Liquidazione del danno permanente non patrimoniale mediante costituzione di rendita vitalizia: an e quomodo

Cesare Trapuzzano
13 Dicembre 2022

Nell'attribuzione di una rendita vitalizia il giudice di merito deve procedere alla valutazione dell'idoneità della misura in rapporto alla lesione subita dalla vittima (an), alla predisposizione delle opportune cautele e ai criteri orientativi della quantificazione, in modo da garantire un'effettiva tutela delle ragioni del danneggiato. Criterio prevalente sarà la fissazione di un corretto coefficiente di capitalizzazione, idoneo ad assicurare la compensazione di ciascun pregiudizio sofferto dalla vittima in uno specifico arco temporale (quomodo).
Massima

Affinché il risarcimento del pregiudizio derivante da una grave lesione della salute, attraverso la costituzione di una rendita vitalizia, consenta di cogliere appieno la proiezione diacronica di tutte le componenti del danno che, di giorno in giorno, il danneggiato avrebbe subito dal momento dell'evento in poi, il valore della rendita deve essere computato tenendo conto non delle concrete speranze di vita del danneggiato, bensì della vita media futura prevedibile secondo le tavole di mortalità elaborate dall'ISTAT, applicando altresì un coefficiente di capitalizzazione che garantisca la compensazione di ogni rateo di rendita con il nocumento sofferto dalla vittima nel corrispondente arco temporale, come quello stabilito per la liquidazione del danno da incapacità lavorativa.

Il caso

I genitori del minore M.F. agivano in giudizio, in proprio e quali esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio, per chiedere il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, conseguenti alla condotta illecita perpetrata da un'Azienda ospedaliera e da un suo dipendente.

Al riguardo, esponevano: che avevano portato il bambino, di pochi mesi, che da alcuni giorni presentava un pianto continuo, presso il P.S.; che si occupava del bambino un dipendente della struttura, in quel momento in servizio, il quale lo dimetteva dopo aver effettuato una radiografia, ipotizzando una coxalgia e prescrivendo la somministrazione di un antinfiammatorio; che il giorno seguente il minore era nuovamente portato al P.S., ove era in servizio lo stesso dipendente; che, a seguito delle effettuate analisi del sangue, ne era disposto il trasferimento nel reparto di pediatria, ove veniva intubato, essendo stata rilevata la presenza di pneumococco; che successivamente era stata diagnosticata una meningoencefalite grave, con presenza di lesioni focali multiple sia del tronco encefalico sia degli emisferi cerebrali; che la consulenza tecnica esperita in sede di ATP aveva accertato l'imperizia, l'imprudenza e la negligenza del dipendente che si era occupato del bambino; che era stato altresì accertato che quest'ultimo, pur prestando servizio presso il P.S. pediatrico, non era un medico.

Istruita la causa anche mediante integrazione della CTU medico-legale, il Tribunale adito accoglieva la domanda, condannando l'Azienda ospedaliera e il suo dipendente, in solido, al risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti di M.F., liquidato in euro 1.219.355,00, nonché del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore di ciascuno dei genitori. Condannava, inoltre, il dipendente a tenere indenne l'Azienda ospedaliera, in via di regresso, nei limiti del 50% di quanto la stessa era tenuta a versare a parte attrice. Rigettava, invece, la domanda di garanzia dell'Azienda ospedaliera verso la compagnia assicuratrice – in quanto l'attività colposa che aveva determinato il danno era stata posta in essere da un soggetto che non ricopriva la qualifica di medico –, in considerazione della colposa mancanza di controlli da parte dell'Azienda.

La sentenza di prime cure era parzialmente riformata dalla Corte d'appello, la quale condivideva le valutazioni del Tribunale circa la sussistenza del nesso di causalità tra il danno riportato dal minore e le omissioni imputate al falso medico e alla struttura, evidenziando come la CTU avesse accertato comportamenti sanitari imperiti, imprudenti e negligenti, tenuto conto delle condizioni del minore, delle linee guida vigenti all'epoca e della migliore pratica medica.

In particolare, la Corte territoriale rilevava che il dipendente che si era occupato del bambino non era stato in grado di inquadrare correttamente il caso clinico e ne aveva disposto le dimissioni senza una corretta diagnosi e senza chiedere il parere di un medico specialista, mentre una corretta e tempestiva diagnosi, formulata già il primo giorno, avrebbe consentito, con il 70% di probabilità, un'evoluzione favorevole della malattia.

La Corte di merito, poi, confermava l'entità del risarcimento nella misura liquidata in primo grado, rigettando la richiesta dell'Azienda sanitaria di rideterminarne l'importo parametrandolo alla minore aspettativa di vita del bambino rispetto a quella di un coetaneo sano, essendo tali minori aspettative una conseguenza diretta e immediata dell'illecito.

Tanto premesso, la Corte territoriale, considerata l'impossibilità di stabilire in modo oggettivo una durata presumibile della vita del bambino, e tenuto conto altresì del carattere permanente del danno, riteneva che il risarcimento in forma di rendita vitalizia meglio rispondesse alle concrete esigenze del danneggiato, assicurandogli, per tutta l'effettiva durata della sua vita, la percezione di quanto liquidato annualmente. Al fine di calcolare l'importo annuo della rendita, la Corte operava il calcolo inverso, sulla base della formula utilizzata per determinare il valore delle rendite vitalizie di cui all'art. 46, secondo comma, lett. c), del d.P.R. n. 131/1986 (Testo Unico delle disposizioni concernenti l'imposta di registro). All'esito di tale calcolo, la Corte d'appello disponeva la costituzione di una rendita vitalizia in favore del minore, quantificata in euro 1.283,53 mensili.

Era, inoltre, accolto il gravame dell'Azienda ospedaliera, nella parte in cui aveva lamentato il mancato accoglimento della domanda di manleva formulata nei confronti della compagnia assicuratrice, sostenendo che la polizza coprisse la complessiva attività aziendale della struttura e, quindi, anche quella posta in essere dal dipendente funzionalmente inserito in tale Azienda, il quale aveva commesso il fatto lesivo nell'espletamento delle mansioni assegnategli. Per converso, era ritenuta irrilevante la mancata qualifica professionale dello stesso quale medico.

Né poteva rilevare il comportamento colposo dell'assicurata, tenuto conto che, nelle condizioni generali di assicurazione, veniva esclusa la decadenza dal diritto all'indennizzo nel caso di dichiarazioni inesatte o reticenti della contraente all'atto della stipulazione della polizza, ad eccezione del caso di dolo.

In ultimo, la Corte distrettuale, all'esito della conversione del risarcimento in forma capitale in rendita vitalizia, disponeva che la condanna della compagnia assicuratrice al pagamento diretto di quanto liquidato in favore degli attori, anche nella qualità di rappresentanti legali del minore, fosse corredata dalla stipulazione di una polizza fideiussoria, con pagamento a prima richiesta, a garanzia della rendita vitalizia costituita in favore del minore.

Avverso tale sentenza d'appello proponeva ricorso per cassazione la compagnia assicuratrice. Proponevano ricorso incidentale anche i genitori del minore.

La questione

La pronuncia in commento determina le ipotesi nelle quali può procedersi alla liquidazione del danno permanente non patrimoniale mediante la costituzione di una rendita vitalizia (an), con la connessa predisposizione delle opportune cautele, individuando i pregi di tale forma di risarcimento e le fattispecie alle quali essa si attaglia.

All'esito, sono indicati i criteri che ne orientano la quantificazione, in modo da impedire che la sua fissazione finisca per eludere le ragioni di tutela rivendicate dal danneggiato. Diventa, dunque, preminente la corretta fissazione del coefficiente di capitalizzazione, atto ad assicurare che ogni rateo di rendita compensi il pregiudizio sofferto dalla vittima nel corrispondente arco temporale (quomodo).

Le soluzioni giuridiche

In ordine alla liquidazione dei danni permanenti alla persona di natura non patrimoniale, sotto forma di rendita vitalizia, la Corte di legittimità ha tracciato il quadro sistematico di tale forma di risarcimento, stabilendo i seguenti criteri-guida, afferenti rispettivamente all'an e al quomodo:

Il giudice è libero di optare ex officio per lo strumento di cui all'art. 2057 c.c., purché determini la rendita in modo tecnicamente corretto.

Il meccanismo della rendita vitalizia costituisce una forma di risarcimento per equivalente (Cass. 13 gennaio 1993, n. 357) ed è fonte di un rapporto a esecuzione periodica, in cui la durata prevista è componente essenziale dell'utilità alla quale è ordinato il rapporto.

La liquidazione ex art. 2057 c.c. mira a realizzare una tendenziale corrispondenza fra la permanenza del danno e la permanenza del risarcimento, configurandosi la liquidazione della rendita non come diritto della parte, ma come facoltà del giudice (Cass. 24 maggio 1967, n. 1140; Cass. 20 febbraio 1958, n. 553).

Sotto il profilo dei rapporti tra risarcimento capitalizzato e risarcimento sotto forma di rendita, dei conseguenti poteri del giudice, dei criteri di scelta tra l'una e l'altra forma di liquidazione del danni, l'universo del danno grave alla persona rappresenta il terreno elettivo per un risarcimento in forma di rendita: l'unico che consenta di considerare adeguatamente, sotto molteplici aspetti, tra cui quello dell'effettività della tutela e della giustizia della decisione, l'evoluzione diacronica della malattia (ovvero la sua guarigione, se possibile), così che l'antinomia tra l'astratta efficacia di tale strumento risarcitorio e la sua (mancata) applicazione in concreto appare segnata, in premessa, da una sorta di sostanziale, quanto non giustificabile, “diffidenza” nei suoi confronti (in tema di danno patrimoniale: Cass. 18 novembre 2005, n. 24451; nella giurisprudenza di merito: Trib. Lecce 1° luglio 2019; Trib. Milano 14 maggio 2019; Trib. Gorizia 18 luglio 2017; Trib. Bergamo 24 febbraio 2016; Trib. Milano 27 gennaio 2015).

Sotto l'aspetto processuale, non costituisce presupposto ex lege per l'applicazione dell'art. 2057 c.c. l'istanza dell'avente diritto, poiché si tratta non di un diritto della parte, ma di una facoltà del giudice, il quale può provvedervi, anche in appello, in via autonoma – non integrando tale scelta gli estremi della questione rilevabile d'ufficio ex art. 101, comma 2, c.p.c., ma caratterizzandosi soltanto per una diversa determinazione della forma del risarcimento –, con giudizio incensurabile in cassazione se non per illogicità della motivazione o per errore di diritto (Cass. 24 maggio 1967, n. 1140; Cass. 7 marzo 1966, n. 658; Cass. 20 febbraio 1958, n. 553), come, ad esempio, allorché il calcolo della rendita non rispetti il disposto dell'art. 1223 c.c. oppure non si accompagni alle adeguate cautele prescritte dall'art. 2057 c.c.

Destituita di fondamento deve ritenersi l'affermazione per cui, attraverso la liquidazione di una rendita, il danneggiante si avvantaggerebbe delle conseguenze del proprio atto illecito – perché la vita media di chi ha subito danni alla persona sarà verosimilmente più breve rispetto a quella delle persone sane – e tanto perché capitale e rendita costituiscono due diverse forme di erogazione del medesimo valore, essendo il denaro un bene per definizione fruttifero, del quale sarà fruibile il valore d'uso (la rendita), ovvero il valore di scambio (il capitale), non diversamente da quanto accade per il godimento di un bene immobile, che potrà essere venduto o locato ricavando redditi diversi, ma che costituiscono pur sempre forme alternative di realizzazione del suo valore.

Riparare il pregiudizio derivante da una grave lesione della salute attraverso la costituzione di una rendita, quale forma privilegiata di risarcimento, consente di cogliere appieno la proiezione diacronica di tutte le componenti del danno che, di giorno in giorno, il danneggiato avrebbe subito dal momento dell'evento in poi, con la conseguenza che, ove venga (correttamente) adottata tale forma risarcitoria, il valore della rendita dovrà essere computato tenendo conto non delle concrete speranze di vita del danneggiato, bensì della vita media futura prevedibile secondo le tavole di mortalità elaborate dall'ISTAT, a nulla rilevando che, nel caso concreto, egli abbia speranze di sopravvivere solo per pochi anni, ovvero che non risulti oggettivamente possibile determinarne le speranze di sopravvivenza, qualora tale ridotta speranza di sopravvivenza sia conseguenza dell'illecito.

Nel caso in cui la minor durata della vita dovesse risultare conseguenza dell'evento lesivo (ossia ove si accerti un nesso causalmente rilevante tra le lesioni e le ridotte aspettative di vita, ovvero tra le lesioni e la morte precoce, se già verificatasi al momento dell'instaurazione del giudizio), il responsabile dell'unico evento lesivo ascrittogli sarà chiamato altresì a risarcire, iure proprio, il danno (parentale e patrimoniale) subito dai genitori del minore, in relazione all'intero periodo di presumibile vita del minore.

In caso di morte precoce del danneggiato, occorre, pertanto, distinguere:

a) se la morte anticipata sia stata causata dalle lesioni, il responsabile sarà chiamato a risarcire, oltre al danno biologico e morale, possibilmente in forma di rendita, subito dal danneggiato nel periodo di tempo compreso tra il sinistro e la morte, anche, e in via onnicomprensiva, il danno iure proprio subito dai genitori, in relazione alla ridotta aspettativa di vita e al presumibile periodo di vita del minore;

b) se la morte non sia stata causata dalle lesioni, il responsabile dovrà risarcire il danno biologico subito dal danneggiato, valutato al tempo della commissione dell'illecito, oltre al danno da lesione del rapporto parentale in favore dei genitori.

Nel caso di macro-invalidità (specie se comporti la perdita della capacità di intendere e di volere), ovvero nel caso di lesioni subite da un minore per il quale una prognosi di sopravvivenza risulti estremamente difficoltosa se non impossibile o, ancora, nel caso di lesioni inferte a persone socialmente deboli o descolarizzate (richiedenti asilo, disabili mentali o anche semplicemente macro-lesi, i quali già prima del sinistro si trovassero in profondo conflitto con i familiari), ovvero con riguardo alle qualità del debitore (una compagnia di assicurazione, piuttosto che un privato o una pubblica amministrazione), sussiste il serio rischio che ingenti capitali erogati in favore del danneggiato possano andare colpevolmente o incolpevolmente dispersi, in tutto o in parte, per mala fede o per semplice inesperienza dei familiari del soggetto leso, sicché potrà essere privilegiata la liquidazione del danno in forma di rendita.

La rendita costituita ex art. 2057 c.c. è disciplinata dagli artt. 1872 ss. c.c., con rilevanti conseguenze poste a tutela delle ragioni del creditore, in quanto:

a) il debitore non può liberarsi dall'obbligazione offrendo il pagamento di una somma capitale;

b) il debitore non può invocare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta;

c) in caso di inadempimento del debitore, il creditore della rendita può far sequestrare e vendere i beni dell'obbligato.

Rientra tra i poteri del giudice non soltanto quello di optare per la citata modalità di liquidazione del risarcimento, in presenza dei presupposti previsti dalla legge, ma anche quello di disporre, all'esito, ed in via altrettanto officiosa, le cautele che ritiene necessarie, nel caso di specie consistite nella costituzione di una polizza fideiussoria a prima richiesta, ma che possono tradursi anche nell'acquisto di titoli del debito pubblico in favore dell'avente diritto ovvero nella stipulazione, in suo favore, di una polizza sulla vita a premio unico ex art. 1882 c.c.

Deve ritenersi astrattamente ammissibile l'ipotesi di una revisione della rendita, oltre che la proposizione di una nuova e diacronica domanda risarcitoria in presenza di aggravamenti che non fossero accertabili né prevedibili al momento della pronuncia (Cass. 20 marzo 2017, n. 7038; Cass. 4 novembre 2014, n. 23425; Cass. 12 ottobre 2011, n. 20981; Cass. 31 maggio 2005, n. 11592). In specie, ai fini dell'instaurazione di un nuovo giudizio, è necessario che la parte individui specificamente gli elementi idonei a consentire la revisione della liquidazione del danno a causa di aggravamenti successivi e sopravvenuti alla formazione del giudicato, che sono da ricondurre:

(a) ad un'obiettiva impossibilità di accertare, al momento della prima liquidazione, fattori attuali capaci, nell'ambito di una ragionevole previsione, di determinare l'aggravamento futuro;

(b) all'impossibilità, ancora con riferimento alla prima liquidazione, di prevederne gli effetti;

(c) all'insussistenza di un evento successivo avente efficacia concausale dell'aggravamento (Cass. 27 dicembre 2016, n. 27031).

Né è precluso prevedere ex ante dei meccanismi di adeguamento rispetto al potere di acquisto della moneta, in quanto, in assenza di tali meccanismi, il risarcimento non sarebbe integrale (Trib. Lecce 1° luglio 2019; Trib. Milano 9 maggio 2017 e 14 maggio 2019 adottano il criterio della rivalutazione annuale secondo l'indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi membri dell'UE – IPCA; Trib. Gorizia 18 luglio 2017 e Trib. Palermo 5 luglio 2017 fanno riferimento al FOI-Indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati elaborato dall'ISTAT).

Questione diversa è quella relativa al risarcimento del danno patrimoniale attraverso la costituzione di una rendita, che trova, a sua volta, il proprio terreno d'elezione in caso di perdita o riduzione del reddito del danneggiato.

Qualora il danno non patrimoniale sia stato liquidato in forma di rendita, dopo la determinazione della somma capitale, occorre tenerne distinte due diverse componenti: il coefficiente per la costituzione della rendita (ovvero il criterio di calcolo) e la durata della stessa.

Il coefficiente di costituzione della rendita deve corrispondere all'età effettiva del danneggiato al momento del sinistro – ed avrà riferimento alla durata media della vita – calcolato sul presupposto che, secondo le statistiche mortuarie attuali, un ventenne ha una aspettativa di vita di sessant'anni, un quarantenne di quaranta ed un sessantenne di venti, sicché, allorché si tratti di determinare il capitale da cui ricavare la rendita, la minore speranza di vita della vittima non viene in rilievo, con la conseguenza che il responsabile non può trarne alcun vantaggio qualora la minor speranza di vita sia stata determinata dalla sua condotta illecita.

Tuttavia, una volta determinato il capitale con riferimento alla durata media della vita, e non a quella presumibile nel caso concreto, una volta detratti gli eventuali acconti versati prima della sentenza (che andranno rivalutati e detratti dal capitale stesso posto a base di calcolo della rendita), e una volta convertito tale capitale in rendita, il diritto a ricevere quest'ultima matura de die in diem, ed ogni rateo di rendita compensa il pregiudizio sofferto dalla vittima nel corrispondente arco di tempo, con l'effetto che se la vittima venisse a mancare ante tempus, con la sua morte cesserebbe il pregiudizio permanente e, cessando il pregiudizio, non sarebbe concepibile l'ulteriore pretesa di continuare ad esigere un risarcimento.

La conversione di un capitale in rendita avviene dividendo il primo per un coefficiente per la costituzione delle rendite vitalizie: assunta a base di calcolo la somma capitale, la scelta del coefficiente per la costituzione d'una rendita vitalizia da parte del giudice di merito incontra alcuni limiti. Poiché la rendita deve essere equipollente al capitale, difatti, il coefficiente prescelto dovrà essere:

a) scientificamente fondato;

b) aggiornato;

c) corrispondente all'età della vittima alla data dell'infortunio;

d) progressivo, cioè variabile in funzione (almeno) di anno, se non di frazione di anno.

Tutti questi requisiti concorrono a garantire il rispetto del precetto di cui all'art. 1223 c.c., cioè la corrispondenza – indagata sulla base di un criterio di causalità giuridica – tra le conseguenze dannose risarcibili, e direttamente e immediatamente riconducibili all'evento di danno (a sua volta riconducibile ad una condotta colpevole sulla base di un nesso di causalità materiale), e il risarcimento accordato in concreto.

Nel caso di specie, la rendita è stata costituita in favore della vittima dividendo il capitale per il coefficiente di cui all'art. 46, secondo comma, lett. c), del d.P.R. n. 131/1986: tale coefficiente è dettato dalla legge al fine di determinare la base imponibile dell'imposta di registro dovuta per gli atti di costituzione di rendite vitalizie ed è stato periodicamente aggiornato con successivi decreti ministeriali.

Senonché detto coefficiente, concepito per la liquidazione di una imposta, ha una progressione non corrispondente all'età del beneficiario, essendo invariato per le persone di età compresa tra 0 e 20 anni, aumentando ogni dieci anni fino a 40 anni; quindi, aumentando con cadenza progressivamente decrescente (ogni quattro, ogni tre, ogni due anni) fino a 78 anni; da tale età in poi tornando a crescere con cadenze più distanziate (ogni tre, ogni quattro, ogni cinque anni), fino a 99 anni. Un coefficiente così strutturato non è rispettoso del precetto di cui all'art. 1223 c.c., perché, se liquidato per il risarcimento del danno da invalidità permanente, finirebbe per accordare ad un ventenne lo stesso risarcimento dovuto ad un neonato, e ad un quarantenne lo stesso risarcimento dovuto ad un trentenne. Inoltre, il coefficiente indicato restituisce il valore capitale d'una rendita se moltiplicato per il rateo annuo di essa.

A quanto esposto consegue che, qualora il giudice ritenga di liquidare il danno in forma di rendita, dovrà procedere, in concreto:

a) a quantificare il danno in somma capitale, avuto riguardo all'età della vittima al momento del sinistro, sulla base delle tabelle di mortalità e senza tener conto della sua eventuale ridotta aspettativa di vita, qualora quest'ultima risulti conseguenza dell'illecito;

b) ad individuare un coefficiente di capitalizzazione fondato su corrette basi attuariali, aggiornato e corrispondente all'età della vittima al momento dell'evento;

c) a dividere la somma capitale per il coefficiente di capitalizzazione;

d) a dividere ancora (eventualmente) per dodici il rateo annuo, se intenda liquidare una rendita mensile invece che annuale.

Anche le tabelle INAIL per gli infortuni mortali sul lavoro, basate su stime aggiornate dell'aspettativa di vita media, non costituiscono un criterio corretto per la determinazione di coefficienti di capitalizzazione, poiché prevedono coefficienti diversi a seconda del grado di invalidità permanente, di tal che un invalido al 70% di 50 anni avrà diritto ad una rendita calcolata su un coefficiente dimezzato rispetto a un invalido al 15% di 50 anni.

Si applicano, in altri termini, a parità di età, coefficienti inversamente proporzionali al grado di I.P. (sul presupposto che più alta è l'invalidità, minore è la speranza di vita), mentre della ridotta speranza di vita non si deve tenere conto, nella scelta del coefficiente, qualora essa dipenda dal fatto illecito del danneggiante.

La scelta del coefficiente sarà, pertanto, oggetto di valutazione e di scelta discrezionale da parte del giudice di merito. Un utile riferimento “paranormativo” può, peraltro, essere rappresentato da quello a suo tempo suggerito per la liquidazione del danno da incapacità lavorativa diffuso dal CSM ed allegato agli Atti dell'incontro di studio per i magistrati, svoltosi a Trevi il 30 giugno – 1° luglio 1989 (in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, Quaderni del CSM, 1990, n. 41, pp. 127 e ss.) indicato, tra le altre, da Cass. 14 ottobre 2015, n. 20615.

Osservazioni

Nel delineare il quadro sistematico della riparazione del danno non patrimoniale mediante costituzione di una rendita vitalizia, allorché siano residuati pregiudizi permanenti (recte danni proiettati nel futuro, senza una cadenza temporale prefissata), la Corte di legittimità ha individuato alcuni presupposti orientativi della scelta del giudice di merito, in ordine alla liquidazione secondo tale meccanismo di quantificazione del nocumento, basato sulla percezione di ratei annuali o mensili.

In primo luogo, la Corte ha evidenziato che tale prerogativa, attinente al quomodo del riconoscimento della tutela risarcitoria, rientra nei poteri del giudice e prescinde da una corrispondente istanza della parte danneggiata.

Inoltre, è precisato che il campo elettivo nel quale siffatta forma di liquidazione del danno è privilegiata riguarda le ipotesi di danni gravi alla persona, a cui si associ il pericolo di una indebita gestione del capitale, ove il riconoscimento della pretesa avvenga mediante quantificazione una tantum. E ciò purché ricorra la garanzia di solvibilità dei soggetti danneggianti tenuti al pagamento.

La parcellazione della liquidazione è pertanto preferibile rispetto alla prestazione in unica soluzione allorché quest'ultima sia:

a) eccessivamente aleatoria, poiché ancorata a coefficienti di riferimento obsoleti;

b) volatile, poiché esposta al rischio di svalutazione nel corso del tempo;

c) sproporzionata, qualora non abbia attinenza con la reale durata della vita del danneggiato;

d) eccessivamente onerosa, qualora la gestione ed amministrazione del capitale esiga particolari accorgimenti e conoscenze tecniche, per porlo al riparo dal rischio futuro di incapienza.

Secondo il dettato normativo, il riconoscimento della rendita vitalizia per i danni permanenti alla persona impone di tenere conto delle condizioni delle parti e della natura del danno. Ora, il ricorso a questo sistema di liquidazione del danno si adegua all'effettiva durata della vita del danneggiato, quando non sia possibile formulare ex ante una prognosi sulla presumibile estensione temporale della permanenza in vita della persona colpita dall'evento lesivo o, comunque, sulla conformazione del suo svolgersi agli standard medi di durata della vita, ai quali si riferiscono i criteri tabellari di liquidazione.

Il beneficio primario che tale forma di liquidazione consente di ottenere è appunto quello di adattarsi all'effettivo corso della vita del danneggiato, sicché la previsione di una rendita è una forma di liquidazione essenzialmente elastica, che può essere plasticamente modellata sull'effettiva durata della vita del danneggiato, qualora non sia possibile compiere una prognosi postuma, in ragione della gravità, sia qualitativa (con riferimento alla severità dei pregiudizi) sia quantitativa (con riguardo all'ampiezza delle ripercussioni negative), delle conseguenze lesive riportate.

In queste ipotesi alla permanenza del pregiudizio può corrispondere la permanenza del metodo di liquidazione del relativo risarcimento mediante rendita. In base all'indirizzo dominante in dottrina, la natura permanente del danno si riferisce alle conseguenze lesive del fatto illecito, ossia all'idoneità del comportamento contrario al dovere di neminem laedere a produrre effetti pregiudizievoli destinati a riflettersi continuativamente sulla sfera giuridica della parte lesa, con l'effetto che si tratta di un requisito proprio del danno-conseguenza, non del danno-evento.

Secondo altra tesi, la permanenza è invece un concetto naturalistico e non giuridico che si riferisce al danno-evento, destinato a protrarsi sine die, ossia presumibilmente irrimediabile.

L'altra notazione di rilievo sottolineata dalla Corte di cassazione concerne i criteri di quantificazione della pretesa mediante riconoscimento di una rendita vitalizia. Tale quantificazione non può prescindere dalla determinazione del capitale che sarebbe spettato, ove il giudice avesse deciso di liquidare il risarcimento attraverso la corresponsione di una somma unitaria accordata istantaneamente.

Quindi, la S.C. ha puntualizzato che la quantificazione di tale somma capitale non deve tenere conto delle aspettative di vita in concreto del danneggiato, qualora esse siano state incise dalla condotta illecita contestata. Dovrà, per converso, tenersi conto dell'età in concreto della vittima primaria e delle aspettative medie di vita secondo le tavole di mortalità elaborate dall'ISTAT.

Ad avviso della Corte, le speranze di vita in concreto ridotte, in ragione del comportamento illecito posto in essere dal danneggiante, non giustificano un giudizio negativo sulla liquidazione del danno attraverso la costituzione di una rendita vitalizia. E tanto perché, rispetto al rilievo che esalta i limiti di simile forma di quantificazione, alla stregua della cessazione della corresponsione della rendita per effetto della morte prematura del danneggiato, che sia conseguita all'illecito commesso, si è rilevato che di tali minori aspettative di vita si tiene conto, in chiave compensativa, attraverso il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito iure proprio dai prossimi congiunti della vittima primaria sub specie di danno parentale.

L'ulteriore nodo affrontato dalla giurisprudenza di legittimità attiene all'individuazione dei coefficienti di capitalizzazione, affinché possa essere riconosciuto un rateo annuale o mensile in favore della vittima primaria che compensi le spettanze che sarebbero state riconosciute per il nocumento maturato fino a quel frangente temporale, ossia l'effettiva corrispondenza dell'importo versato alla quota di danno cristallizzata sino a quel momento, secondo una logica di progressiva emersione del pregiudizio. Siffatto coefficiente è rappresentativo dell'indice di divisione periodica del capitale che sarebbe spettato allorché la liquidazione fosse avvenuta una tantum. Ovviamente occorre tenere conto del fatto che la liquidazione del danno non avviene mediante il riconoscimento immediato di un importo capitale: sicché la sommatoria dei ratei da corrispondere secondo lo schema predisposto sulla scorta della durata media di vita del danneggiato supera la misura della somma che sarebbe stata versata una tantum, avuto riguardo alle annualità in proporzione al c.d. valore d'anticipo, commisurato agli interessi a scalare sulle singole annualità.

Il coefficiente d'indicizzazione deve, quindi, essere scientificamente fondato, aggiornato, corrispondente all'età della vittima alla data dell'infortunio, progressivo, cioè variabile in funzione (almeno) di anno, se non di frazione di anno. Sicché è stata esclusa l'adeguatezza dei parametri dettati per determinare la base imponibile dell'imposta di registro dovuta per gli atti di costituzione di rendite vitalizie, così come è stato ritenuto non conforme ai predetti criteri il parametro di cui alle tabelle INAIL per gli infortuni mortali sul lavoro.

Tali coefficienti non garantiscono, infatti, la progressività. Si è ritenuto, pertanto, che la scelta discrezionale del giudice, in ordine all'individuazione di tali coefficienti – che, comunque, devono essere inclini al rispetto degli indici innanzi esposti –, possa essere soddisfatta attraverso l'utilizzo dei parametri contemplati per la liquidazione del danno da incapacità lavorativa. Essi assicurano la corretta commisurazione del rateo al danno consolidatosi nell'arco temporale di riferimento, appunto perché improntati al principio di progressività: gli importi devono, infatti, essere progressivamente crescenti con l'innalzamento dell'età della vittima.

La Corte di legittimità ha, in ultimo, osservato, per un verso, che la predisposizione delle opportune cautele – atte a garantire l'osservanza degli obblighi periodici di versamento della rendita – compete d'ufficio al giudice che liquida il danno permanente mediante la costituzione di una rendita vitalizia; e, per altro verso, che – ove si verifichino aggravamenti non prevedibili al momento in cui la quantificazione del danno è effettuata secondo tale meccanismo di liquidazione – la misura dei ratei può essere comunque aggiornata, senza che operi la preclusione del giudicato.

Allo stesso modo possono essere previsti ex ante meccanismi di rivalutazione automatica delle somme periodiche corrisposte a tale titolo.

Guida all'approfondimento

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Franzoni, Dei fatti illeciti, in Comm. S.B., sub artt. 2043-2059, Bologna-Roma, suppl. 2004, 315;

Gentile, voce Danno alla persona, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 634;

Rossetti, Dei fatti illeciti, in Comm. del codice civile (a cura di Carnevali), sub art. 2057, Torino, 2011, 590;

Ruperto, La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina, IV, Delle obbligazioni, Milano, 2012, 619;

Zeno Zencovich, Per una «riscoperta» della rendita vitalizia ex art. 2057 c.c., in Nuova giur. civ. comm., I, 1999, 1310.

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