La responsabilità per danni da randagismo secondo la Cassazione

Gianluca Cascella
30 Novembre 2022

L'attribuzione di responsabilità a carico della P.A. per i danni cagionati da animali randagi necessita di un duplice accertamento: della sussistenza dell'obbligo di recupero degli animali a carico di un soggetto individuato tramite legge regionale e, nel caso in cui detto ente riesca a fornire prova di aver preso tutte le precauzioni idonee, del danno subito dal danneggiato, su cui grava il relativo onere probatorio.
Massima

Ai fini della formulazione del giudizio di colpa sulla condotta della pubblica amministrazione non basta la mera inosservanza dell'obbligo giuridico di provvedere alla cattura dell'animale randagio; si deve tener presente che il relativo giudizio si inserisce in una fattispecie in cui è stato già preliminarmente individuato il soggetto su cui grava l'obbligo giuridico rimasto inadempiuto, di guisa che l'evento dannoso costituisce la concretizzazione del rischio che la norma cautelare inosservata tendeva a prevenire, che viene presuntivamente imputato, sul piano causale, alla predetta violazione, ai sensi dell'art. 40 comma 2 c.p.; una volta provato, in giudizio, sia la sussistenza dell'obbligo di osservare tale regola cautelare, sia che l'evento rientra al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento omesso, risulta irrilevante, ai fini dell'esonero dalla responsabilità, che il soggetto tenuto a detta osservanza abbia provato la non conoscenza in concreto dell'esistenza del pericolo.

Il caso

Mevio e Sempronia convennero, dinanzi al tribunale di Lecce, la locale ASL invocandone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza del sinistro verificatosi nel centro abitato di un Comune allorché Sempronia, mentre era alla guida del ciclomotore di proprietà del padre, a causa di un cane randagio ne perse il controllo, cadendo a terra e riportando lesioni personali. Costituitasi in giudizio, la A.S.L. deducendo che il Comune era unico responsabile dell'accaduto, chiese ed ottenne di essere autorizzata a chiamarlo in causa, insistendo comunque per il rigetto della domanda nel merito; costituendosi in giudizio, il terzo chiamato eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva, chiedendo in ogni caso il rigetto della domanda.

La domanda di Sempronia per le lesioni venne accolta, mentre venne respinta quella di Mevio per i danni allo scooter: la Corte di Appello di Lecce, adita sia dal Comune sia dalla ASL, previa riunione, rigettava entrambe gli appelli. A sostegno del duplice rigetto la Corte riteneva che, alla luce della legge regionale pugliese, doveva ritenersi introdotta, nella cornice della legge statale 14 agosto 1991, n. 281 (legge quadro in materia di prevenzione del randagismo) la responsabilità concorrente di A.S.L. e comuni, ex art. 2043 c.c., per i danni derivanti dal randagismo, in quanto cattura e custodia degli animali randagi, pur integrando operazioni distinte assegnate a soggetti diversi, costituirebbero un'attività sostanzialmente unitaria rispetto allo scopo della normativa regionale, che era di prevenire i pericoli specifici per l'incolumità della popolazione connessi al randagismo.

In conseguenza di simile ripartizione, pertanto, una volta provati i fatti dedotti a fondamento della domanda attorea, entrambi gli enti dovevano reputarsi responsabili, essendo la A.S. l'ente localmente deputato al controllo del fenomeno del randagismo, ed il Comune per aver omesso di segnalare la presenza dei cani vaganti nel centro abitato, mentre veniva escluso un concorso di colpa di Sempronia quale guidatrice del ciclomotore. Avverso la decisione di appello propone ricorso per cassazione il Comune sulla base di tre motivi, a cui risponde l'Azienda Sanitaria Locale con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale, fondato su quattro motivi. Risponde altresì con duplice controricorso Sempronia.

La questione

Il caso descritto propone, in particolare, una questione di indubbio interesse, ovvero quella relativa all'accertamento della legittimazione passiva in caso di azione risarcitoria per i danni derivanti dal randagismo, con la presupposta necessità, a monte, di individuare l'ente (e/o gli enti) cui le leggi nazionali e regionali affidano in generale il compito di controllo e gestione del relativo fenomeno, in ragione del fatto che una simile responsabilità rinviene il suo fondamento, prima ancora che nell'accertamento della colpa dell'ente a tanto preposto dalle citate leggio nazionali e regionali, in un accertamento che possiede carattere preliminare rispetto a quello appena indicato, consistendo nel verificare se, in capo all'ente predetto possa ritenersi esistente un obbligo giuridico, il cui oggetto sia costituito dallo svolgimento di una attività vincolata in base alla legge (attività integrata, nel caso di specie, dalla cattura dell'animale randagio).

Le soluzioni giuridiche

Le questioni sottese ai ricorsi sono state risolte dalla Corte di Cassazione attraverso l'analisi della normativa nazionale in tema di randagismo ed i suoi rapporti con le singole e diverse legislazioni regionali, in quanto, essendo la legge statale (n. 281/1991) assolutamente silente in punto individuazione dell'ente su cui grava l'obbligo giuridico di recupero, cattura e ricovero dei cani randagi (il che, peraltro, appare coerente con la natura di legge quadro della richiamata l. 281/1991) si rende necessaria l'analisi di quanto prevede al riguardo la normativa regionale di settore.

Nel caso di specie, pertanto, avendo rilevato che la legge regionale pugliese di riferimento (la n. 12 del 1995) attribuisce i compiti di recupero, cattura e ricovero degli animali randagi esclusivamente alle Aziende Sanitarie Locali e non anche ai Comuni, ai quali, invece, attribuisce compiti ben diversi, ovvero quelli di accoglienza, custodia e mantenimento degli animali dopo che sono stati catturati, la S.C. accoglie il ricorso del Comune rilevandone il difetto di legittimazione passiva ed affermando che, sin dal primo grado, la domanda nei suoi confronti non poteva essere proposta.

Esaminando il contrapposto ricorso incidentale della ASL la Corte, al fine di decidere sullo stesso, innanzitutto rileva come si renda necessario indagare il tema della struttura della fattispecie di illecito aquiliano che determina la responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati dagli animali randagi.

A tale riguardo, i giudici di legittimità osservano che il relativo esame involge un duplice scrutinio, di cui il primo avviene a livello generale ed astratto ed il secondo, invece, con riguardo alle circostanze dello specifico caso concreto.

Per la Corte, infatti, occorre prima di tutto individuare il soggetto che possa dirsi tenuto, per il combinato disposto delle leggi statali e regionali, all'assolvimento dei compiti di recupero, cattura e ricovero degli animali randagi, al quale si imputa l'inadempimento ai predetti obblighi – quindi una responsabilità a carattere omissivo – e poi procedere alla verifica se tale inadempimento possa ascriversi a colpa del soggetto in questione, in ragione del fatto che la responsabilità del medesimo rientra sempre e comunque nel perimetro di cui all'art. 2043 c.c.

Su tale premessa, la Corte respinge il ricorso incidentale rilevando come le sollevate doglianze risultavano in parte infondate, ed in parte inammissibili.

In punto infondatezza, i giudici di legittimità innanzitutto osservano – come del resto già rilevato, anche se specularmente, a fondamento dell'accoglimento del ricorso principale – che la legge regionale pugliese non pone, a carico dei comuni, alcun obbligo giuridico che possa dirsi rilevante ai fini della fattispecie di responsabilità dedotta in giudizio, atteso che i richiamati compiti di recupero, cattura e ricovero degli animali randagi, da tale normativa sono stati posti a carico esclusivamente delle ASL, per cui da tale attribuzione discende la relativa legittimazione passiva.

Inoltre, anche il secondo profilo di doglianze viene ritenuto infondato sul rilievo per il quale, potendosi dire raggiunta la prova dell'esistenza di un obbligo e del suo inadempimento da parte del soggetto su cui esso gravava (per non aver provato di essersi attivato al fine di rispettare tale obbligo di condotta) ai fini della configurazione della responsabilità ex art. 2043 c.c. di tale soggetto, il danneggiato non poteva dirsi tenuto a provare che la ASL aveva pregressa conoscenza della presenza di cani randagi.

Per la Corte, infatti, simile obbligo insorgeva, a carico del danneggiato, solo in un momento successivo (al riguardo la Corte ne rileva la sua collocazione “a valle”) e precisamente solo nel caso in cui l'ente avesse dimostrato di aver preso l'iniziativa per evitare la concretizzazione del rischio che le disposizioni normative miravano ad evitare: prova che, all'evidenza, la ASL non aveva fornito.

In punto di inammissibilità, invece, la Corte rileva che essa deriva dal fatto che le doglianze in questione, sostanzialmente censurando la valutazione delle risultanze istruttorie da parte del giudice di appello, erano chiaramente rivolte ad ottenere un riesame delle stesse, non consentito alla S.C. per essere, come è noto, attività riservata al giudice di merito, che nel caso di specie le aveva esaminate e valutate con giudizio di fatto ritenuto insindacabile in sede di legittimità.

Osservazioni

La sentenza qui commentata appare senza dubbio da condividere in quanto affronta e risolve correttamente le questioni sottoposte al suo esame.

Ai fini del corretto inquadramento della problematica, da un lato e, dall'altro, per individuare e correttamente ripartire l'onere probatorio gravante sulle parti in simili azioni, non si può prescindere dal rilievo per il quale, in simili azioni, al danneggiato è richiesto un peculiare onere di allegazione e prova dei fatti costitutivi della propria domanda.

Infatti, come affermato dalla S.C., al fine di potere affermare la responsabilità di un dato ente per i danni provocati da un animale randagio, il mero riferimento, da parte del danneggiato, all'esistenza di un obbligo normativo a carico del soggetto ritenuto responsabile, ed al suo mancato rispetto, non è sufficiente, essendo richiesto qualcosa di più, al danneggiato, il che, all'evidenza, rileva sotto il profilo dell'onere della prova (Cass. civ., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 19404; Cass. civ., sez. III, 11 dicembre 2018, n. 31957 ; Cass. civ., sez. III, 28 giugno 2018, n. 17060).

Per i giudici di legittimità, infatti, è necessario che il danneggiato, in base alle regole generali di cui all'art. 2043 c.c., alleghi e dimostri il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall'ente e la riconducibilità dell'evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria, in base ai principi sulla causalità omissiva.

In particolare, per la S.C. l'individuazione della condotta concretamente esigibile dal soggetto di cui si assume la responsabilità deve essere scrutinata ed individuata “secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l'alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo” (Cass. civ., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 19404; Cass. civ., sez. III, 11 dicembre 2018, n. 31957 ; Cass. civ., sez. III, 28 giugno 2018, n. 17060; Cass. civ., sez. VI, 14 maggio 2018, n. 11591; Cass. civ., sez. III, 31 luglio 2017, n. 18954).

Con tale affermazione, allora, viene ad essere individuato e delineato il contenuto e l'estensione dell'onere probatorio che concretamente grava sul danneggiato, con tutte le discendenti e prevedibili conseguenze in caso di suo mancato assolvimento.

Al riguardo, infatti, la giurisprudenza di legittimità ritiene necessario che il danneggiato fornisca la prova dell'esistenza di precedenti segnalazioni della presenza abituale di animali randagi nel luogo teatro dell'evento rientrante nel territorio di competenza dell'ente preposto o che, comunque, vi siano state nella zona richieste di intervento dei servizi di cattura e di ricovero, demandati alla ASL ed al Comune, tuttavia rimaste inevase (sul punto, è chiarissima Cass. civ., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 19404).

Tale conclusione appare la conseguenza della ritenuta - ormai pacificamente da parte della S.C. - applicabilità, a simili ipotesi, dell'art. 2043 c.c., alla stregua del quale, pertanto, risulterà possibile affermare una responsabilità del soggetto che si assume responsabile, solo nel caso in cui il danneggiato sia stato preventivamente in grado di individuare la condotta colposa dell'ente – generica ovvero anche specifica – che si sia posta in nesso causale con il verificarsi dell'evento dannoso (Cass. civ., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 19404).

Quello appena indicato, pertanto, costituisce, ad avviso della giurisprudenza di legittimità, il perimetro entro il quale deve essere scrutinata la tipologia di condotta che, di volta in volta, si ritiene concretamente esigibile dal soggetto che la legge ha preposto al controllo e alla gestione del fenomeno del randagismo (Cass. civ., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 19404); tanto appare indispensabile, per la S.C., al fine di poterne dedurre, all'esito di tale scrutinio, l'eventuale responsabilità del predetto soggetto ove si riscontri, nel caso concreto, uno scarto tra la condotta effettivamente tenuta e quella che, secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l'alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo, poteva ritenersi dal medesimo effettivamente esigibile, e quindi dovuta (Cass. civ., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 19404).

Se ne ricava, allora, che la responsabilità per i danni causati dai cani randagi va ascritta esclusivamente all'ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale n. 281/1991) il compito di prevenire il pericolo specifico per l'incolumità della popolazione connesso al randagismo, e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi (Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2017, n. 12495).

Per i giudici di legittimità, invero, siffatta imputazione della responsabilità si giustifica in quanto l'attribuzione, per legge, ad uno o più determinati enti pubblici, del compito della cattura e della custodia degli animali vaganti o randagi (e cioè liberi e privi di proprietario) deve considerarsi il fondamento della responsabilità per i danni eventualmente arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche sotto l'aspetto della responsabilità civile (Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2017, n. 12495); va infine evidenziato che, in contrasto con tale consolidato orientamento, si è posta una isolata e non recente decisione di legittimità, ad avviso della quale, anche nel caso in cui la legge regionale poneva la responsabilità a carico di un diverso soggetto, era da ritenersi responsabile sempre e comunque l'ente comunale (Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2010, n. 10190).

Coerentemente con tale inequivoco orientamento, pertanto, i giudici di merito ricostruiscono tale ipotesi di responsabilità in termini, di responsabilità comunque colposa e non già di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2051 c.c., 2052 c.c. e 2053 c.c. (App. Napoli, sez. VIII, 22 maggio 2020, n. 1820) essendo in particolare l'art. 2052 c.c., applicabile alla sola fauna selvatica (Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2020, n. 9671).

A tale ultimo proposito, invero, la dottrina esclude l'applicabilità dell'art. 2052 c.c. all'ipotesi del danno da randagismo, sul rilievo che tale norma può trovare applicazione nel solo caso in cui l'animale che si assume essere stato causa del danno, sia di proprietà – o comunque venga utilizzato – da un soggetto determinato ed individuato, quindi allorquando esista, in pratica, un rapporto di fatto tra tale soggetto e l'animale (C.M. BIANCA, Diritto Civile, vol. V, La responsabilità, Milano, 2021, p. 698 e ss.); non essendo configurabile, invece, simile rapporto, nel caso di danni causati da animale randagio, ben si comprende la ratio della ritenuta inapplicabilità dell'art. 2052 c.c. ai danni da randagismo, dato che, come si afferma in dottrina, è proprio la libertà di spostamento di tali animali, conseguente all'essere privi di proprietario e/o utilizzatore, che impedisce di ricondurre le ipotesi di danno causato dagli stessi nel perimetro applicativo dell'art. 2052 c.c. (G. BALZARETTI, La responsabilità per danno cagionato da animali, in Resp. Civ. e Prev., 1995, 471); anche perché, come afferma altro autore, proprio la possibilità di esercitare un potere di controllo sull'animale, per le ragioni più svariate, giustifica l'imputazione di una responsabilità di carattere oggettivo a carico del predetto soggetto, allorquando per qualsiasi ragione l'animale si sottrae al suo controllo, provocando danni a terzi (G. TRIMARCHI, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, III ed., Milano, 2021, p. 420 e ss.).

In definitiva, allora, le indicazioni teorico-pratiche che, da tale chiaro, comprensibile e condivisibile pronunciamento della giurisprudenza di legittimità, è possibile ricavare, si possono così sintetizzare:

I) a livello di principi generali, la S.C. ribadisce che, essendo la legge nazionale del 1991 una legge quadro, volta in quanto tale a dettare la cornice normativa concreta, la soluzione della questione va ricercata, di volta in volta, nelle singole leggi regionali in materia;

II) allorquando, come nel caso deciso, la legge regionale che viene in rilievo (quella pugliese) prevede la esclusiva responsabilità, al riguardo, di un unico soggetto (ASL o ATS che dir si voglia) riservando ai comuni compiti diversi, è evidente che una simile scelta deve necessariamente essere tenuta in doverosa considerazione dal danneggiato che intenda avviare un'azione risarcitoria per danni da randagismo, non potendo il medesimo fare affidamento su una ipotetica responsabilità solidale di tutti i soggetti che abitualmente sono coinvolti in simili vicende;

III) questa regola generale, tuttavia, potrebbe andare incontro ad eccezioni, nelle quali sia possibile ravvisare una responsabilità concorrente del comune se, per ipotesi, l'ente avesse avuto formale conoscenza della presenza di un animale randagio in una data zona, prima del verificarsi del sinistro, e ciò nonostante abbia omesso di informare l'ASL (o ATS) di riferimento, poiché in tal caso si verificherebbe un concorso di condotte colpose nella causazione dell'unico fatto illecito, con conseguente possibilità di affermare la responsabilità solidale di entrambi i soggetti, con evidente vantaggio, almeno sulla carta, per il danneggiato;

IV) infatti, la S.C., con consolidato orientamento, cui la decisione qui annotata mostra di voler dare continuità, ritiene il danneggiato gravato di fornire la prova della pregressa conoscenza solo ove l'ente tenuto all'osservanza di una data regola abbia provato di averla osservata (Cass. civ., VI, 24 marzo 2022, n. 9621; Cass. civ., sez. VI, 9 novembre 2021, n. 32884).

Ne consegue, allora, che, in ossequio a tali consolidati insegnamenti della giurisprudenza di legittimità, possono formularsi le seguenti considerazioni:

  • una volta dimostrata in giudizio la sussistenza dell'obbligo di osservare la regola cautelare omessa ed una volta appurato che l'evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento richiesto, ai fini dell'esonero dalla responsabilità risulta del tutto irrilevante che il soggetto tenuto a detta osservanza abbia provato la non conoscenza in concreto dell'esistenza del pericolo;
  • da tanto discende una peculiare ripartizione, anche in ragione della loro diversa collocazione, tra le parti, dell'onere probatorio, per essere l'adempimento di esso, da parte del danneggiato, subordinato al previo adempimento, da parte dell'ente, di quello gravante a suo carico;
  • infatti, solo nel caso in cui il soggetto tenuto per legge (ASL nel caso di specie) alla predisposizione di un servizio di recupero di cani randagi abbastanza articolato, sia riuscito a provare di essersi attivato rispetto all'onere cautelare previsto dalla normativa regionale, potrà dirsi insorto, a carico del danneggiato, l'onere di provare, anche per presunzioni, l'esistenza di segnalazioni o richieste di intervento per la presenza abituale di cani, qualificabili come randagi, dal momento che tale onere si colloca a valle rispetto a quello gravante sul primo soggetto.

In sostanza, anche nelle azioni di risarcimento danni da randagismo non appare inverosimile ravvisare la introduzione, per effetto del più recente, ed ormai consolidato, orientamento della giurisprudenza di legittimità, di un “doppio ciclo causale”, per certi versi analogo a quello introdotto in tema di responsabilità medica dalla notissima decisione n. 18392/2017 della S.C., e per altri versi differente.

Analogo in ragione del fatto che anche qui si riscontra una scomposizione del carico probatorio. Differente, invece, in considerazione del fatto che esso, in questa fattispecie, risulta in pratica “rovesciato” - rispetto alla richiamata teorica - in tema non solo di ripartizione, quanto e soprattutto di scomposizione, tra le parti, del rispettivo onere probatorio.

Infatti, nella fattispecie della responsabilità per danni da randagismo, per effetto delle richiamate decisioni di legittimità, il momento logico in cui ciascuna delle parti risulta chiamata ad assolvere all'onere probatorio su di essa gravante risulta invertito, in quanto è prima l'ente che viene chiamato a provare di aver assolto agli obblighi che potevano dirsi gravanti a suo carico dalla normativa di settore; solo nel caso in cui l'ente riesca a fornire tale prova - ecco perché la S.C. colloca tale onere “a valle” - può dirsi insorto l'onere, per il danneggiato, di provare che, in concreto, tale assolvimento, da parte dell'ente, risulti inesistente, o comunque solo meramente formale.

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