistere nell'abbassamento del rischio di commissioni di illeciti nell'ambito dell'attività aziendale. È un concetto questo espresso efficacemente dalla decisione al centro dell'approfondimento laddove si legge che nel modello della società residuava per i vertici aziendali uno «spazio di autonomia tollerabilmente lasciato loro … in ragione del loro ruolo»: vero che gli apicali possono – ed hanno nel caso esaminato dalla decisione – profittare di tale autonomia per delinquere ma non è pensabile di introdurre un preventivo controllo sugli atti degli amministratori dell'ente e allora gli illeciti che sono commessi abusando di tale ineliminabile potere di discrezionalità non può essere imputata all'azienda la quale non poteva strutturarsi diversamente per arginare un tale rischio.

È sulla base di questa impostazione che va operata la prima valutazione richiesta dall'art. 6 d.lgs. n. 231/2001 ovvero il giudizio sulla bontà del modello organizzativo adottato dall'azienda. La violazione della legge penale posta in essere dai dirigenti dell'azienda non rappresenta un indice inequivocabile dell'inidoneità del modello proprio perché il modello cui guarda il legislatore non ha un'efficacia impeditiva ma preventiva e precauzionale rendendo più difficoltosa la commissione del reato; piuttosto, il legislatore con la previsione di cui al citato art. 6 ha introdotto una previsione (non di inidoneità del modello ma) di necessaria inefficacia dello stesso – si potrebbe parlare di sua “implausibilità” -, non potendosi rinvenire sistemi organizzativi in grado di avere un'efficacia impeditiva nei confronti di scelte individuali operate da chi quei sistemi ha predisposto e poi dirige.

E' dopo che la società ha dimostrato l'idoneità del suo modello che si pone il problema di giustificarne l'inosservanza da parte degli apicali nel caso di specie, dimostrandone l'avvenuta elusione fraudolenta, la quale però non va ricostruita in termini assoluti, ipostatizzando una “diabolica” capacità criminale capace di superare ogni sbarramento e misura precauzionale presente in azienda, ma rapportando le caratteristiche della condotta criminale tenuta dai responsabili aziendali all'obbligo di diligenza che gravava, secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 231/2001, sull'ente collettivo. Di conseguenza se si ritiene che l'onere organizzativo della persona giuridica (non consiste nel predisporre un assetto organizzativo idoneo ad escludere ogni possibilità di commissione dell'illecito, ma) si esaurisce nella predisposizione di procedure atte ad ostacolare, a rendere meno agevole e quindi meno probabile nel suo verificarsi la commissione di illeciti da parte degli apicali dell'impresa è rispetto a tali procedure (che abbassano il rischio di violazione della legge penale senza però eliminarlo del tutto) che va valutata la presenza di un'elusione fraudolenta, senza che sia necessario invece rinvenire comportamenti di tale callidità e portata ingannatoria da potersi qualificare come elusivi di un (implausibile) modello perfetto idoneo per il suo contenuto ad eliminare qualsiasi possibilità di condotte delittuose.

Detto altrimenti, quando si cerca di ricostruire la nozione di “elusione fraudolenta” bisogna evitare di assumere parametri di giudizio diversi a seconda che ci si soffermi sull'idoneità del modello o sulla circostanza del suo aggiramento. In particolare, se nella valutazione circa l'idoneità di un modello diretto alla prevenzione di reati commessi dagli apicali, nella consapevolezza che non è possibile vincolare in termini assoluti ed insuperabili la condotta degli organi dirigenziali, si ritiene sufficiente la presenza di procedure che indichino agli amministratori societari quali sono le corrette modalità di svolgimento del loro ufficio prevedendo anche quali siano le conseguenze sanzionatorie – civili e penali – che la violazione di tali protocolli può determinare in capo a chi non le rispetta, diventa contraddittorio che, quando si passa a verificare se vi si stata o meno un'elusione fraudolenta di tale assetto organizzativo, non si ritengano rilevanti ai sensi dell'art. 6 lett. c) d.lgs. n. 231/2001 condotte che abbiano semplicemente non rispettato le prescrizioni che in precedenza si era ritenuto essere bastevoli ad abbassare il rischio di commissione del reato – ed in tale ottica conformi alle prescrizioni presenti nel d.lgs. n. 231/2001 –, richiedendo che l'ente debba dimostrare che l'apicale ha tenuto un comportamento idoneo ad aggirare la procedura organizzativa stabilita per impedire la commissione del reato – procedura organizzativa che però non era nel modello, perché il modello, giudicato idoneo, non eliminava il rischio di commissione di illeciti ma ne riduceva la possibilità che lo stesso si verificasse.

In conclusione

Seguendo i dettami della più recente giurisprudenza della Cassazione, sembra quindi necessario un radicale ribaltamento delle modalità con cui la disposizione di cui all'art. 6 lett. c) d.lgs. n. 231/2001 è solitamente letta ed in particolare del modo con cui la stessa è stata interpretata dalla Cassazione nella citata sentenza Cass. pen., n. 4677/2013 laddove si legge che «la natura fraudolenta della condotta del soggetto apicale (persona fisica) costituisce, per così dire, un indice rivelatore della validità del modello, nel senso che solo una condotta fraudolenta appare atta a forzarne le "misure di sicurezza». Il percorso da seguire, invece, deve essere inverso, stabilendo dapprima quali siano gli obblighi di diligenza e prevenzione che la società deve osservare nella predisposizione del modello organizzativo e poi verificare se le modalità con cui gli apicali hanno aggirato le prescrizione della compliance aziendale presentino una connotazione fraudolenta o invece l'accaduto non abbia dimostrato come, nonostante l'iniziale valutazione di idoneità del modello, lo stesso non fosse in realtà adeguato per fronteggiare il rischio di commissione di illeciti da parte degli apicali.

Questa considerazione premette di giungere a due significative conclusioni circa la sussistenza di un'ipotesi di elusione fraudolenta in caso di commissione di illeciti da parte degli organi apicali di un'azienda.

In primo luogo, deve ritenersi che la sussistenza o meno dell'esimente richiamata dall'art. 6 lett. c) d.lgs. n. 231/2001 non è di alcun interesse quando la compliance aziendale è inadeguata rispetto ai parametri indicati nella lett. a) del medesimo art. 6: in tale circostanza, infatti, ogni considerazione sulle modalità con cui è stata portata a termine la violazione dei protocolli organizzativi è irrilevante posto che per l'ente collettivo ogni possibilità di difesa è preclusa in ragione dell'insufficiente modello preventivo adottato.

In secondo luogo, e si tratta di considerazione ancora più rilevante, la nozione di “elusione fraudolenta” non richiama necessariamente l'adozione da parte dei responsabili di comportamenti di insuperabile spessore criminale, di pianificata ed acuta organizzazione, di una portata ingannatoria tale da rendere quasi impossibile “disegnare” un modello organizzativo idoneo a impedire e prevenire l'adozione di tali comportamenti. Perché possa parlarsi di elusione fraudolenta infatti è sufficiente che gli inganni, gli artifici ed i raggiri posti in essere dai soggetti apicali risultino idonei, con una valutazione ex ante ed in concreto, a “frustrare” ed a rendere inefficaci le misure organizzative e la diligenza che può essere ordinariamente richiesta all'ente collettivo, secondo quelle che sono le sue concrete caratteristiche di funzionamento, la sua “storia” imprenditoriale, le sue precedenti esperienze quando era diretto da altri soggetti, ecc.

Riferimenti
  • Aita, L'elusione fraudolenta consumata: indice di validità del modello o mera clausola esimente?, in Riv. Resp. Amm. Enti, 3/2014, 253;
  • Bartoli, Alla ricerca di una coerenza perduta … o forse mai esistita. Riflessioni preliminari (a posteriori) sul sistema 231, in Borsari (a cura di), Responsabilità da reato degli enti. Un consuntivo critico, Padova 2016;
  • Bassi-D'Arcangelo, Il sistema della responsabilità degli enti, Milano 2020;
  • Manes, Realismo e concretezza nell'accertamento dell'idoneità del modello organizzativo, in Piva (a cura di), La responsabilità degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 fra diritto e processo, Torino;
  • Santoriello, Qualche precisazione (controcorrente) sulla nozione di elusione fraudolenta, in Riv. Resp. Amm. Enti, 3/2018, 214;
  • Tripodi, L'elusione fraudolenta del modello. Ruolo e gestione ermeneutica del controverso inciso a vent'anni dalla sua comparsa, in Piva (a cura di), La responsabilità degli enti ex d.lgs. n. 231/2001 fra diritto e processo, Torino 2021;
  • Tripodi, L'elusione fraudolenta del modello nel sistema della responsabilità da reato degli enti, Padova 2013.

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