I presupposti per il valido esercizio dell'azione individuale di responsabilità verso gli amministratori
05 Maggio 2023
Massime
L'azione individuale di responsabilità, ai sensi dell'art. 2395 c.c., esige che il comportamento doloso o colposo dell'amministratore (anche di una s.d.f.), posto in essere tanto nell'esercizio dell'ufficio quanto al di fuori delle correlate incombenze, abbia determinato un danno direttamente sul patrimonio del socio o del terzo (v. di recente Cass. Sez. 6-1 n. 9206/2020). La responsabilità ha natura extracontrattuale, costituendo un'applicazione dell'ipotesi disciplinata dall'art. 2043 c.c. (v. Cass. Sez. 1 n. 8359/2007). In quanto tale, postula fatti illeciti direttamente imputabili a comportamento colposo o doloso degli amministratori medesimi, come si evince, fra l'altro, dall'utilizzazione dell'avverbio “direttamente”, la quale esclude che detto inadempimento e anche la pessima amministrazione del patrimonio sociale siano sufficienti a dare ingresso all'azione di responsabilità (v. Cass. Sez. 1 n. 21130/2008, Cass. Sez. 1 n. 15220/2010, Cass. Sez. 6-1 n. 15222/2019). L'onere della prova a tal riguardo spetta a chi assuma di aver subito il danno “direttamente” conseguente alle condotte illecite degli amministratori. Esso va assolto puntualmente, senza accorgimenti argomentativi di pura logica formale. Il caso
I titolari di certificati obbligazionari emessi da una S.p.A. dichiarata fallita hanno chiesto di essere ammessi al passivo del fallimento dei soci illimitatamente responsabili della società di fatto, a loro volta falliti in estensione della suddetta s.d.f. giusta sentenza del medesimo tribunale. La domanda è stata respinta e i medesimi titolari di certificati obbligazionari hanno proposto ricorso per cassazione, assumendo con uno dei motivi che la decisione fosse viziata da una non corretta applicazione dell'art. 2395 c.c., per aver il tribunale ritenuto il curatore unico legittimato a chiedere il danno, con esclusione invece del singolo creditore. Diversamente, i ricorrenti hanno sostenuto che il danno non fosse stato prospettato come riflesso della incapienza patrimoniale della società, ma come direttamente discendente dalla condotta degli amministratori della s.d.f.; un danno integrato dalla perdita dell'investimento conseguente alla inevitabile insolvenza dell'emittente delle obbligazioni, debitrice dell'obbligazione restitutoria. Le questioni
La responsabilità degli amministratori per il danno direttamente subito dal singolo socio o dal terzo La sentenza in esame offre lo spunto per tornare ad esaminare (i) l'ambito di applicazione dell'articolo 2395 c.c., (ii) i requisiti necessari ai fini della sussistenza della responsabilità dell'amministratore verso il singolo socio o il terzo (danno ingiusto “direttamente” lesivo del patrimonio del socio/terzo, condotta colposa o dolosa dell'amministratore e nesso di causalità) e (iii) l'onere probatorio incombente sull'attore. In proposito, occorre innanzitutto (e in via principale) svolgere un'indagine sul significato che debba essere attribuito all'avverbio “direttamente” utilizzato dal legislatore nell'art. 2395 c.c. e, di conseguenza, sull'individuazione del nesso di causalità necessario per l'insorgere della responsabilità in questione. A riguardo deve sottolinearsi che l'interpretazione da dare all'avverbio “direttamente” debba essere ampia, non potendo questo essere inteso con riferimento alla direzione dell'atto contro un soggetto determinato, bensì ascritto all'ipotesi dell'insorgenza di un danno immediato (ossia di un danno direttamente causato al socio o al terzo come conseguenza immediata del comportamento illecito degli amministratori); derivandone per il singolo socio o terzo danneggiati la possibilità di agire nei confronti degli amministratori anche nel caso in cui i danneggiati non abbiano concluso alcun contratto con gli amministratori stessi, in applicazione, dunque, dei principi che sanzionano la responsabilità extracontrattuale ai sensi dell'art. 2043 c.c. (C. Masucci, Sulla responsabilità degli amministratori ex art. 2395 c.c., in Giur. comm., 1984, I, 589; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Trattato delle società a cura di Colombo - Portale, Torino, 1991, 450; F. Bonelli, Gli amministratori di s.p.a. dopo la riforma delle società, Milano, 2004, 223; Cass. 2 giugno 1989, n. 2685, in Giur. It., 1989, I, 1, 1686; Cass.5 agosto 2008, n. 21130, in Giur. It., 2009, 4, 875; Cass. 23 giugno 2010, n. 15220, in Società, 2011, 3, 253; Cass. 16 febbraio 2016, n. 2986, in Società, 2016, 4, 502). Né può ritenersi condivisibile l'interpretazione per la quale le prescrizioni dell'art. 2395 c.c. si applichino nelle ipotesi in cui il comportamento degli amministratori sia intenzionalmente diretto a pregiudicare il singolo socio o il terzo (si veda in tal senso App. Bologna, 27 maggio 1995, in Dir. fall., 1996, II, 307), giacché se l'elemento soggettivo della condotta degli amministratori dovesse ricavarsi dall'utilizzo dell'avverbio “direttamente” non troverebbe alcuna giustificazione sistematica la qualificazione degli atti degli amministratori come dolosi o colposi prevista nella medesima norma di legge. Dunque, ai fini dell'integrazione della responsabilità ai sensi dell'art. 2395 c.c., si ritiene necessario che debba sussistere un danno che non sia il semplice riflesso del pregiudizio subito dal patrimonio sociale, ma che invece costituisca lesione immediatamente incidente nella sfera giuridica del soggetto che esercita l'azione (si veda Cass. 3 aprile 2007, n. 8359); e che debba anche individuarsi un comportamento che si trovi in relazione di causalità immediata con il danno e che sia ascrivibile al dolo o alla colpa dell'amministratore agente. Infatti, è pacificamente affermato dalla Giurisprudenza che “il diritto alla realizzazione dell'oggetto sociale ed alla conservazione del patrimonio sociale spetta alla società, non al socio, il quale ha, in materia, un mero interesse, la cui eventuale lesione, anche se determinata dalla “pessima amministrazione della società” (Cass. n. 2551 del 1998; n. 9385 del 1993) e dalla violazione dei doveri di amministratore verso la società (Cass. n. 9385 del 1993) neppure può concretare quel danno diretto necessario perché possa esperirsi l'azione individuale di responsabilità ex art 2395 c.c. (Cass. n. 6364 del 1998; Cass. n. 9385 del 1993; Cass. n. 327 del 1974)” (si veda Cass. 23 giugno 2010, n. 15220, cit.). Pertanto, se la società è inadempiente per non aver rispettato gli obblighi derivanti da un rapporto contrattuale con un terzo (o un singolo socio), dei danni rispondono la società e eventualmente gli amministratori, ma questi ultimi soltanto qualora abbiano usato specifici comportamenti, dolosi o colposi, utili a cagionare ai terzi un danno diretto. Così, la semplice redazione di un bilancio falso di per sé non comporta alcuna responsabilità degli amministratori ai sensi dell'art. 2395 c.c., risultando necessario al fine dell'integrazione di tale responsabilità che la falsità dei dati riportati nel bilancio sia stata specifica e idonea a trarre in inganno il terzo o il singolo socio (sul quale grava l'onere di provare il nesso causale tra il dato falso e la propria determinazione di concludere il contratto da cui sia derivato un danno, ovvero, in altre parole, l'onere di provare che l'atto da cui scaturisce il pregiudizio sia riferibile all'amministratore), inducendolo a contrarre con la società o a concludere contratti relativi alla società e al suo patrimonio (si veda Cass. 2 giugno 1989, n. 2685, cit.; Cass. 23 giugno 2010, n. 15220, cit.; Cass. 20 maggio 2020, n. 9206). Pertanto, concretizzano un valido nesso eziologico tutti quei comportamenti (ad esempio, specifiche dichiarazioni dell'amministratore circa la solidità finanziaria della società) che siano stati specificamente idonei a trarre in inganno la fiducia del terzo o del singolo socio e devono essere da questi individuati in giudizio precisi soggetti coinvolti, tempi, oggetto e modalità di tali comportamenti (si veda Cass. 2 giugno 1989, n. 2685, cit.; Trib. Milano 20 marzo 2012, in Società, 2012, 6, p. 712; Cass. 8 settembre 2015, n. 17794 in Massima redazionale, 2015). Quanto, poi, all'accertamento del nesso causale, deve sottolinearsi l'applicazione del principio del “più probabile che non”, secondo cui, se appare più probabile, che improbabile, che l'evento dannoso sia derivato eziologicamente dalla condotta attiva od omissiva di un soggetto, la responsabilità di quest'ultimo sarà fondata ed egli sarà chiamato a risarcire il danno (si veda Cass., 5 agosto 2008, n. 21130, in Giur. it., 2009, 4, 875; Cass. 18 marzo 2015, n. 5450, in Società, 2015, 6, 767; Cass. 8 settembre2015, n. 17794, cit.). In base a tale principio, infatti, “l'esistenza del nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno può essere affermata dal giudice civile anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire una assoluta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio (Cass. 26 luglio 2012, n. 13214; Cass. 9 giugno 2011, n. 12686): infatti, la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato impone, nell'analisi della causalità materiale, l'adozione del criterio della probabilità relativa (anche detto criterio del "più probabile che non"), che si delinea in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo, nella loro irripetibile unicità, con la conseguenza che la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica deve essere attentamente valutata e valorizzata in ragione della specificità del caso concreto, senza potersi fare meccanico e semplicistico ricorso alla regola del "50% plus unum"” (Cass. 21 luglio 2011, n. 15991).” (Cass. 22 ottobre 2013, n. 23933, in Foro it. 2013, 12, I, 3419).
La rilevanza causale della condotta del singolo socio o del terzo Benché il tema non sia stato affrontato espressamente nella sentenza in commento, è comunque opportuno sottolineare che anche con riguardo all'esistenza e alla quantificazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 2395 c.c., si debba tenere conto della condotta del soggetto che agisce in via risarcitoria. Più precisamente, deve sottolinearsi che il Giudice possa fare applicazione dei principi sanciti negli artt. 1337 (“Trattative e responsabilità precontrattuale”) e 1338 (Conoscenza delle cause d'invalidità”) c.c. così come delle prescrizioni dell'art. 1227 c.c. (quest'ultimo anche richiamato dall'art. 2056 c.c.). Conseguentemente, ad esempio, in relazione all'acquisto di partecipazioni azionarie o di titoli obbligazionari, deve ritenersi che la mancata verifica da parte dell'acquirente (terzo o singolo socio) della reale ed effettiva situazione patrimoniale della società target o emittente costituisca una violazione del dovere di diligenza minima, tale da incidere (elidendolo) sul necessario nesso eziologico tra la condotta degli amministratori e il pregiudizio patito dall'acquirente stesso; derivandone, per conseguenza, in tali ipotesi, la preclusione all'accesso alla tutela risarcitoria. Ciò in ossequio al principio generale (sotteso, appunto, agli artt. 1337 e 1338 c.c.) secondo il quale il danno deve essere sopportato dal danneggiato quando il suo comportamento si ponga quale causa assorbente dell'evento dannoso, non potendosi imputare causalmente al comportamento del danneggiante il danno che il danneggiato avrebbe evitato usando la diligenza minima all'uopo necessaria (si veda M. Bianca, Diritto Civile – il contratto, vol. 3, Milano, 2000, 172). E proprio a questo criterio si è ispirata la giurisprudenza quando ha stabilito che “le norme degli art. 1337 e 1338 c. c. mirano a tutelare nella fase precontrattuale il contraente in buona fede ingannato o fuorviato da una situazione apparente, non conforme a quella vera, […], ma se vi è colpa da parte sua, se cioè egli avrebbe potuto, con l'ordinaria diligenza, venire a conoscenza della reale situazione […], non è più possibile applicare le norme di cui sopra” (Cass., 14 marzo 1985, n. 1987, in Mass. Giur. It., 1985; ugualmente Cass. 26 maggio 2004, n. 10133, in Mass. Giur. It., 2004; Cass. 4 marzo 2002, n. 3103. Si veda, inoltre, A. M. Musy, v. Responsabilità precontrattuale (culpa in contraendo), in Digesto online, 1998). Naturalmente, in ipotesi di violazione del suddetto dovere di diligenza minima, spetta agli amministratori convenuti dare prova della mancanza di diligenza da parte del singolo socio o del terzo, laddove la stessa non emerga dagli atti e non possa, dunque, essere rilevata d'ufficio dal Giudice. Osservazioni
La sentenza in esame conferma i principi dettati da giurisprudenza e dottrina in tema di responsabilità ai sensi dell'art. 2395 c.c., indicando l'assoluta irrilevanza ai fini dell'applicazione di tale norma della “sola” cattiva amministrazione del patrimonio sociale, e riconosce un'esenzione da responsabilità per gli amministratori che pur abbiano compiuto atti di mala gestio (i.e., illecita e falsa rappresentazione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società), quando il singolo socio o il terzo che agiscano in via risarcitoria non provino che i danni agli stessi arrecati siano stati causati come conseguenza immediata e diretta del comportamento illecito degli amministratori.
Conclusioni
Anche in correlazione a quanto appena osservato, occorre sottolineare che l'onere della prova spettante a chi assuma di aver ricevuto un danno quale conseguenza immediata del comportamento illecito degli amministratori di una società (anche di fatto) debba essere assolto in maniera estremamente puntuale: non potrà, quindi, farsi ricorso ad argomentazioni di tipo formale o generico (semplicemente richiamando, ad esempio, la redazione di bilanci falsi), bensì dovranno essere individuate e provate le concrete e specifiche condotte dannose poste in essere dagli amministratori nei confronti del singolo socio o del terzo e, dunque, le circostanze di luogo e di tempo e le modalità con le quali sia stata tratta in inganno la fiducia del singolo socio o del terzo. |