Leasing indicizzato al LIBOR e al tasso di cambio: le Sezioni Unite si pronunciano sulla meritevolezza di tutela

12 Maggio 2023

La Corte di Cassazione tratta il tema della qualificazione giuridica del contratto di leasing con indicizzazione al LIBOR e ad un indice monetario, escludendone la natura di strumento derivato implicito e ribadendone la meritevolezza di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c.

Massima

Il giudizio di “immeritevolezza” di cui all'art. 1322 c. 2 c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà.

La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l'importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ai sensi dell'art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del D.Lgs.  58/98.

La questione

Il provvedimento esamina, con una compiuta e minuziosa ricostruzione di entrambi gli aspetti, quali siano, sotto un profilo “generale”, i parametri di immeritevolezza di cui all'art. 1322 c.c., e, più nello specifico, il profilo di meritevolezza ai sensi dell'art. 1322 c.c. e la legittimità di una clausola di indicizzazione ad un doppio parametro, finanziario (cioè il LIBOR) e monetario (cioè il cambio euro/franco svizzero) contenuta in un contratto di leasing.

Le soluzioni giuridiche

Il provvedimento è ricchissimo di spunti, e forse, per comprendere appieno l'approfondito e dottissimo iter logico-argomentativo della Suprema Corte – in realtà assai lineare anche se piuttosto articolato – è opportuno iniziare dalle conclusioni per risalire, da qui, alle premesse.

1) Meritevolezza (art. 1322 c.c.)

Iniziamo dall'esame della questione della meritevolezza, con riferimento al quale la Suprema Corte perviene alle seguenti conclusioni:

  • la meritevolezza è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico (o causa concreta), e, pertanto, il risultato del contratto dovrà dirsi immeritevole solo quando sia contrario alla coscienza civile, all'economia, al buon costume od all'ordine pubblico;
  • un contratto, dunque, non può dirsi “immeritevole” solo perché è poco conveniente per una delle parti: l'ordinamento, infatti, garantisce il contraente il cui consenso sia stato stornato o prevaricato, non quello che, libero ed informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive dei propri interessi economici;
  • affinché un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell'art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i princìpi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati. La Suprema Corte ricorda, al riguardo, che sono stati perciò ritenuti immeritevoli, ai sensi dell'art. 1322 c. 2 c.c., contratti o patti contrattuali che, pur formalmente rispettosi della legge, avevano per scopo o per effetto di: i) attribuire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l'altra; ii) porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all'altra; o iii) costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti.

Partendo da queste conclusioni, la Corte esamina e demolisce uno per uno, con tagliente (e quasi spietata, si direbbe) lucidità, gli argomenti utilizzati dalla Corte d'appello di Trieste per giungere, nella sentenza di appello, al giudizio di immeritevolezza del contratto in esame.

Esaminiamoli brevemente, uno per uno:

- "astrusità": una clausola contrattuale “astrusa” o inintelligibile non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex 1322 c.c. Dinanzi a clausole contrattuali oscure il giudice deve ricorrere agli strumenti legali di ermeneutica, e non ad un giudizio di immeritevolezza. La clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (art. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.);

- "macchinosità": quanto, poi, all'affermazione secondo cui una clausola “macchinosa” sarebbe di per sé immeritevole, una clausola contrattuale non può dirsi mai “macchinosa” in senso assoluto, ma tutt'al più in senso relativo (come è il caso di una clausola contenuta in un testo contrattuale predisposto unilateralmente e sottoposto a persona priva delle necessarie competenze per comprenderlo). Tuttavia, in una simile ipotesi il contratto contenente tale clausola non è “immeritevole”, ma, piuttosto, annullabile -naturalmente, al ricorrere di tutte le altre condizioni di legge- poiché il consenso del contraente è stato dato per errore o carpito con dolo, oppure risolvibile, oltre che generativo di un obbligo di risarcimento del danno a carico del proponente, perché quest'ultimo non ha fornito alla controparte le necessarie informazioni precontrattuali imposte dalla legge e/o dal dovere di buona fede (senza dire che, nel caso di specie, la pretesa “macchinosità” consisteva in una banale moltiplicazione d'un rapporto per una differenza; una operazione, come osservato dalla Suprema Corte, puramente aritmetica, e niente affatto “macchinosa”);

- "aleatorietà": quanto alla presunta immeritevolezza della clausola per essere caratterizzata da aleatorietà, si tratta di affermazione erronea in punto di diritto. L'alea economica (insita in ogni contratto) è cosa ben diversa rispetto all'alea giuridica, che di taluni contratti forma invece oggetto e ne è elemento essenziale. Esistono infatti contratti aleatori (ad esempio, la rendita vitalizia); dal che se deduce che, se la legge ne consente la stipula, l'aleatorietà non può ritenersi di per sé una caratteristica tale da rendere “immeritevole” di giuridica esistenza il contratto. Né, ricorda la Suprema Corte, è inibito alle parti stipulare contratti aleatori atipici (ad esempio, il c.d. vitalizio atipico) e non è neppure vietato inserire elementi di aleatorietà in un contratto commutativo. Le parti d'un contratto, infatti, possono -nell'esercizio del loro potere di autonomia negoziale- prevedere la possibilità di sopravvenienze che incidono o possono incidere sull'equilibrio delle prestazioni, ed assumerne, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in tal modo lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, con l'effetto di escludere, nel caso di verificazione di tali sopravvenienze, l'applicabilità dei meccanismi riequilibratorii previsti nell'ordinaria disciplina del contratto. Peraltro, l'assunzione di un siffatto rischio può risultare anche per implicito dal regolamento convenzionale che le parti hanno dato al rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro reciproche obbligazioni;

- "squilibrio": quanto alla pretesa “immeritevolezza” di un contratto squilibrato, l'iter argomentativo della Cassazione è più articolato. La Suprema Corte ricorda, al riguardo, che Corte d'appello di Trieste ha mostrato di ritenere che il concetto di “equilibrio delle prestazioni” di un contratto sinallagmatico consista in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni, e che ogni minimo disallineamento tra questa perfetta parità possa essere sindacato dal giudice, amputando parti del contratto per ricondurlo all'equità: ma si tratta du affermazioni che, secondo la Suprema Corte, sono erronee da più punti di vista:

  • anzitutto, perché il diritto dei contratti non impone l'assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali, e la libertà negoziale è principio cardine del nostro ordinamento e del diritto dei contratti. Il nostro ordinamento garantisce in egual misura tanto la protezione contro gli abusi di posizioni dominanti, quanto il diritto di iniziativa economica. Ne consegue che, se il soggetto abilitato all'esercizio del credito ha il dovere di rispettare le regole del gioco e comportarsi in buona fede, allo stesso tempo ha anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali. Non è, dunque, lo iato tra prestazione e controprestazione che può rendere un contratto “immeritevole” di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c., se quella differenza sia stata in piena libertà ed autonomia compresa ed accettata;
  • in secondo luogo, perché lo squilibrio delle prestazioni non può farsi coincidere la convenienza del contratto. Chi ha fatto un cattivo affare non può pretendere di sciogliersi dal contratto invocando “lo squilibrio delle prestazioni”. L'intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale;
  • la terza ragione è che lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L'esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni circa la “immeritevolezza” d'un contratto che preveda “prestazioni squilibrate”;
  • la quarta ragione è che, anche ad ammettere che il calcolo del conguaglio degli interessi, per come previsto dal contratto, fosse più vantaggioso per il concedente rispetto all'utilizzatore, questa circostanza non basta di per sé a rendere “immeritevole” ai sensi dell'art. 1322 c.c. Si potrà discutere se questa clausola sia valida ai sensi dell'art. 1341 c.c.; oppure se sia frutto dell'approfittamento d'uno stato di bisogno; od ancora se non sia stata adeguatamente illustrata in sede precontrattuale: ma nel primo caso soccorrerà il rimedio della nullità; nel secondo quello della rescissione; nel terzo quello dell'annullamento del contratto per errore o del risarcimento del danno.

In conclusione, il giudizio di immeritevolezza di cui è menzione nell'art. 1322 c.c.non può mai trasformarsi, secondo la Cassazione, in una “magica porta di Ishtar” attraverso la quale veicolare un inammissibile intervento del giudice sulla convenienza dell'affare.

Peraltro, la Suprema Corte demolisce anche l'ulteriore profilo di preteso squilibrio derivante dalla circostanza che la clausola di “rischio cambio” in esame prevede due differenti modalità di calcolo del conguaglio degli interessi, a seconda che il franco svizzero si apprezzi o (al contrario) si deprezzi rispetto all'euro, sulla base della considerazione che il giudizio di “immeritevolezza” d'un contratto, ai sensi dell'art. 1322 c. 2 c.c., non può essere formulato in astratto ed ex ante, limitandosi a considerare il solo contenuto oggettivo dei patti contrattuali, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando lo scopo perseguito dalle parti (e concludendo che, anche sotto questo profilo, nel caso in questione non sussistono ragioni di immeritevolezza).

In conclusione, la Corte d'appello di Trieste, secondo la Suprema Corte, ha formulato un giudizio di immeritevolezza del contratto, dopo avere accertato circostanze irrilevanti ai fini del suddetto giudizio (aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni), e ha, pertanto, falsamente applicato l'art. 1322 c.c.

2) Liceità della clausola di indicizzazione

Ugualmente articolato è l'iter argomentativo relativo alla liceità della clausola di indicizzazione. E, anche in questo caso, per comprendere appieno l'iter logico argomentativo della Suprema Corte – suddiviso -se così può dirsi- in una pars destruens, e in una parte ricostruttiva - è opportuno iniziare dalle conclusioni per risalire, da qui, alle premesse.

Secondo la Suprema Corte, una clausola inserita in un contratto di leasing, la quale faccia dipendere gli interessi dovuti dall'utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario, in un caso come quello di specie, non è uno strumento finanziario derivato, e tanto meno un “derivato implicito”, e ciò per le seguenti ragioni:

- in primo luogo, per una ragione letterale: gli “strumenti finanziari derivati” sono accordi negoziali definiti dall'art. 1 TUF, e la clausola oggetto del giudizio non rientra in tale previsione:

  • né se si considera il testo vigente all'epoca della conclusione del contratto (in particolare, l'art. 1 c. 3 TUF, nel testo modificato dal D.Lgs. 6/2003, ed anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. 303/2006);
  • né se si considera il testo oggi vigente (e cioè quelli menzionati all'art. 1 c. 2 ter lett. a TUF e all'Allegato I al TUF, Sezione “C”, punti 4-10, nonché quelli individuati dal Ministro dell'economia con proprio decreto ai sensi dell'art. 1 c. 2 bis TUF).

Nessuna delle previsioni contenute nelle predette norme è tale da includere la clausola di “rischio cambio” concordata dalle parti nel contratto in esame, poiché attraverso essa le parti non hanno scambiato nulla né hanno inteso trarre frutto da uno scambio di valori comunque determinati. Il contratto ha, infatti, ad oggetto “la locazione finanziaria dell'immobile ivi catastalmente indicato” e, per effetto del contratto, Beta ha assunto l'obbligo di acquistare l'immobile, e Alfa quello di goderne e restituire le rate. In altri termini, nessun “reciproco scambio di flussi di denaro” è stato previsto tra le parti, né era interesse delle parti concludere quel contratto per lucrare sulle previste fluttuazioni valutarie, e tanto meno per coprire un rischio di credito;

- in secondo luogo per ragioni sistematiche: la clausola di “rischio cambio” non può qualificarsi “strumento finanziario derivato” neanche facendo ricorso all'analogia legis , per due ragioni: a) perché la sua causa - per quanto dedotto dalle parti - nulla ha in comune con quella degli “strumenti finanziari derivati” elencati dalla legge; e b) perché è privo di alcuni elementi essenziali che accomunano la maggior parte degli strumenti finanziari derivati tipici. Infatti:

  • quanto al primo aspetto, la Suprema Corte ricorda che l'art. 1 TUF accomuna nella definizione di “strumenti finanziari derivati” ipotesi molto diverse tra loro, raggruppabili in quattro fenotipi principali: la compravendita, la copertura di rischi, la concessione dietro corrispettivo di un diritto di opzione e lo scambio di pagamenti il cui importo è determinato rinviando a variabili differenti. La clausola che àncora il saggio degli interessi dovuti dal debitore di un contratto di leasing ad un indice monetario non rientra in alcuna di queste categorie: essa non costituisce una compravendita né un'opzione, e tanto meno ha lo scopo di coprire un certo rischio o “scommettere” sull'andamento dei cambi, ma si limita ad “agganciare” il debito dell'utilizzatore ad un valore monetario, e rientrano nella categoria degli “strumenti finanziari collegati alla valuta” soltanto quelli per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull'andamento del mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore d'una prestazione rinviando ad un indice monetario, comunque determinato;
  • quanto al secondo aspetto, gli elementi unificanti di quella “indistinta nebulosa” – per usare le parole della Suprema Corte - che va sotto il nome di “strumenti finanziari derivati” sono tre, e, in particolare: 1) oggetto del negozio deve essere la c.d. differenzialità, e cioè l'intento di trarre vantaggio dalla differenza di due valori variabili: ad essa le parti mirano; su essa fanno leva per il perseguimento dei rispettivi interessi; è essa che costituisce il cuore dell'operazione economica. Nel caso in esame, invece, oggetto del negozio è l'acquisto di un immobile e non la speculazione su un titolo; 2) uno strumento finanziario derivato presuppone l'esistenza di un “capitale nozionale”, cioè la somma di denaro astrattamente assunta quale base di calcolo dei reciproci flussi finanziari tra le parti: nel caso in esame invece il capitale produttivo dei flussi finanziari è reale e realmente dovuto, e non già nozionale; 3) non è prevista nel contratto di leasing oggetto del contendere la possibilità - tipica dei derivati - di sciogliersi da esso avvalendosi dell'opzione “mark to market”;

- in terzo luogo, sotto un diverso profilo, sempre di natura sistematica: n on sono condivisibili gli argomenti utilizzati dalla dottrina per sostenere la tesi secondo cui clausole come quella qui in esame costituirebbero “strumenti finanziari derivati impliciti”. Infatti:

  • se per “derivato implicito” si intendesse un patto dotato di una sua autonomia causale, ma aggiunto od accessorio ad altro negozio, la categoria non merita dignità concettuale: ci troveremmo di fronte ad un normale negozio con una sua causa ed un suo oggetto, che, se pur collegato ad altro negozio, resta sottoposto alla disciplina per esso prevista dalla legge;
  • se, invece, per “derivato implicito” si intendesse qualunque clausola contrattuale, la quale abbia per effetto di subordinare le tipiche prestazioni dovute da una delle parti ad eventi futuri ed incerti, ovvero preveda che le contrapposte prestazioni di dare gravanti su ciascuna parte siano conguagliate per produrre un valore “differenziale”, tale nozione sarebbe giuridicamente inutile. Infatti, una pattuizione parte di un più ampio contratto, e priva di autonomia causale rispetto al negozio cui accede, non è pensabile come negozio autonomo, né esplicito, né implicito;
  • è insostenibile, infine, perché adotta una nozione di sconfinata latitudine, la tesi secondo cui qualsiasi clausola che faccia dipendere l'an e il quantum di una prestazione pecuniaria da un parametro esterno variabile sarebbe una scommessa finanziaria; così come la tesi secondo cui la previsione di un tasso minimo dovuto dal cliente, inserita in un contratto di finanziamento a tasso indicizzato, costituirebbe una “inconsapevole vendita da parte del cliente al finanziatore” di una option floor, e dunque un contratto derivato. Accezioni così late della “differenzialità” finirebbero, conclude la Suprema Corte, per assegnare a quest'ultima espressione un significato talmente ampio, da trasformarla in un concetto “bon à tout faire”.

La Suprema Corte, esaurita la pars destruens, sviluppa  la corretta ricostruzione della fattispecie. E, per farlo, provvede, per così dire, a “scomporre” la fattispecie: la corretta qualificazione giuridica della clausola – afferma la Cassazione - deve muovere del rilievo che il contratto oggetto ha ad oggetto una operazione reale, prevede che il valore del debito complessivo dell'utilizzatore venga determinato in franchi svizzeri e accorda all'utilizzatore la facoltà di pagare in euro.

Ebbene il contratto di leasing ha, ovviamente, sempre una funzione (anche) di finanziamento, ed un finanziamento può legittimamente essere concesso in valuta estera, anche con una forma tecnica per così dire “mista”, cioè quando le rate dovute dall'utilizzatore sono espresse in valuta domestica, ma il valore è, per così dire, “agganciato” al rapporto di cambio con una valuta estera; un finanziamento il cui importo è parametrato ad un rapporto di cambio è un debito di valore e non di valuta.

La clausola in esame è, dunque, una normale “clausola-valore”, attraverso la quale le parti individuano il criterio al quale commisurare la prestazione del debitore.

Pertanto, l'aleatorietà del contratto, lungi dal costituire un indice della presenza d'un “derivato implicito”, non è che un effetto naturale d'una (altrettanto normale) clausola-valore, e la previsione che eventuali conguagli a favore dell'una o dell'altra parte siano regolati a parte, e non incidano sul valore della rata (che resta costante) non è che una modalità esecutiva delle reciproche obbligazioni, insuscettibile di riverberare effetti di sorta sulla qualificazione del contratto.

Tali considerazioni non mutano per il fatto che il contratto prevede una doppia indicizzazione, “agganciando” le variazioni del canone sia alle variazioni del tasso LIBOR, sia alle variazioni del rapporto di cambio franco/euro: infatti, l'indicizzazione del canone al tasso LIBOR costituisce una normale clausola, onnipresente nei finanziamenti a tasso variabile, è pacificamente lecita e non costituisce un derivato, e l'indicizzazione del canone alle fluttuazioni del rapporto di cambio costituisce una clausola-valore (secondo quanto appena esposto), e, come tale, pacificamente lecita e non costituisce un derivato. Non è sostenibile, in definitiva, che dalla combinazione di due clausole, tutte e due lecite e non costituenti uno strumento finanziario derivato, possa sorgere un contratto illecito e che costituisca uno strumento finanziario derivato.

Da ultimo, la Suprema Corte esamina due ulteriori elementi: se la clausola di rischio cambio snaturi la causa del contratto di leasing, e se la previsione d'una clausola di rischio cambio sia contraria a buona fede.

Quanto al primo aspetto, è certamente vero che l'inserimento di elementi spurii in un contratto legalmente o socialmente tipico può determinarne la trasformazione in altro tipo, ma, per stabilire se un contratto, a causa di pattuizioni eterogenee rispetto allo schema tipico, abbia mutato causa e natura, è necessario seguire tre criteri:

  1. la qualificazione del contratto come “atipico” deve dipendere dai suoi effetti giuridici, non da quelli economici;
  2. un contratto non muta natura e causa, solo perché uno dei suoi elementi presenti un'occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico. È necessario che, per usare le parole della Suprema Corte, esso diventi “del tutto estraneo al tipo normativo, perché trae le proprie ragioni di essere dall'adeguamento degli strumenti giuridici alle mutevoli esigenze della vita sociale e dei rapporti economici”;
  3. le prestazioni atipiche poste a carico di una delle parti non mutano la causa tipica del contratto, se in questo permane la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico. L'applicazione di questi princìpi alla clausola di “rischio cambio” in esame impone di concludere che esse non mutano la causa del contratto di leasing: all'evidenza, nel caso in esame lo scopo di Alfa resta quello di acquisire un immobile, e non già investire del denaro per realizzare un lucro finanziario invece che commerciale; e, allo stesso modo, la presenza della clausola non basta per sostenere che fosse volontà di Beta concludere il contratto al solo finedi speculare sul tasso di cambio.

Quanto al secondo aspetto, la Suprema Corte conclude che la sola pattuizione di una clausola di “rischio cambio” come quella in esame non può, ex se, costituire violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario; in ogni caso anche l'eventuale violazione dei suddetti doveri di correttezza nella fase delle trattative, e di buona fede nell'esecuzione del contratto, non potrebbe condurre ad una dichiarazione di “immeritevolezza” del contratto: tali violazioni potrebbero condurre, in tesi, all'annullamento del contratto per vizio del consenso (errore o dolo), oppure all'affermazione di una responsabilità precontrattuale, od ancora al risarcimento del danno.

Osservazioni

Il provvedimento che qui si commenta è decisamente stringente e anche, per quanto possa apparire paradossale, sintetico, “condensando” – se così può dirsi – in poche pagine temi di enorme rilevanza e sui quali moltissimo è stato scritto.

Un esercizio dottissimo, ma soprattutto una utilissima guida di natura metodologica, a beneficio dell’operatore, per affrontare la questione della meritevolezza e della legittimità rispetto alle sempre più numerose ipotesi di “contaminazione” di figure tipiche (o anche di figure inizialmente atipiche – si pensi proprio al leasing - che ormai si sono sedimentate nella cultura giuridica assumendo una sorta di “nuova tipicità”) che l’esperienza economica propone quotidianamente.

A margine dell’enucleazione del principio di diritto, i passaggi logico-giuridici del provvedimento permettono di ricavare qualche fil rouge che è certamente utile in prospettiva ricostruttiva di ulteriori fattispecie:

  • l’ordinamento si pone laicamente rispetto al tema dello squilibrio economico tra prestazioni, quando questo sia il. risultato di una libera contrattazione tra le parti;
  • la presenza di variazioni, anche significative, rispetto a istituti già noti non implica, in assenza di significative e strutturali deviazioni, la “creazione” di un nuovo istituto giuridico;
  • gli effetti di natura economica di un dato contratto sono altra cosa rispetto agli effetti di natura giuridica di quello stesso contratto, e la ricostruzione dei due profili va fatta con rigore e senza preconcetti;
  • di fronte a strutture giuridiche (realmente o anche solo apparentemente) complesse, è fondamentale “scomporre” la struttura e individuarne gli elementi-base che la compongono, nonché le relazioni intercorrenti tra gli stessi. Mettere a nudo gli elementi-base consente di cogliere l’essenza del fenomeno, sia sotto il profilo giuridico sia sotto il profilo economico.

Sappiamo che la realtà del mondo degli affari è assai vivace nel “generare”, in continuazione, nuove strutture contrattuali e nuovi fenomeni economici. Qualificare correttamente tali strutture e fenomeni richiede la capacità di analizzare correttamente, e il provvedimento della Suprema Corte ha, sotto questo profilo, un approccio quasi didascalico.

Allo stesso tempo, le parole della Cassazione costituiscono un richiamo a uno stringente principio di autoresponsabilità e di diligenza nell’agire che dovrebbe caratterizzare l’operato di ciascun attore dell’agone economico. Non è compito del giudice intervenire per correggere squilibri nel sinallagma contrattuale, e questa è una affermazione della Suprema Corte di cui ciascun operatore economico dovrà tener conto.

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