Il socio che impugna una delibera consiliare deve provare la lesione di un diritto

Luciano Vassallo
07 Novembre 2022

Nella pronuncia in commento vengono esaminati i presupposti e la legittimazione per l'impugnazione di delibere consiliari di s.p.a. da parte dei soci.
Massima

Il socio che impugna una delibera di società di capitali deve allegare e provare anche la lesione di un diritto suo proprio, essendo necessario ma non sufficiente che la deliberazione sia prospettata come contra legem vel statuta.

Il disposto dell'art. 2388, comma 4, c.c., infatti, ben distingue tra la legittimazione ad impugnare le delibere consiliari ad opera dei componenti assenti o dissenzienti dello stesso organo collegiale (oltre che ad opera del collegio sindacale) – fondata sul mero fatto che essi siano stati assenti o dissenzienti rispetto alla deliberazione ipoteticamente illegittima – e la legittimazione dei soci, come estranei all'organo collegiale, che sussiste solo in quanto possa postularsi che detta deliberazione abbia concretamente leso un loro diritto.

Il caso

Con il provvedimento annotato, la Sezione speciale Impresa del Tribunale di Catanzaro si è pronunciata sulla richiesta di parte ricorrente AA Group s.r.l. inerente la sospensione dell'efficacia delle delibere adottate (ex art. 2377 e seguenti c.c.) dal consiglio di amministrazione della società BB s.p.a., in seguito alle adunanze dello stesso avvenute nei giorni 24 gennaio 2022 e 4 febbraio 2022, ravvisandone l'invalidità in quanto lesive della lettera dell'art. 2388 c.c. (sancente i requisiti di “validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione”), con vittoria delle spese di lite in ossequio a quanto prescritto ex art. 91, 92 e 96 c.p.c. In seguito alla costituzione in giudizio, in qualità di convenuta, della società BB, i legali di quest'ultima richiedevano nelle proprie memorie difensive al Tribunale di procedere al rigetto della domanda di parte ricorrente, in quanto dagli stessi ritenuta infondata e inammissibile, con vittoria delle spese di lite in ossequio a quanto sancito dal principio della soccombenza processuale ex art. 91 c.p.c. Avendo le parti discusso sulle conclusioni risultanti dai propri verbali durante l'udienza del giorno 19.4.2022, il giudice si pronuncia rigettando la domanda di parte ricorrente qualificandola come infondata, in quanto il provvedimento cautelare di sospensione di efficacia di una pronuncia adottata dal consiglio di amministrazione di società di capitali, ai fini della propria corretta irrogazione da parte dell'autorità giudicante, richiede la sussistenza di entrambe le esigenze cautelari previste dal codice civile in materia, ossia del periculum in mora e del fumus boni iuris, insussistenti nel caso in esame secondo le analisi condotte dal Tribunale.

Le questioni giuridiche e la soluzione

In primis si può facilmente desumere dall'esistenza del provvedimento annotato che le affermazioni dei legali di parte convenuta circa l'inammissibilità della domanda di parte ricorrente siano state respinte dal Tribunale, risultato quindi competente a giudicare la causa. A riguardo, secondo la convenuta, la ratio giustificante l'inammissibilità della domanda troverebbe fondamento in forza della clausola compromissoria contenuta all'interno del proprio statuto, in base alla quale è prevista la nomina di un collegio arbitrale ai fini della risoluzione delle controversie sorgenti in seno alla società, considerazione elaborata però senza aver tenuto presente la pacifica e costante giurisprudenza del presente Tribunale (ex multis, cfr. Trib. Catanzaro, Sez. Spec. Imprese, 15.3.2021), secondo la quale il giudice di primo grado resta in ogni caso competente, per ciò che concerne le cause inerenti un'istanza di sospensione delegate al collegio arbitrale, fino al momento in cui lo stesso collegio non risulti regolarmente costituito.

Una volta fugati i dubbi afferenti l'ammissibilità della domanda e l'idoneità del Tribunale a giudicare la causa corrente, si è in grado di procedere all'analisi inerente al merito del provvedimento adottato, riguardante l'infondatezza della domanda di sospensione delle delibere consiliari.

La parte ricorrente ha posto quale fondamento della propria domanda giudiziale l'enunciato contenuto all'interno dell'art. 2388, comma 1, c.c., il quale recita “Per la validità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione è necessaria la presenza della maggioranza degli amministratori in carica, quando lo statuto non richiede un maggior numero di presenti (…).” e del comma 4 dello stesso articolo, “ (…) Possono essere altresì impugnate dai soci le deliberazioni lesive dei loro diritti; si applicano in tale caso, in quanto compatibili, gli articoli 2377 e 2378.”.

In qualità di socia al 49,12% della società convenuta, la parte ricorrente propone idoneamente domanda giudiziale, lamentando violazione dell'art. 2388, comma 1 c.c., verificatasi in seguito all'adozione della delibera da parte del cda in data 24 gennaio 2022, in contrasto con lo statuto poiché non adottata, in ossequio ai dettami dello stesso, con il voto favorevole di tutti gli amministratori del c.d.a. (in quanto uno dei due risultava dissenziente) e violazione del medesimo articolo anche con la delibera del 4 febbraio 2022, per violazione della clausola statutaria che prevede l'obbligo del Presidente del c.d.a. di convocare l'assemblea dei soci della società ricorrente ai fini della nomina di un nuovo consigliere di amministrazione.

Tali violazioni integrerebbero, a detta della parte ricorrente, gli estremi del c.d. fumus boni iuris, uno dei requisiti necessari al fin di poter usufruire della richiesta tutela cautelare di sospensione d'efficacia delle delibere summenzionate, in base al quale, pur in assenza di un riscontro giuridico definitivo, si identifica la concreta possibilità che un determinato provvedimento leda la lettera di una legge e che di conseguenza possa farsi un ragionevole affidamento circa l'esistenza del diritto oggetto della pretesa di parte.

Una volta valutato quanto esposto sinora, il Tribunale ritiene infondata la domanda attorea, ponendo come dispositivo di legge a sostegno della propria decisione lo stesso art. 2388, comma 5 c.c. evidenziando, sulla scorta delle memorie dei legali della parte ricorrente, come non si riesca a desumere alcuna lesione diretta dei diritti spettanti ai soci in quanto tali (condicio sine qua non per l'idoneità dell'impaginazione di una delibera consiliare da parte dei soci), sia per quanto concerne il punto di vista meramente patrimoniale sia per quanto concerne il punto di vista prettamente amministrativo o partecipativo, poiché un provvedimento del consiglio di amministrazione come quelli esaminati, se adottato in violazione di una clausola statutaria, lederebbe il generico interesse al corretto funzionamento della società, il quale integrerebbe a sua volta una violazione della regolarità delle deliberazioni consiliari in conformità della lettera dello statuto e della legge, tipologia di lesione che in ogni caso non risulta essere fattispecie direttamente integrativa di un pregiudizio a una posizione giuridica protetta facente capo al singolo socio in questione.

Parimenti, il Tribunale ha giudicato come insussistente anche la seconda esigenza cautelare prevista dalla legge ai fini dell'irrogazione della sospensiva delle delibere adottate dal cda, ovvero del periculum in mora, in base al quale occorre la sussistenza di una concreta e attuale possibilità che si verifichi un determinato e reale pregiudizio, per la parte richiedente la tutela, derivante dalla regolare efficacia del provvedimento adottato. Difatti, in base a quanto emerge in tema di “procedimento di impugnazione” delle deliberazioni dalla lettura dell'art. 2378, comma 3 c.c. (“[…] l'impugnante può chiedere la sospensione dell'esecuzione della deliberazione. In caso di eccezionale e motivata urgenza, il presidente del tribunale, omessa la convocazione della società convenuta, provvede sull'istanza con decreto motivato […]) e dal comma 4 dello stesso articolo (“Il giudice designato per la trattazione della causa di merito, sentiti gli amministratori e sindaci, provvede valutando comparativamente il pregiudizio che subirebbe la ricorrente dalla esecuzione e quello che subirebbe la società dalla sospensione dell'esecuzione della deliberazione […]), il Tribunale ha ritenuto opportuno non provvedere alla sospensione delle delibere impugnate, in quanto il pregiudizio che avrebbe subito la parte ricorrente dalla regolare efficacia della delibera consiliare, consistente nel caso corrente (secondo quanto emerge dalle allegazioni effettuate dai suoi legali nell'atto di citazione) nell'impossibilità per la società controllata dalla parte ricorrente di effettuare il conferimento di determinati beni in natura in suo favore e nella conseguente svalutazione della partecipazione della società ricorrente all'interno del capitale sociale della controllata in seguito alla palese estromissione dell'amministratore della società ricorrente dal cda della società convenuta (risultando violati i diritti previsti dallo statuto in favore della ricorrente in qualità di socia della convenuta), integrerebbe una lesione molto minore rispetto a quella che subirebbe la parte convenuta dalla mancata regolare esecuzione delle delibere del consiglio di amministrazione.

Nel caso in esame il giudice, dopo aver provveduto a un bilanciare degli interessi di parte in gioco, ha dichiarato insussistente il periculum in mora, in primis tenendo in considerazione che a) non sussiste nella realtà dei fatti un attuale e imminente pericolo di sostanziale estromissione dal cda del consigliere espressione della parte ricorrente, b) in secundis valutando, come detto poc'anzi, che la parte ricorrente allo stato dei fatti non subisce un pregiudizio maggiore dalla regolare attuazione del provvedimento del cda rispetto a quello che subirebbe la convenuta dalla sospensione dello stesso e infine c) considerando la mancanza di precisione nell'indicazione del pregiudizio che la ricorrente subirebbe dalla regolare esecuzione delle delibere impugnata, la cui non allegazione impedisce al tribunale di valutare correttamente se, in concreto, possa ravvisarsi un'esigenza cautelare che giustifichi l'irrogazione del provvedimento sospensivo richiesto. Il tribunale si pronuncia inoltre a sfavore della parte ricorrente anche per quanto inerisce le sue doglianze in tema di richiesta di cancellazione delle sconvenienti ed offensive espressioni utilizzate dalla convenuta nei suoi confronti, rilevando che le suddette espressioni indicate come tali dalla ricorrente non rientrano nell'ambito di censura stabilito dalla lettera dell'art. 89 c.p.c. (“Espressioni sconvenienti ed offensive”), poiché presentanti un collegamento diretto con la materia oggetto di controversia, e risultando di conseguenza propedeutiche alla difesa delle tesi sostenute dei legali della convenuta e della loro fondatezza.

Per le ragioni summenzionate, il Tribunale di Catanzaro rigetta il ricorso analizzato, e condanna la ricorrente a rifondere le spese di lite sulla scorta di quanto sancito dal principio della soccombenza processuale ex art. 91 c.p.c.

Osservazioni

La prima doglianza esposta dai legali della parte convenuta nelle memorie difensive consiste nella richiesta al tribunale di provvedere alla risoluzione della controversia in corso in quanto, in forza di clausola compromissoria contenuta all'interno dell'art. 10 dello Statuto e adottata ex art. 808 c.p.c., le controversie nascenti in seno alla società avrebbero dovuto esser composte per mezzo di un collegio arbitrale regolarmente nominato secondo quanto sancito dagli art. 806 c.p.c.

Il tribunale ad ogni modo ha ritenuto non opportuno accogliere la richiesta di parte convenuta poiché contrastante con la propria pacifica giurisprudenza ben orientata nel corso degli anni, la quale ha più volte avuto modo di ribadire l'idonea competenza del giudice ai fini della risoluzione della controversia nel caso di previsione nello statuto societario di clausola compromissoria che identifichi il collegio arbitrale quale autorità competente ai fini della suddetta risoluzione (in senso conforme: Trib. Roma, sez. III, 3/1/2013, n. 12 “In presenza di clausole compromissorie che stabiliscano il ricorso alla tutela arbitrale, le questioni inerenti alla devoluzione della controversia al g.o. piuttosto che al collegio arbitrale, sono qualificabili, anche tenuto conto del disposto dell'art. 819 ter c.p.c., come questioni di competenza del giudice in ordine alla domanda.”), che sopravvive fino al momento in cui lo stesso collegio arbitrale non risulti regolarmente costituito secondo i precetti del Codice di procedura civile.

Giova inoltre ricordare a tal riguardo che l'art. 819-ter c.p.c. ammette la commistione di rapporti tra l'autorità arbitrale e l'autorità giudiziaria sulla medesima controversia, non esistendo per giunta nello stesso c.p.c. alcuna norma che vieti espressamente il ricorso all'autorità giudiziaria per una fattispecie di simile calibro, rimanendo quindi la costante giurisprudenza dell'adito tribunale di fondamentale importanza ai fini del corretto orientamento su quanto concerne le questioni inerenti alla competenza a decidere dell'autorità giudiziaria sulla presente fattispecie. Ex adverso il tribunale ha ritenuto corretta la richiesta della convenuta di considerare infondata la domanda di parte ricorrente, non dando seguito ad alcuna delle presunte doglianze elencate dai legali di quest'ultima a sostegno della propria tesi.

Per ciò che in primis concerne l'assunto di parte ricorrente inerente all'adozione, da parte del c.d.a., delle delibere summenzionate in violazione di una clausola statutariamente prevista, il tribunale è chiaro nel rispondere che l'impugnazione delle suddette può avvenire unicamente nel caso in cui le delibere viziate pregiudichino una posizione di cui è titolare il socio a livello puramente individuale, poiché inerenti ad una sua posizione giuridica protetta, coerentemente agli insegnamenti della sentenza Cass. Civ., sez. I, 14/12/2000, n. 15786 e Cass. Civ., sez. I, 28/3/1996, n. 2850.

Per quanto quindi riguarda a contrariis i soggetti competenti all'impugnazione dei provvedimenti lesivi unicamente di interessi generali e diffusi attinenti alla società o a gruppi operanti a vario titolo all'interno della stessa, possono identificarsi solamente gli amministratori o i membri del collegio sindacale – questi ultimi abilitati a compierlo unicamente come gruppo e mai come singoli, in qualità organo avente il compito di vigilare sul buon andamento della società – al fin di tenere distinti l'ambito della gestione da quello della partecipazione all'interno della società, onde evitare ingerenze tra le varie componenti strutturali della società e incertezze circa la ripartizione di doveri e poteri al suo interno. È corretto peraltro aggiungere che, in una fattispecie di simil calibro, il socio dissenziente avrebbe potuto correttamente tutelare il generico interesse al corretto operato degli amministratori della società proponendo l'azione sociale di responsabilità, in base alla quale gli amministratori rispondono solidamente dei danni derivanti dall'inosservanza dei doveri loro imposti (in dottrina: G. Presti, M. Rescigno, Corso di diritto commerciale, 2015, 490), in modo tale da ovviare al corrente impasse creatosi in tema di impugnazione della delibera consiliare nel cui caso, come già rimembrato, è necessaria la presenza di una precisa lesione affliggente una posizione giuridicamente e individualmente protetta facente capo al singolo socio. Sul versante della sospensione delle delibere considerate viziate dalla parte ricorrente nelle proprie memorie difensive, il tribunale correttamente ricorda che a tal fine è necessaria la presenza di entrambe le esigenze cautelari conosciute dal nostro ordinamento giuridico ai fini dell'irrogazione di un provvedimento di tal calibro, ossia del fumus boni iuris e del periculum in mora (ex multisTrib. Napoli, sez. spec. Impresa, 24/6/2016), entrambe considerate insussistenti dall'autorità giudicante nel caso di specie per i motivi che seguono. Per quanto concerne il fumus boni iuris, è noto che esso assolve lo scopo di tutelare le posizioni giuridiche facenti capo ad un determinato soggetto, le quali rischierebbero di esser compromesse dal tempo necessario ai fini del compimento di un completo accertamento circa la loro esistenza e\o tutela da parte dell'ordinamento vigente. Pertanto risulta corretto irrogare un provvedimento cautelare nel momento in cui la presunzione di esistenza di tali diritti sia sorretta da tesi dalle quali la stessa possa desumersi con un più che affidabile grado di certezza, il quale in ogni caso, secondo quanto emerge dagli insegnamenti della Corte di Cassazione, resta rilegato all'ambito dei provvedimenti d'urgenza e non avrà efficacia di giudicato tra le parti in causa, non essendo idoneo a statuire in via definitiva su una determinata questione giuridica, stante la sommarietà del procedimento che ne porta all'irrogazione (Cass. Civ., sez. lav., 2/12/1996, n. 10756). Nel caso in esame il tribunale nega la sussistenza del fumus boni iuris poiché nelle memorie difensive della parte ricorrente non risultano configurabili allegazioni dalle quali l'autorità giudicante sia in grado di desumere la sussistenza a monte di una lesione di un interesse dei soci individualmente protetto dall'ordinamento che potrebbe verificarsi in seguito alla regolare applicazione del contenuto delle direttive impugnate, mancando i presupposti di fatto richiesti dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di procedimento cautelare quale meccanismo “di emergenza”, avente lo scopo di ovviare alle eventuali conseguenze pregiudizievoli che la regolare applicazione di un provvedimento legittimamente adottato possa arrecare agli interessi di determinati soggetti. Prima di passare alle considerazioni attinenti al periculum in mora, giova a tal riguardo ricordare che ai fini della tutela cautelare sarà in ogni caso necessaria la presenza di entrambe le summenzionate esigenze cautelari; da ciò può con facilità dedursi che l'autorità giudicante de quo nel caso concreto avrebbe già avuto a propria disposizione, alla luce delle considerazioni esposte, la base giuridica ai fini di procedere al diniego della tutela cautelare invocata dalla parte ricorrente, essendosi pronunciata in modo sfavorevole sull'esistenza di una delle pre condizioni richieste ai fini del provvedimento cautelare ( ex multis Trib. Roma, sez. spec. Impresa, 9/5/2017). Nel caso in esame in periculum in mora risulta insussistente parimenti al fumus boni iuris, in quanto la gravità del danno subito dalla parte ricorrente dovrebbe ai suoi fini configurarsi maggiore rispetto a quello che subirebbe la convenuta in seguito alla non applicazione della delibera oggetto di doglianza, fattispecie che il giudice competenze ha fermamente negato a seguito delle analisi previamente esposte, in concordanza alla costante giurisprudenza della fine dello scorso decennio (in maniera concorde, in tema di danno grave e irreparabile derivante dal pregiudizio subito dal debitore per l'esecuzione della sentenza: CTR. Milano, (Lombardia) sez. XX, 8/4/2021, n. 570).

Infine, il giudice decide di non accogliere nemmeno l'ultima delle doglianza esposte dalla parte ricorrente, consistente nella richiesta di rimozione delle espressioni utilizzate dalla parte convenuta nei confronti dell'attrice, giudicate come offensive e non utili ai fini di decisione sulla controversia da quest'ultima.

Il tribunale ha, infatti, precisato che ogni espressione utilizzata dalla parte convenuta debba considerarsi atta alla finalità di vittoria della controversia processuale, per tale ragione respinge la doglianza esposta dalla parte attrice, giudicandola non integrante una delle fattispecie censurate dall'art. 89 c.p.c., fattispecie sulla quale la giurisprudenza odierna è concorde nel ritenere non contra legem le espressioni utilizzate da un determinato soggetto, qualora le stesse siano preordinate alle esposizione delle proprie ragioni in fatto e il linguaggio utilizzato rientri nei limiti della continenza espositiva (a riguardo, risulta essere illuminante una pronuncia della Cassazione Penale in tema di diffamazione a mezzo di stampa, la quale nel valutare la lesività ingiustificata delle espressioni utilizzate sancisce che “il limite della continenza espositiva, invero, può e deve dirsi superato, per quanto si è detto, dalla oggettiva capacita denigratoria delle espressioni, perché non necessarie (sovrabbondanti) alla esposizione del fatto (cronaca) o al commento medesimo (critica) e, più precisamente, nella ipotesi in cui il linguaggio risulti pretestuosamente adottato per una gratuita aggressione ad personam (…)”: Cass. pen., sent. 20/4/2005, n. 19381).

Conclusioni

Dal momento in cui la parte ricorrente non è riuscita in alcun modo, nelle proprie memorie difensive, ad allegare una coerente giustificazione giuridica a fondamento della propria volontà di impugnare le delibera consiliari summenzionate, il Tribunale di Catanzaro dichiara infondata la domanda proposta in relazione alla sospensione della regolare efficacia delle stesse, rigettando il ricorso da essa proposto e condannando la ricorrente a rifondere le spese di lite in favore della convenuta sulla scorta del principio della soccombenza processuale ex art. 91 c.p.c.

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