Informazione antimafia: perché il prefetto non può valutare le condizioni economiche del destinatario?

27 Luglio 2022

Nell'ambito di un procedimento finalizzato al rilascio dell'informazione interdittiva, fondato sulla rilevazione di elementi di pericolo non necessariamente già passati al vaglio della magistratura, il legislatore dovrebbe consentire la valutazione dell'effetto prodotto dalle interdizioni sul sostentamento dei soggetti interessati.

L'informazione del prefetto può privare l'interessato dei mezzi di sostentamento. La pronuncia in commento trae origine dalla questione di legittimità costituzionale dell'art. 92 d.lgs. n. 159/2011 (cd. Codice antimafia), nella parte in cui non prevede il potere del prefetto di escludere le decadenze e i divieti stabiliti dal medesimo decreto quando valuti che, in conseguenza degli stessi, verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla sua famiglia.

Si tratta di divieti e decadenze che precludono la possibilità di ottenere o mantenere erogazioni pubbliche, contratti pubblici, provvedimenti amministrativi funzionali ad esercitare attività imprenditoriali (licenze, autorizzazioni, concessioni, ecc.), derivanti sia dalla applicazione, con provvedimento definitivo del giudice, di una misura di prevenzione personale, sia dalla adozione, da parte del prefetto, di una informazione antimafia.

Tuttavia - ed è questa la censura avanzata dal rimettente - solo quando le decadenze e i divieti discendono da una misura di prevenzione è data facoltà al giudice di escluderne l'applicazione, per tutelare l'eventuale stato di bisogno dell'interessato; il prefetto, chiamato a rilasciare informazione antimafia, non ha invece il potere di valutare l'impatto dell'informazione interdittiva sulle condizioni economiche del destinatario e, se del caso, di escluderne gli effetti.

I dubbi del rimettente. Il giudice a quo ritiene che la scelta del legislatore di non attribuire all'autorità prefettizia (avendola attribuita invece al giudice delle misure di prevenzione) il potere di apprezzare l'incidenza di tali conseguenze sui mezzi di sostentamento dell'interessato e della propria famiglia determini una irragionevole disparità di trattamento, non attenuta dalla temporaneità degli effetti dell'informazione antimafia, stabilita in dodici mesi, giacché si tratterebbe di un periodo di tempo comunque idoneo a pregiudicare in modo definitivo qualsiasi attività di impresa.

Inoltre, sarebbe violato l'art. 4 Cost., dal momento che l'informazione antimafia inibisce, sia i rapporti con la pubblica amministrazione, sia le attività private sottoposte a regime autorizzatorio: proprio la pervasività della misura determinerebbe un sacrificio del diritto al lavoro, tutelato persino in capo a un detenuto a seguito di condanna e, invece, non salvaguardato in capo a colui che - come accade nei casi di interdittiva - sia oggetto di una misura volta a prevenire un evento anche solo potenziale, in forza di una valutazione condotta sulla base della regola del più probabile che non.

Da ultimo, il giudice a quo lamenta la violazione anche dell'art. 24 Cost., poiché la disposizione censurata non garantirebbe all'interessato la possibilità di prospettare al prefetto le conseguenze che l'inflizione dell'interdittiva determinerebbe a suo carico.

Interdittiva antimafia, le novità: garanzia del contraddittorio e misure collaborative. In via preliminare, la Consulta prende in considerazione la modifica legislativa apportata dal d.l. n. 152/2021 che, successivamente all'ordinanza di rimessione, ha novellato l'art. 92 cod. antimafia, introducendo una forma di contraddittorio necessario tra il prefetto e coloro nei cui confronti stia per essere emessa una informazione antimafia. Il prefetto è ora tenuto, sempre che non ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimento, a dare tempestiva comunicazione all'interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa e l'interessato può presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché richiedere di essere ascoltato.

Al termine di questa fase in contraddittorio, il prefetto potrà rilasciare una informazione liberatoria oppure una informazione interdittiva, oppure ancora – laddove gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale – disporre l'applicazione delle nuove misure amministrative di prevenzione collaborativa previste dalla medesima novella legislativa. In particolare, è stata introdotta la possibilità, per l'impresa sospettata di agevolazione mafiosa solo occasionale, di evitare l'informazione e i suoi effetti interdittivi, e di continuare ad operare, sia pur risultando sottoposta a vigilanza e assumendo l'impegno di adoperarsi per una bonifica, sì da superare gli elementi di “compromissione” riscontrati.

Tuttavia, le nuove disposizioni legislative non trovano applicazione, ratione temporis, nel giudizio principale, dal momento che quest'ultimo ha ad oggetto una informazione antimafia adottata nella vigenza delle precedenti regole.

Misura di prevenzione e informazione antimafia: c'è una disparità di trattamento tra i destinatari. Per il giudice delle leggi, non è implausibile il confronto proposto dal rimettente tra la differente disciplina dei poteri attribuiti al giudice delle misure di prevenzione e quelli conferiti al prefetto nell'ambito dell'informazione antimafia: in entrambi i casi, si è in presenza di misure anticipatorie in funzione di difesa della legalità.

Alle limitazioni e agli strumenti di vigilanza imposti dal decreto che abbia applicato in via definitiva la misura di prevenzione, l'art. 67 d.lgs. n. 159/2011 aggiunge ulteriori effetti pregiudizievoli, gravemente “inabilitanti”, il cui obiettivo è di contrastare l'attività economica dei soggetti colpiti tramite, in particolare, il reimpiego del danaro proveniente da attività criminosa. Si tratta dei medesimi effetti che conseguono all'informazione antimafia.

La ratio dell'informazione antimafia, in funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione (cfr. Cons. Stato, n. 1060/2021), del resto, è quella di garantire la salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione (Cons. Stato, n. 3/2018). In tale contesto, tuttavia, solo nei confronti del soggetto destinatario della misura di prevenzione e non anche di quello colpito da interdittiva, gli interessi di rilievo pubblicistico perseguiti sono destinati a cedere il passo all'insopprimibile esigenza di non mettere a rischio la possibilità del soggetto di sostentare sé stesso e la propria famiglia.

Proprio nell'ambito di un procedimento finalizzato al rilascio dell'informazione interdittiva - fondato sulla rilevazione di elementi di pericolo non necessariamente già passati al vaglio della magistratura - il legislatore dovrebbe, a maggior ragione, consentire la valutazione dell'effetto prodotto dalle interdizioni sul sostentamento dei soggetti interessati. Né la limitata durata temporale dell'interdittiva risulta un elemento sufficiente a giustificare la deteriore disciplina riservata a coloro che siano raggiunti da tale provvedimento.

Bilanciamento tra sicurezza e diritto al sostentamento: la decisione spetta al legislatore. Per la Consulta, l'ordinanza di rimessione sottolinea correttamente l'esistenza di una ingiustificata disparità di trattamento, che necessita di un rimedio. Tuttavia, la pronuncia richiesta alla Corte costituzionale dal rimettente - che chiede di trasferire, nella disciplina relativa alla informazione interdittiva, la deroga attualmente prevista con riferimento alle sole misure di prevenzione personali - non risulta uno strumento idoneo.

Innanzitutto, una simile pronuncia avrebbe l'effetto di attribuire all'autorità prefettizia, nell'ambito del procedimento che conduce al rilascio dell'informazione antimafia, un potere valutativo - quello finalizzato a verificare se, per effetto delle decadenze e dei divieti, vengano meno i mezzi di sostentamento all'interessato e alla sua famiglia - che attualmente il codice affida, invece, all'apprezzamento dell'autorità giudiziaria, nel contesto del procedimento e delle garanzie proprie di un giudizio. Non solo si tratterebbe, quindi, di estendere la disciplina derogatoria in questione dal settore delle misure di prevenzione a quello dell'informazione antimafia, ma, altresì, di attribuirne l'applicazione ad un'autorità diversa, trasferendola dall'autorità giudiziaria a quella amministrativa.

Inoltre, occorre considerare che le misure di prevenzione personali hanno un proprio e tradizionale contenuto tipico - delineato all'art. 8 cod. antimafia - cui i divieti e le preclusioni elencati all'art. 67 d.lgs. n. 159/2011 si aggiungono in via accessoria. Invece, le misure interdittive antimafia (laddove non si basino a loro volta su provvedimenti dell'autorità giudiziaria, già produttivi di conseguenze autonome) esauriscono i propri effetti pregiudizievoli proprio nei divieti e nelle decadenze di ordine economico previste dal medesimo articolo, con la conseguenza che l'eventuale inibizione in toto della loro applicazione, sia pur in nome di fondamentali esigenze quali quelle rappresentate dal giudice a quo, significherebbe privarle di oggetto e, perciò, di qualunque utilità, frustrando gli obbiettivi cui esse mirano.

Pertanto, spetta al legislatore decidere se e come utilizzare il rimedio invocato dal rimettente, al fine di meglio contemperare l'interesse pubblico alla sicurezza e la generale libertà del mercato, da una parte, e il diritto della persona a veder garantiti i propri mezzi di sostentamento, dall'altra: per queste ragioni, la questione di legittimità costituzionale viene dichiarata inammissibile.

*Fonte: DirittoeGiustizia

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