Accordo di investimento, piano di sviluppo e remissione del debito
08 Maggio 2023
Massima “Il programma di investimento e di sviluppo (c.d. business plan) posto alla base del comune programma di investimento rappresenta, “per quanto caratterizzato da un certo margine di genericità”, la fonte di un vero e proprio obbligo giuridico di porre in essere le attività necessarie alla sua compiuta realizzazione”. “Il patto di riacquisto (c.d. opzione put) a prezzo minimo predeterminato (che, dunque, prescinde dall'effettivo valore della partecipazione al momento del riacquisto) intervenuto solo tra soci, senza il coinvolgimento della società, non viola il divieto di patto leonino né il divieto di patto commissorio, realizzando – con riferimento a quest'ultimo profilo - un effetto esattamente inverso a quello vietato”. “La remissione del debito ai sensi dell'art. 1301 c.c. a favore di un solo coobbligato non estende i propri effetti agli altri coobbligati quando il creditore abbia chiaramente espresso la volontà di limitare la remissione ad un solo coobbligato”. Il caso La società Alfa stipula con i coniugi Tizio e Caia, proprietari della società Beta (rispettivamente con una partecipazione del 99% e dell’1%), un accordo di investimento, che prevedeva, a fronte del riconoscimento di una partecipazione al capitale di Beta, il versamento da parte di Alfa e a favore di Beta di significative risorse finanziarie, con le quali Beta avrebbe dovuto realizzare (con il decisivo contributo, in particolare, di Caio, che avrebbe mantenuto la responsabilità di gestire la società) un ambizioso programma di investimento e sviluppo (c.d. business plan) specificamente individuato e allegato alla documentazione contrattuale sottoscritta tra le parti. A presidio dell’investimento, le parti pattuiscono un obbligo di riacquisto (c.d. opzione put) a carico dei vecchi proprietari di Beta, esercitabile da parte di Alfa al ricorrere di determinate condizioni, pure contrattualmente stabilite. Constatata la mancata realizzazione del programma di investimento e sviluppo (c.d. business plan), Alfa conviene in giudizio Tizio (che, nel frattempo, era divenuto proprietario dell’intero capitale sociale di Beta), cui contrattualmente era demandata la responsabilità dell’attuazione del business plan, deducendo l’inadempimento da parte di quest’ultimo degli obblighi contemplati negli accordi stipulati tra le parti (i c.d. patti parasociali), e chiedendo la risoluzione per inadempimento dei patti parasociali e il risarcimento del danno patito. Il Tribunale di Cagliari accoglie la domanda, dichiarando la risoluzione dei patti parasociali e condannando Tizio a risarcire il danno subito da Alfa. Avverso il provvedimento Tizio propone appello. Le questioni Il provvedimento, assai articolato, pone sotto un profilo civilistico (come si vedrà, ci sono anche rilevanti questioni più specificamente attinenti al diritto societario, tra il profilo di potenziale nullità del patto di riacquisto per violazione del divieto del c.d. patto leonino, sulle quali tuttavia non ci si soffermerà), almeno tre distinte e rilevanti questioni:
Le soluzioni giuridiche Il provvedimento interviene all'esito di un procedimento nel corso del quale la difesa di Tizio ha sollevato numerose eccezioni di invalidità, tutte respinte prima dal Tribunale e poi dalla Corte d'Appello; circostanza che, in una materia in cui i precedenti giurisprudenziali non sono numerosissimi, rende il provvedimento assai interessante tanto sotto il profilo dell'inquadramento teorico, tanto sotto il profilo applicativo. Anzitutto, la Corte conferma che il c.d. business plan, cioè il programma di investimento e di sviluppo posto dalle parti alla base del comune programma di investimento (come, peraltro, è prassi fare in operazioni di investimento che vedono coinvolti investitori finanziari, come ad esempio, i fondi di investimento che comprano partecipazioni societarie per rivenderle dopo qualche anno, auspicabilmente con profitto), costituisce la fonte di un vero e proprio obbligo giuridico che impone alle parti, se non di provvedere alla realizzazione dello stesso, almeno di fare quanto in loro potere al fine di realizzarlo. Sotto il profilo sistematico (e, di riflesso, sotto il profilo applicativo), la posizione della Corte pone un punto fermo, e in qualche misura semplifica, un tema su cui la dottrina da tempo si confronta. Esplicitare che la realizzazione del business plan non è una mera aspettativa ma è uno dei fondamenti dell'accordo delle parti, e quindi l'oggetto di un vero e proprio obbligo giuridico (sia pure – così parrebbe leggendo il provvedimento - in termini di obbligazione di mezzi e non di risultato) consente, in qualche misura, di superare il tema della sua qualificazione giuridica. Laddove in passato ci si sarebbe chiesti se la realizzazione del business plan costituisca una mera aspettativa - un motivo, per usare la tassonomia codicistica, del tutto ininfluente -, una presupposizione o la causa in concreto del contratto, la Corte – se così può dirsi – “passa a un livello successivo”: poiché le parti ne hanno evidenziato, nel regolamento contrattuale, la sua centralità, tanto da farne uno dei fondamenti dell'accordo, se non “il” fondamento, la esecuzione dello stesso diventa un vero e proprio obbligo giuridico. Un tema che, tuttavia, non viene sviluppato è se l'obbligo di porre in essere e realizzare i risultati previsionali del business plan costituisca un vero e proprio obbligo di risultato oppure un mero obbligo di mezzi. La Corte cagliaritana afferma, per la verità, che Tizio non ha dato prova di avere fatto alcunché (lasciando intendere che, se avesse almeno provato a realizzare gli obiettivi di piano, avrebbe adempiuto il suo obbligo giuridico) ma è lecito porsi la questione di quali strumenti l'ordinamento metta a disposizione di chi si duole di un piano di investimento non realizzato o irrealizzabile ab origine, anche alla luce della pletora di contratti di investimento che, nella realtà, di tutti i giorni, vengono conclusi sulla base di piani di investimento e di sviluppo letteralmente intrisi di un solido (quanto, spesso, del tutto ingiustificato) ottimismo, che poi non trovano realizzazione. Sotto questo profilo, si deve ritenere che soccorrano i principi generali di buona fede, correttezza e professionalità non solo nella fase esecutiva, ma anche (e soprattutto, verrebbe da dire) nella sua fase genetica, cioè nella costruzione del piano, delle sue assunzioni, delle sue previsioni e delle modalità con cui il piano “gestisce” i possibili scostamenti che potrebbero verificarsi in corso d'opera. In altri termini, l'assenza di qualsivoglia attività esecutiva ha reso verosimilmente ultronea ogni ulteriore indagine da parte della Corte. Tuttavia, il principio di diritto affermato consente di trarre alcuni notevolissimi spunti operativi, come si dirà oltre. Un secondo tema affrontato dalla Corte cagliaritana riguarda l'eccezione di nullità, per violazione del divieto di patto commissorio, del patto di riacquisto (c.d. opzione put) a prezzo minimo predeterminato (che, dunque, prescinde dall'effettivo valore della partecipazione al momento del riacquisto), intervenuto tra soci. In realtà, l'eccezione svolta da Tizio è più articolata, e parte dalla qualificazione dell'operazione economica sottostante. Secondo la ricostruzione di Tizio, l'obbligo di riacquisto a prezzo predeterminato, basato sul prezzo di acquisto maggiorato di interessi, “maschera”, per così dire, un finanziamento (tesi, questa, che in passato è stata già sostenuta), e il patto di riacquisto è in realtà lo strumento per precostituire a favore di Alfa una garanzia per il rimborso del capitale. Sennonché, come la Corte puntualmente osserva, il meccanismo per così dire “sanzionatorio” (cioè l'obbligo di riacquisto a prezzo predeterminato) ha una finalità esattamente opposta, e cioè quella di scongiurare l'effetto vietato dalla norma (cioè il passaggio a titolo definitivo della partecipazione a favore di Alfa). Argomento decisivo per escludere la violazione del divieto in esame. Ultimo tema di interesse, ai fini di quanto qui interessa, riguarda l'operatività della remissione del debito in caso di più coobbligati ai sensi dell'art. 1301 c.c. La tesi di Tizio è che, avendo Alfa liberato Caia (coniuge di Tizio e titolare di una partecipazione pari all'1% del capitale di Beta) dalle sue obbligazioni, dell'avvenuta liberazione dovesse beneficiare anche Tizio. La Corte, invece, perviene a conclusioni opposte, valorizzando due elementi: anzitutto, la circostanza che le parti coinvolte avessero posto in essere “una sequenza di atti tra loro coordinati e condizionati” finalizzati esclusivamente alla liberazione di Caia (che, nel contesto dei predetti atti, aveva ceduto la propria partecipazione a Tizio, che era così diventato socio unico di Beta); in secondo luogo, la circostanza che Alfa aveva manifestato in modo inequivoco la volontà di non liberare Tizio, specificando in più occasioni di riservarsi ogni iniziativa a tutela dei propri interessi, e addirittura di avere già dato mandato ai propri legali per l'avvio delle iniziative più opportune: circostanze incompatibili, secondo la Corte, con l'effetto liberatorio che Tizio, nella sua prospettazione, pretenderebbe di far discendere dall'operazione in questione. |