Risarcibilità del danno da incapacità lavorativa specifica in favore del neonato

Ilaria Oberto Tarena
01 Marzo 2023

Danno alla capacità lavorativa: la Cassazione chiarisce la differenza tra quella generica e quella specifica e si interroga sulla risarcibilità del danno da incapacità lavorativa specifica in favore del neonato.
Massima

“La lesione della capacità lavorativa generica è componente del danno biologico e pertanto non è autonomamente liquidabile. Diversamente, il danno alla capacità lavorativa specifica è di natura patrimoniale e può essere risarcito quale lucro cessante con specifico riferimento alla attività lavorativa svolta dal soggetto danneggiato”.

Il caso

Tizia e Caio agivano in giudizio nei confronti di una azienda ospedaliera per il risarcimento del danno biologico subito dal proprio figlio durante il parto e per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dagli stessi. L'azienda ospedaliera chiamava in causa la propria compagnia assicurativa.

Il Tribunale accertava la responsabilità della struttura sanitaria e la condannava al risarcimento del danno patito dalla madre Tizia per euro 7.963,00 e, inoltre, al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal bambino per l'importo di euro 200.834,00, applicando le tabelle del Tribunale di Milano e la personalizzazione massima.

La compagnia assicurativa della struttura sanitaria proponeva appello e, a loro volta, Tizia e Caio proponevano appello in via incidentale. La Corte d'Appello accoglieva entrambi gli appelli riducendo l'importo per il danno non patrimoniale in favore del bambino ad euro 62.621,66, ma riconoscendo ulteriori importi pari a 42.000,00 euro e 25.000,00 euro, rispettivamente in favore di Tizia e Caio, a titolo di danno da grave lesione del rapporto parentale. Da ultimo, la Corte d'Appello riconosceva in favore del bambino il danno patrimoniale da perdita di chance derivante dalla compromissione della capacità lavorativa. Tale danno era liquidato in via equitativa nell'importo di 25.000,00 euro.

La compagnia assicurativa della struttura sanitaria impugnava anche la sentenza di appello e proponeva ricorso per cassazione affidandosi a tre motivi.

Con il primo motivo, la compagnia assicurativa censurava la sentenza della Corte d'Appello per aver liquidato a Tizia e Caio il danno da grave lesione del rapporto parentale in violazione degli artt. 1223, 1226, 2059, 2697 e 2729 c.c. e con una motivazione apparente e contraddittoria.

Col secondo motivo, la compagnia assicurativa contestava la sentenza della Corte d'Appello per aver riconosciuto al bambino un danno patrimoniale per lesione della capacità lavorativa specifica. La ricorrente evidenziava infatti che la consulenza tecnica d'ufficio aveva soltanto accertato una lesione della capacità lavorativa generica affermando che il minore, una volta diventato adulto, non avrebbe potuto lavorare in determinati contesti lavorativi (ad esempio a contatto con le polveri).

Col terzo motivo, infine, la ricorrente denunciava la violazione degli artt. 100 e 112 c.p.c. rilevando che Tizia e Caio non avevano mai formulato una domanda relativa al danno da perdita di chance e, pertanto, la Corte d'Appello si era pronunciata oltre i limiti della domanda.

La questione

La questione principale sottesa al ricorso richiedeva alla Corte di Cassazione di soffermarsi sulla differenza tra danno alla capacità lavorativa generica e danno alla capacità lavorativa specifica.

Inoltre, il ricorso si incentrava anche sui presupposti per la liquidazione del danno da lesione del rapporto parentale ovvero, in particolare, sulla soglia minima di gravità delle lesioni e, pertanto, la Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi anche su tale tematica.

Le soluzioni giuridiche

Come accennato, il primo motivo del ricorso riguardava il danno da lesione del rapporto parentale e si incentrava, nello specifico, sulla soglia minima di gravità delle lesioni.

Poiché nel presente caso la consulenza tecnica aveva quantificato il danno biologico patito dal minore nella misura del 10%, la ricorrente sosteneva che le lesioni fossero lievi e quindi non sufficientemente gravi da consentire il riconoscimento del danno non patrimoniale ai congiunti. Secondo la ricorrente, tale danno sarebbe riconoscibile soltanto in caso di morte del congiunto o se questi subisce lesioni di particolare gravità, cioè superiori al 10% ai sensi dell'art. 139 cod. ass. e comunque non lievi.

In un FOCUS pubblicato su www.ridare.it (https://ridare.it/articoli/focus/il-risarcimento-del-danno-ai-congiunti-del-macroleso-una-rassegna-giurisprudenziale) si erano illustrati gli orientamenti della Suprema Corte sul tema, rilevando che risulta ancora fortemente dibattuta l'esistenza di una soglia minima di gravità delle lesioni ai fini del riconoscimento del danno non patrimoniale ai familiari.

Inizialmente, con la sentenza Cass. civ., sez. III, 5 dicembre 2014, n. 25729, la Suprema Corte aveva adottato una posizione più rigorosa sostenendo che fosse necessaria la prova di lesioni “seriamente invalidanti”. In quest'ottica, il risarcimento in favore dei congiunti sembrava confinato ai casi di macrolesione.

Diversamente, con la pronuncia n. 17058 dell'11 luglio 2017, la Suprema Corte aveva poi abbassato la soglia di gravità delle lesioni, affermando che sarebbe sufficiente che la persona sia “ferita in modo non lieve”. Nel caso oggetto di decisione, un padre aveva provato che il proprio figlio minorenne aveva riportato una invalidità permanente del 25% e una invalidità temporanea assoluta di oltre quattro mesi, tale da costringere il figlio ad un lungo periodo di ricovero ospedaliero. Dall'altro lato, il padre aveva dovuto dedicarci interamente alle cure del figlio durante tutta la durata del ricovero. Seppure il caso non riguardasse quindi una macrolesione, la Suprema Corte aveva ritenuto provata l'alterazione del rapporto parentale derivante dalla necessità per il padre di dedicarsi completamente all'assistenza del figlio per quei quattro mesi e la sofferenza interiore a causa dei postumi riportati dal figlio, cassando la sentenza della Corte d'Appello per vizio di omesso esame di un fatto decisivo.

Ad inizio 2019, la Suprema Corte (Cass. civ., 31 gennaio 2019 n. 2788) aveva confermato questo orientamento meno rigoroso, ribadendo che, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale ai congiunti, potrebbe bastare la prova della lesione “non lieve”.

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione conferma ulteriormente l'orientamento giurisprudenziale meno rigoroso che abbandona il concetto di “macrolesione”, precisando che l'art. 139 cod. ass. determina come massimo livello delle microlesioni il 9%, ma non pone alcun "freno" normativo per il danno parentale nel senso che possa sussistere soltanto se gli effetti stabiliti dal danno biologico sul congiunto siano particolarmente elevati.

Secondo la Corte di Cassazione, il danno riflesso può essere riconosciuto ogni qual volta che il congiunto provi di aver subìto un danno in conseguenza delle lesioni patite dal suo familiare. Tale prova, secondo la Cassazione, può essere fornita anche per via presuntiva (cfr., Cass. sez. 3, 30 agosto 2022 n. 25541, Cass. sez. 3, ord. 8 aprile 2020 n. 7748 e Cass. sez. 3, ord. 24 aprile 2019 n. 11212).

Sulla scorta di tale principio, la Cassazione ha rilevato che la Corte d'appello aveva dato atto che "la condizione psico/fisica" del figlio (che già prima aveva concretizzato riferendosi a "come si manifestò dopo la sua nascita e nei periodi successivi"), quale emergente dalla CTU, è "sicuramente tale da necessitare di assistenza parentale" e aveva inoltre motivato la liquidazione risarcitoria evidenziando la "non modestia delle lesioni del piccolo".

Sotto questo aspetto, la sentenza della Corte d'Appello è stata quindi confermata e il motivo è stato dichiarato inammissibile perché contenente una censura direttamente fattuale.

Il secondo e terzo motivo sono stati poi esaminati congiuntamente, giacché riguardavano entrambi la liquidazione del danno patrimoniale, e sono stati accolti.

La Corte di Cassazione ha infatti rilevato che, nell'esaminare le risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, il giudice di appello aveva effettivamente confuso i concetti di capacità lavorativa generica e di capacità lavorativa specifica.

Il consulente d'ufficio aveva soltanto fornito una precisazione che secondo la Corte “ictu oculi non è tale da oltrepassare i confini della descrizione sempre di una capacità lavorativa generica; e per di più nel caso in esame non solo le lesioni sono alquanto contenute, ma deve altresì considerarsi la persona lesa non ha ancora dimostrato le proprie effettive inclinazioni e potenzialità, per cui, appunto, non è possibile pervenire all'accertamento, neanche come ipotesi o chance, di un concreto danno patrimoniale in termini lavorativi.”

Per l'effetto, la Suprema Corte ha cassato la sentenza rinviandola ad altra sezione della Corte d'Appello.

Osservazioni

La sentenza in commento rimarca la distinzione tra i concetti di capacità lavorativa generica e di capacità lavorativa specifica.

Per capacità lavorativa generica si intende l'attitudine astratta della vittima a svolgere un lavoro. Tale capacità è comunemente ritenuta una componente del danno biologico e, pertanto, secondo l'orientamento maggioritario della giurisprudenza non è autonomamente liquidabile. Sul punto, M. Rossetti ritiene che il concetto di capacità lavorativa generica sia ormai ampiamente desueto giacché lo stesso era stato elaborato quando la giurisprudenza riteneva irrisarcibile il danno non patrimoniale (cfr. M. Rossetti “Il danno alla salute”, parte I cap. IV, §§ 10 e ss.)

Per capacità lavorativa specifica si intende invece la capacità del soggetto danneggiato di svolgere la specifica attività lavorativa che esercitava prima del sinistro o quella che avrebbe potuto svolgere potenzialmente in base alle sue attitudini. A differenza della capacità lavorativa generica, la capacità lavorativa specifica attiene alla sfera del danno patrimoniale e consiste nel lucro cessante, ovvero nella riduzione del reddito conseguente ai postumi riportati dalla vittima.

Per ottenere il risarcimento, la vittima deve provare, anche in via presuntiva, di non poter più svolgere il lavoro che svolgeva in precedenza oppure quel lavoro che, verosimilmente, avrebbe avuto la concreta possibilità di svolgere(cfr. Cass. civ., sez. III, 9 novembre 2021, n. 32649; Cass. civ., sez. III, 9 novembre 2020, n. 24987 sulla prova del danno da incapacità lavorativa specifica).

Se il confine tra i due istituiti sembra chiaro a parole, nella prassi non è però sempre così agevole tracciare una distinzione. Invero, nel caso oggetto della sentenza commentata, secondo la Corte di Cassazione, la Corte d'Appello aveva frainteso un passaggio della consulenza tecnica d'ufficio, in cui il perito aveva fatto riferimento alla impossibilità per il minore “una volta diventato adulto” di “lavorare in contatto con le polveri ne avrebbe potuto svolgere attività subacquea o di pilota per la necessità di evitare brusche variazioni barometriche”.

Anche se il consulente tecnico d'ufficio aveva individuato alcuni settori specifici in cui il minore non avrebbe potuto lavorare in futuro, la Suprema Corte ha ritenuto nella sentenza in commento che, trattandosi di un soggetto minorenne non lavoratore, egli non potesse dimostrare ancora “le proprie effettive inclinazioni e potenzialità”e, pertanto, l'indicazione del consulente tecnico doveva essere interpretata come attinente alla capacità lavorativa generica.

La pronuncia della Corte di Cassazione escluderebbe quindi la risarcibilità del danno da perdita della capacità lavorativa in favore dei soggetti minorenni, che non svolgono un'attività lavorativa e che, a causa della precoce età, non possono quindi nemmeno provare quale attività lavorativa avrebbero potuto svolgere un domani.

In altre pronunce, tuttavia, la Corte di Cassazione aveva riconosciuto il danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica anche in favore del soggetto minorenne, che non svolga attività lavorativa, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto come l'età dell'infortunato, il suo ambiente sociale e la sua vita di relazione (Cass. civ., 15 aprile 1996, n. 3539).

Secondo questo indirizzo, il giudice potrebbe valutare le vocazioni manifestate dal minore (tipo di studi, capacità, meritevolezza, interessi) e individuare l'area lavorativa verso cui il minore si sarebbe presumibilmente indirizzato (M. Rossetti, Il danno alla salute, cap. 1, parte II, §§10).

In questo senso si può citare una recente sentenza della Corte d'Appello di Ancona che ha infatti affermato: “Il risarcimento del danno patrimoniale futuro, ove il danneggiato sia un minore, non può consistere nella incapacità lavorativa specifica, ma solo nella lesione della capacità lavorativa generica e richiede necessariamente una valutazione prognostica. Tale pregiudizio, pertanto, potrà essere risarcito se possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe diversamente conseguito ove non fosse rimasta vittima dell'infortunio. La relativa prognosi deve avvenire, in primo luogo, in base agli studi compiuti e alle inclinazioni manifestate dalla vittima: in secondo luogo, sulla base della condizione economico-sociale della famiglia.” (Corte App. Ancona, 29 ottobre 2019, n.1542).

La questione è ancora più controversa quando si abbassa ulteriormente l'età del soggetto danneggiato.

Qualora infatti la vittima frequenti un istituto superiore, è possibile ipotizzare in che ambito lavorativo avrebbe potuto collocarsi. Tuttavia, più l'età si abbassa e, soprattutto, nel caso del neonato che riporti un danno durante il parto, come quello oggetto della sentenza in commento, come si può ipotizzare il lavoro che egli avrebbe svolto?

Sul punto, si può citare una sentenza della Cassazione che, nel 2018, ha riconosciuto il danno alla capacità lavorativa specifica in favore del neonato affermando: “Il danno da riduzione della capacità di guadagno subito da un minore in età scolare, in conseguenza della lesione dell'integrità psico-fisica, può essere valutato attraverso il ricorso alla prova presuntiva allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro il danneggiato percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell'evento lesivo, tenendo conto delle condizioni economico-sociali del danneggiato e della sua famiglia e di ogni altra circostanza del caso concreto. Ne consegue che ove l'elevata percentuale di invalidità permanente renda altamente probabile, se non certa, la menomazione della capacità lavorativa specifica ed il danno ad essa conseguente, il giudice può accertare in via presuntiva la perdita patrimoniale occorsa alla vittima e procedere alla sua valutazione in via equitativa, pur in assenza di concreti riscontri dai quali desumere i suddetti elementi. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la pronuncia con la quale il giudice di merito aveva ritenuto insussistente la prova del danno alla capacità di produrre reddito di un minore in età scolare che aveva subìto gravissime lesioni alla nascita dalle quali gli era derivata un'invalidità permanente pari al 52%)”.

È evidente che, in questi casi, la capacità lavorativa specifica debba essere apprezzata in via assolutamente astratta col concreto rischio di tradursi, di fatto, nel valutare piuttosto l'astratta attitudine del soggetto al lavoro, ovvero la capacità lavorativa generica.

La sentenza oggetto del presente commento sembra proprio dar voce a tale criticità evidenziando come non sia possibile prevedere quale attività lavorativa avrebbe svolto un neonato.

D'altronde, l'orientamento giurisprudenziale che invece ammette il risarcimento del danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica anche in favore del neonato ricorre a criteri molto generali per la sua liquidazione, come ad esempio il triplo della pensione sociale ex art. 137 cod. ass. se il danno è stato causato da un sinistro stradale (cfr. Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2008, n. 24331), incorrendo nel rischio di sovrapporre i concetti di capacità lavorativa generica e specifica.

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