I rapporti tra confisca nei reati tributari, procedure concorsuali e responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001
12 Ottobre 2022
Massima
In tema di reati tributari, le somme di denaro affluite sul conto corrente della gestione commissariale di una società ammessa a procedura di amministrazione straordinaria in data successiva alla consumazione del delitto ad opera del suo amministratore non sono suscettibili di confisca diretta, in quanto, non derivando da reato, non ne costituiscono il profitto. (In motivazione, la Corte ha precisato che tali somme, costituenti, in specie, l'acconto sul prezzo di cessione di un compendio di beni, non costituiscono profitto del reato di omesso versamento delle ritenute dovute, di cui all'art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, neanche sotto forma di risparmio di spesa e che, pertanto, non sono suscettibili di essere sottoposte a sequestro finalizzato alla confisca diretta, potendo essere, invece, sottoposti a sequestro finalizzato alla confisca per equivalente i beni nella disponibilità dell'amministratore di fatto della società). Il caso
Il caso oggetto della decisione in commento origina dal provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari di Catania disponeva il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente ex art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 e art. 321 cod. proc. pen. nei confronti dell'amministratore di fatto di una società indagato del delitto di omesso versamento di ritenute di cui all'art. 10-bis del medesimo d.lgs. n. 74/2000 secondo cui, come noto, “è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d'imposta”. Il provvedimento cautelare non veniva invece né richiesto né disposto nei confronti della persona giuridica che si era avvantaggiata della commissione del reato. La difesa adiva dunque il Tribunale del Riesame lamentando il mancato rispetto del principio indicato da importanti interventi delle stesse Sezioni Unite (prima la sentenza Gubert e poi la sentenza Lucci: rispettivamente, Cass., Sez. Unite, 30 gennaio 2014, dep. 5 marzo 2014, n. 10561, e Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2015, dep. 21 luglio 2015, n. 31617), secondo cui quando il prezzo o il profitto derivante dal reato sono costituiti da “denaro”, la confisca deve sempre essere qualificata come “diretta” e, pertanto, può legittimamente procedersi al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti delle persone fisiche esponenti della persona giuridica, per reati tributari da costoro commessi, solo qualora risulti impossibile individuare il profitto diretto del reato in capo all'ente, reale beneficiario del fatto di reato. Il Tribunale del riesame, tuttavia, escludeva la possibilità di procedere a confisca diretta del profitto del reato mediante apprensione delle somme presenti sul conto corrente della società poiché non legate da alcun vincolo di pertinenzialità al reato, sull'assunto che si trattasse di un conto corrente acceso solo in seguito alla dichiarazione di insolvenza della società e all'apertura della procedura di amministrazione straordinaria - dunque, in un momento successivo alla consumazione del reato - e su cui risultava unicamente l'importo versato dal promissario acquirente quale acconto sul prezzo di acquisto del complesso aziendale. Avverso il provvedimento del Tribunale del riesame, l'indagato ricorreva per Cassazione lamentando: (i) violazione di legge in relazione all'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000, sull'assunto che il persistente impiego delle somme non versate all'Erario dell'attività di impresa concreti il profitto diretto del reato che, come tale, avrebbe dovuto essere aggredito in via diretta e prioritaria sui conti correnti della società rispetto alle disponibilità in capo alle persone fisiche indagate, nonché (ii) vizio di legittimità costituzionale dell'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 per contrasto con il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., in quanto attraverso la confisca per equivalente si applicherebbe un identico trattamento sanzionatorio sia al soggetto autore o concorrente del reato che ha tratto un profitto diretto, sia al soggetto che dal reato non ha, invece, conseguito alcun beneficio. Le questioni
Considerata la complessità dei temi trattati dalla sentenza in commento, seguirà, in via preliminare alla disamina delle questioni sottoposte alla Corte, un breve inquadramento giuridico degli istituti in oggetto. Come noto, la confisca diretta ha quale ratio la sottrazione all'autore del reato di quei beni che ne costituiscono il profitto, il prezzo o il prodotto e che siano ancora rinvenibili nel suo patrimonio. A tal proposito, con riferimento al denaro - data la sua naturale fungibilità - la giurisprudenza di legittimità è intervenuta in più occasioni per stabilire secondo che modalità e con quali limiti si sarebbe potuto procedere alla sua confisca. Con le sentenze Gubert e Lucci, le Sezioni Unite hanno stabilito che ove il prezzo, il prodotto o il profitto del reato sia costituito da una somma di denaro, la confiscabilità dello stesso dovrebbe essere disposta sempre in via diretta, in ragione appunto della natura fungibile del bene; ciò, tuttavia, a patto che per effetto del reato sia possibile individuare nel patrimonio del reo un accrescimento patrimoniale. La dottrina ha criticato tali pronunce sostenendo che in tal modo il necessario vincolo di provenienza del denaro dal reato sarebbe stato del tutto svilito, rendendo in sostanza la confisca del denaro sempre per valore. In particolare, affermare che il denaro una volta entrato nel patrimonio del reo perda la sua individualità e si confonda con il resto delle risorse limiterebbe la confisca in via diretta soltanto nei (rari) casi in cui la somma di denaro costituente il profitto del reato fosse chiaramente identificabile. In buona sostanza, il carattere surrogatorio della confisca per equivalente, applicabile ove non sia possibile procedere alla confisca diretta del prezzo o del profitto del reato, verrebbe così negato. La giurisprudenza allora è nuovamente intervenuta per chiarire come, ove si voglia procedere in via diretta, sia necessario accertare in ogni caso il rapporto di pertinenzialità tra il denaro e il reato per cui si procede (cfr. ex multis, Cass. pen. sez. III, 30 ottobre 2017, n. 8995, nonché, da ultimo, la sentenza in commento). Ove sia accerti tale nesso, la confisca ex art. 240 cod. pen. è applicabile anche nei confronti di persona giuridica nel cui interesse il reato è stato commesso da parte di un suo legale rappresentante (Cfr. Cass. pen., sez. II, n. 14600/2014). Tanto premesso, la prima questione affrontata dalla sentenza che si annota attiene alla individuazione del profitto dei reati tributari - corrispondente al risparmio di spesa conseguente al mancato pagamento del tributo - nell'illecito arricchimento che permane quale componente del patrimonio aziendale anche dopo la consumazione del reato e sino a che non sia estinto il debito tributario. In proposito, secondo lo sviluppo argomentativo del ricorso, andrebbe considerato che: (i) in caso di reati tributari di natura omissiva, qual è appunto il caso dell'omesso versamento ex art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000, il profitto è sempre rappresentato dal risparmio di spesa conseguito dal contribuente inadempiente; (ii) è il patrimonio della società, dunque, a beneficiare della commissione del reato; (iii) ai fini dell'accertamento del profitto confiscabile rileva “[…] l'esistenza del valore nominale comunque accresciuto di consistenza, o meglio non diminuito, in quanto il contribuente non ha corrisposto al Fisco quanto dovuto, senza che possano assumere rilevanza gli eventuali movimenti del conto bancario del contribuente stesso in epoca successiva alla consumazione del reato”.
Breviter: almeno parte del patrimonio aziendale costituirebbe una manifestazione di quel risparmio di spesa di cui la società ha all'epoca beneficiato e continua a beneficiare tuttora, in assenza di adempimento del debito tributario. Date le suddette premesse, secondo il ricorrente, non sarebbe necessario procedere alla verifica della “pertinenzialità al reato del bene sequestrato”, dovendosi piuttosto accertare l'accrescimento o la mancata decurtazione delle disponibilità monetarie della società contribuente. A tali considerazioni, consegue, a parere del ricorrente, la possibilità di procedere a confisca nei confronti della società, anche laddove la stessa sia stata assoggettata a procedura di amministrazione straordinaria al momento della richiesta di sequestro. In proposito, si argomenta che se la società avesse regolarmente adempiuto le proprie obbligazioni tributarie, il compendio aziendale oggetto di cessione da parte dell'amministrazione straordinaria “sarebbe stato intaccato e non sarebbe oggi disponibile nella sua interezza quale attivo liquidabile da parte della gestione commissariale”. Eventuali proventi derivanti dalla cessione, effettuata nell'ambito della gestione commissariale, dei beni aziendali andrebbe dunque ricondotta all'originario arricchimento indebito derivante dall'omesso versamento delle imposte dovute. Ne deriva che andrebbe affermata l'obbligatorietà di procedere alla confisca in via diretta nei confronti della società e, solo dopo, in caso di incapienza del patrimonio aziendale, alla confisca per equivalente nei confronti delle persone fisiche esponenti della società. Con secondo motivo, la difesa osservava che la confisca di cui all'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 ha natura anzitutto ripristinatoria, anche ove disposta per equivalente. Pertanto, essa deve necessariamente colpire il soggetto che risulti avere beneficiato, anche in forma di risparmio di spesa, dalla commissione del reato (ossia, l'ente). Diversamente opinando, infatti, si incorrerebbe in vizio di legittimità costituzionale della disciplina per contrasto con il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., nei termini precisati sopra. Alla Suprema Corte, dunque, viene chiesto di definire a che condizioni si possa procedere alla confisca per equivalente nei confronti della persona fisica che commetta un reato di cui abbia in realtà beneficiato l'ente cui la stessa appartiene quando l'ente sia assoggettato a procedura concorsuale e il reato non sia previsto, come nel caso di specie, nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità dell'ente ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, con conseguente inoperatività della specifica confisca prevista dall'art. 19 del medesimo decreto nei confronti della società. Le soluzioni giuridiche
La natura del profitto dei reati tributari e i diversi tipi di confisca Quanto ai profili censurati con il primo motivo di ricorso, la Suprema Corte afferma la legittimità della confisca operata per equivalente nei confronti dell'amministratore ritenuto responsabile del reato tributario di cui all'art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000, basando la propria motivazione su due argomenti principali. Anzitutto, la necessità che si operi la confisca in forma diretta soltanto nei casi in cui il bene rappresentante il profitto del reato e dunque oggetto della misura presenti un rapporto di effettiva pertinenzialità con la fattispecie contestata, anche ove si tratti di denaro. Pur facendo proprio l'orientamento più estensivo del concetto di “profitto” da reato - comprensivo di qualsivoglia vantaggio indiretto, ivi inclusi i cosiddetti surrogati (ossia i beni acquistati con denaro di provenienza illecita) - e confermando il principio (consolidato) di cui alle sentenze Gubert e Lucci, i giudici di legittimità precisano infatti come la confisca diretta debba comunque ammettersi solo previa individuazione di un collegamento tra il bene confiscato e il reato commesso (cfr. Corte Cost. n. 301/2009). Diversamente opinando, infatti, verrebbe meno la legittimazione stessa della misura. Ove manchi il rapporto di pertinenzialità e a patto che ne ricorrano i presupposti, dunque, dovrà necessariamente procedersi con la confisca per equivalente. Ebbene, con riferimento ai reati tributari, il cui profitto è costituito, come visto sopra, non già da un aumento del patrimonio del contribuente, quanto piuttosto da un mancato esborso monetario, qualora le somme disponibili al momento del sequestro siano state percepite in un momento successivo alla commissione del reato, non può individuarsi alcun rapporto di pertinenzialità tra il reato e le somme in questione, che potranno essere confiscate unicamente per equivalente, ai sensi dell'art. 12-bis, co. 2, d.lgs. n. 74/2000.
Rapporti tra confisca e procedure concorsuali In secondo luogo, i giudici di legittimità escludono la possibilità di procedere alla confisca dei beni della società in ragione dell'assoggettamento di quest'ultima alla procedura di amministrazione straordinaria, in virtù sia della sua prevalenza rispetto alla misura cautelare disposta in sede penale sia della indiscutibile provenienza lecita dei proventi originati durante la sua pendenza. Quanto alla circostanza che i beni su cui dovrebbe ricadere il sequestro finalizzato alla confisca siano al contempo gravati dalla pendenza di una procedura concorsuale, il dibattito su quale dei due vincoli debba considerarsi prevalente è da tempo discusso sia in dottrina sia in giurisprudenza e, di recente, il legislatore è tornato sul punto con il Codice della Crisi e dell'Insolvenza (d.lgs. n. 14/2019), sancendo la prevalenza delle misure cautelari sulla liquidazione giudiziale, sia successiva sia antecedente alla misura del sequestro. Prima di questo intervento normativo, su cui si tornerà a breve, la pietra miliare in materia era costituita dalla sentenza Focarell (Cass. pen., Sez. Un, 24 maggio 2004, n. 29951), in cui le Sezioni Unite della Suprema Corte avevano risolto la questione del rapporto tra fallimento e confisca, distinguendo a seconda che quest'ultima fosse facoltativa o obbligatoria. In particolare, secondo i giudici di legittimità, premesso che sia la sentenza dichiarativa di fallimento sia la misura del sequestro finalizzata alla confisca hanno quale effetto pratico lo spossessamento dell'imprenditore dai beni di sua proprietà, deve comprendersi se ed in quali casi le diverse esigenze sottostanti l'una e l'altra misura siano sovrapponibili o, quantomeno, conciliabili: (i) ove si tratti di confisca facoltativa, che - come noto - ha lo scopo di sottrarre al reo la disponibilità dei beni usati per commettere il reato o che ne costituiscono profitto o prodotto, ove l'apertura della procedura concorsuale sia antecedente alla misura reale, lo spossessamento effetto della prima fa venir meno il presupposto della seconda in quanto si è già realizzata l'interruzione del rapporto reo-cosa pertinente al reato cui avrebbe mirato la confisca. Ad ogni modo, è sempre necessaria una verifica degli effetti e dei risvolti della procedura concorsuale, si pensi ad esempio all'eventualità che il fallito rientri nella disponibilità dei beni a seguito del concordato preventivo o perché, mediante una previa costituzione fittizia di diritti reali o di credito nei confronti di se stesso, figuri tra i creditori concorrenti;
(ii) al contrario, ove si tratti di sequestro finalizzato alla confisca obbligatoria, e dunque la necessità di sottrarre al reo la disponibilità del bene discenda dalla intrinseca illiceità del bene in questione, deve necessariamente ammettersi la possibilità che quest'ultimo sia gravato anche dal vincolo penale (si veda: AA. VV. Diritto penale dell'economia, dir. da Cadoppi, Canestrari, Manna e Papa, Tomo II, 2739 ss., in cui si sottolinea come, ad ogni modo, sia auspicabile un dialogo tra il giudice penale e l'autorità civile. Sul punto specifico sub (ii) si veda anche, seppur risalente, Cass. sez. I, 14 febbraio 1988, Nicoletti. Lo stesso discrimen, peraltro, viene utilizzato anche con riferimento all'ipotesi di confisca obbligatoria ex art. 19 d.lgs. n. 231/2001).
A tale dibattito, come anticipato, vorrebbe porre fine il nuovo Codice della Crisi che, agli artt. 317 ss., ha stabilito che la tutela dei creditori concorsuali debba prevalere su tutte le misure cautelari che non sono idonee a sfociare nella confisca; ove si ricada in questo nel caso della confisca, invece, la gestione concorsuale soccombe e rimangono salvi i diritti dei creditori in buona fede, nei limiti di quanto previsto dagli artt. 52 ss. Codice Antimafia (d.lgs. n. 159/2011). In particolare, la disciplina prevista dal Codice Antimafia individua le seguenti categorie di terzi legittimati a vedersi soddisfatti secondo la procedura di cui agli artt. 57, 58 e 59 del codice medesimo: (i) i titolari di diritti di credito (a prescindere dall'esistenza di un diritto reale di garanzia) risultante da atti aventi data certa anteriore al sequestro; (ii) i titolari di diritti reali o personali di godimento costituiti in data antecedente al sequestro. Ciò posto, i requisiti di ammissione alla procedura - oltre a quello fondamentale che il credito abbia data certa - sono (a) che il proposto non disponga di altri beni sui quali esercitare la garanzia patrimoniale idonea al soddisfacimento del credito, salvo che per i crediti assistiti da cause legittime di prelazione sui beni sequestrati; (b) che il credito non sia strumentale all'attività illecito o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, sempre che il creditore dimostri di aver ignorato in buona fede il nesso di strumentalità; (c) nel caso di promessa di pagamento o di ricognizione di debito, che sia provato il rapporto fondamentale e nel caso dei titoli di credito il rapporto che ne legittima il possesso. Per un'analisi del procedimento di verifica del titolo vantato del creditore funzionale al suo soddisfacimento, trattandosi di un argomento dai molteplici profili, si rimanda agli artt, 57 ss. d.lgs. n. 159/2011
In particolare, il regime di cui agli artt. 317 ss. d.lgs. n. 14/2019 prevede che (i) se la prima misura ad essere disposta è quella del sequestro finalizzato alla confisca, i beni in oggetto non potranno entrare nell'attivo concorsuale e il giudice penale sarà chiamato a procedere all'accertamento del titolo esibito dai terzi che avanzano pretese su di essi; (ii) ove, al contrario, il sequestro finalizzato alla confisca venga disposto in un momento successivo alla confisca, il Giudice Delegato all'interno della procedura concorsuale disporrà la separazione dei beni che devono essere soggetti all'intervenuto vincolo penale, l'accertamento della legittimità del titolo (già esperito in sede concorsuale) sarà effettuato anche dal giudice che ha emesso il provvedimento di sequestro e il terzo verrà soddisfatto dallo Stato nella misura del 60% del valore del credito, al netto delle spese sostenute per la materiale apprensione del bene e la sua custodia (così: Chiaraviglio, Pavese, 15 luglio 2022: la prevalenza dei sequestri e delle confische penali sulle liquidazioni giudiziali entra in vigore. Estesa (non senza ripensamenti) la disciplina della tutela dei terzi, in Sistema Penale, 18 luglio 2022; AA. VV. Diritto penale dell'economia, cit.). Quest'ultima precisazione - frutto dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità che, proprio in un caso di confisca ex art. 12-sexies d.lgs. n. 74/2000, ha affermato come la confisca per equivalente non possa riguardare i beni già assoggettati alla procedura fallimentare in quanto l'indisponibilità derivante dal fallimento è posta a presidio degli interessi non solo dei creditori, ma altresì della collettività e del mercato - rende di fatto poco utile per il terzo in buona fede partecipare al procedimento per vedersi riconosciuto il proprio credito, a fortiori considerato che il suo soddisfacimento avverrà in parte e soltanto una volta che il processo penale si sarà concluso.
Quanto appena esposto, secondo i giudici di legittimità, non può applicarsi, alla procedura di amministrazione straordinaria in quanto la stessa è stata esplicitamente sottratta dal Codice della Crisi e dell'Insolvenza, in virtù della sua natura spiccatamente pubblicistica e volta anzitutto al salvataggio dell'impresa. Da ciò, secondo i giudici di legittimità, deriverebbe la sicura prevalenza della procedura concorsuale, che, unitamente alla circostanza per cui il denaro rinvenuto nel patrimonio della società sia riferibile alla (ovviamente) lecita gestione commissariale, costituiscono ulteriore prova dell'impossibilità di procedere alla confisca dei beni che ne risultano assoggettati.
La natura, ripristinatoria o sanzionatoria, della confisca per equivalente e rapporti confisca ex art. 19 d.lgs. n. 231/2001 Quanto al secondo motivo di ricorso, la sentenza si concentra sulla confisca per equivalente sottolineando come, pur di natura pacificamente sanzionatoria, non le sia estranea la funzioneripristinatoria propria della misura della confisca in generale, in tutte le sue forme (non soltanto quella diretta). Pur trattandosi dello stesso assunto da cui parte il ricorrente per affermare la necessità che la misura colpisca unicamente il soggetto che abbia beneficiato della commissione del reato, ossia l'ente, la Suprema Corte giunge alla considerazione diametralmente opposta e afferma che, ove non si possa procedere in via diretta, non possa negarsi l'operatività della confisca per equivalente nei confronti di chi - pur non avendo direttamente beneficiato del profitto del reato - lo abbia commesso proprio al fine di avvantaggiare il soggetto che poi di quel guadagno abbia usufruito. Posto infatti che la ragione di politica criminale che ha portato alla creazione dell'istituto della confisca è che “il crimine non paga”, l'amministratore (anche di fatto) di una società deve essere consapevole che commettendo un reato nell'interesse dell'ente andrà incontro ad una serie di possibili sanzioni, tra cui anche la confisca per equivalente ove non fosse possibile procedere a quella in via diretta. Altrimenti, infatti, si produrrebbe come effetto la de-responsabilizzazione della persona giuridica. Tale conclusione, peraltro, è avvalorata nel caso di specie dal fatto che si tratti di un reato non inserito nel catalogo dei reati presupposto ex d.lgs. n. 231/2001. In caso contrario, infatti, si sarebbe assistito ad una “più ampia indagine sul patrimonio dell'ente sin dalla fase cautelare, in quanto l'impossibilità transitoria di vincolare il profitto diretto dovrebbe portare ad applicare il sequestro agli eventuali beni di valore equivalente della società, e non della persona fisica”. Dunque, una volta esclusa l'operatività della confisca di cui all'art. 19 d.lgs. n. 231/2001, non v'è motivo di accertare l'esistenza di un interesse o vantaggio in capo all'ente cui appartiene la persona fisica responsabile del reato e il rapporto di immedesimazione organica di quest'ultima all'ente costituisce soltanto uno degli elementi del fatto di reato e il caso deve essere regolato secondo i criteri dettati dalla sentenza Gubert. Osservazioni
La confisca (diretta e per equivalente) con specifico riguardo ai reati tributari ha assunto un ruolo primario nella dialettica dottrinale e giurisprudenziale, soprattutto dopo le pronunce a Sezioni Unite intervenute negli ultimi anni in tema di confisca di denaro. Molte sono le problematiche sottese alla confisca nei reati tributari: la normale dissociazione tra soggetto autore del reato (persona fisica) e soggetto (persona giuridica) nel cui patrimonio si realizza il profitto del reato, con riferimento a reati tributari commessi in seno ad una società - persona giuridica; la diversa natura della confisca diretta rispetto alla confisca di valore, con tutto quello che ne deriva, ad esempio, in termini di (ir)retroattività e applicabilità anche in caso di prescrizione del reato (cfr. Cass. pen., sez. I, n. 3717/1999; Cass. pen., sez. VI, n. 775/1995, secondo cui la confisca, come tutte le misure di sicurezza, è regolata dalla legge in vigore al tempo della sua applicazione, cioè al tempo nel quale il presupposto della sua applicazione è divenuto apprezzabile o è stato apprezzato dal giudice come tale. Ciò, tuttavia, vale unicamente con riferimento alla confisca diretta e non anche a quella per equivalente, di natura sanzionatoria, in relazione alla quale vige invece il principio di irretroattività); l'importanza di delimitare correttamente l'oggetto e il perimetro della confisca diretta di denaro (con la susseguente delimitazione della confisca per equivalente). La sentenza in commento si pone nell'ambito di tale dibattito apportando correttivi ermeneutici all'impostazione accolta dalle Sezioni Unite Gubert e riproposta dalle Sezioni Unite Lucci. È ormai considerato ius receptum il principio espresso dalle Sezioni Unite Gubert e Lucci secondo cui il denaro che costituisce profitto del reato, trattandosi di bene fungibile, può sempre essere attinto dalla confisca diretta ex art. 240, comma 1, c.p., a prescindere dall'esistenza di un nesso di derivazione dal reato contestato. Tuttavia, agli argomenti che evidenziano la censurabilità tout court di una tale impostazione interpretativa si affiancano alcuni recenti pronunce di legittimità, come quella in oggetto, che, pur dichiarando espressamente di conformarsi ai principi delle sentenze Gubert e Lucci (pronunce, peraltro, che non possono essere considerate gemelle), escludono la confisca diretta del denaro qualora l'interessato fornisca la prova della totale assenza di pertinenzialità tra la somma confiscata (o sequestrata) ed il reato commesso (o contestato, nell'ipotesi di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta). Se questa conclusione si applica ai reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, ne deriva che, nell'impossibilità di reperire i beni presso quest'ultima, debba dirsi legittimo procedere al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti del legale rappresentante dell'ente, eccezion fatta se quest'ultimo indici i beni nella disponibilità della persona giuridica su cui disporre la confisca diretta - possibile anche nel caso in cui si tratti di beni risultato della trasformazione del profitto da reato - o se la persona giuridica sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l'amministratore agisca come effettivo titolare (Cfr. Cass. pen., sez. III, 6 luglio 2016, n. 40362; Cass. pen., sez. III, n. 30486/2015; Cass. pen., sez. III, n. 42966/2015; Cass. pen. sez. III, n. 39177/2014. Quest'ultima ha ad oggetto un caso in cui la Corte, in mancanza della prova che i cespiti su cui era stato apposto il vincolo costituissero il risultato diretto della trasformazione del profitto proveniente da un reato tributario, ha ritenuto legittimo l'annullamento del sequestro preventivo disposto per equivalente sui beni appartenenti a una persona giuridica. Difatti, anche la trasformazione del denaro illecitamente conseguito può essere considerato profitto del reato ma a tal fine è necessario comunque che anche tale “rinnovato” profitto sia causalmente attribuibile all'autore del reato. Al contrario, deve dirsi legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto rimasto nella disponibilità di una persona giuridica, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l'ente una persona estranea al detto reato (cfr. Cass. pen., sez. un., n. 10561/2014), nonché quello disposto nei confronti dell'ente-schermo giuridico, il quale dunque non potrebbe dirsi avere tratto alcun beneficio dalla commissione del reato).
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