Leasing indicizzato al LIBOR e al tasso di cambio: le Sezioni Unite si pronunciano sulla meritevolezza di tutela
12 Maggio 2023
Massima Il giudizio di “immeritevolezza” di cui all'art. 1322 c. 2 c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà. La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l'importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ai sensi dell'art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del D.Lgs. 58/98. La questione Il provvedimento esamina, con una compiuta e minuziosa ricostruzione di entrambi gli aspetti, quali siano, sotto un profilo “generale”, i parametri di immeritevolezza di cui all'art. 1322 c.c., e, più nello specifico, il profilo di meritevolezza ai sensi dell'art. 1322 c.c. e la legittimità di una clausola di indicizzazione ad un doppio parametro, finanziario (cioè il LIBOR) e monetario (cioè il cambio euro/franco svizzero) contenuta in un contratto di leasing. Le soluzioni giuridiche Il provvedimento è ricchissimo di spunti, e forse, per comprendere appieno l'approfondito e dottissimo iter logico-argomentativo della Suprema Corte – in realtà assai lineare anche se piuttosto articolato – è opportuno iniziare dalle conclusioni per risalire, da qui, alle premesse. 1) Meritevolezza (art. 1322 c.c.) Iniziamo dall'esame della questione della meritevolezza, con riferimento al quale la Suprema Corte perviene alle seguenti conclusioni:
Partendo da queste conclusioni, la Corte esamina e demolisce uno per uno, con tagliente (e quasi spietata, si direbbe) lucidità, gli argomenti utilizzati dalla Corte d'appello di Trieste per giungere, nella sentenza di appello, al giudizio di immeritevolezza del contratto in esame. Esaminiamoli brevemente, uno per uno: - "astrusità": una clausola contrattuale “astrusa” o inintelligibile non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex 1322 c.c. Dinanzi a clausole contrattuali oscure il giudice deve ricorrere agli strumenti legali di ermeneutica, e non ad un giudizio di immeritevolezza. La clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (art. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.); - "macchinosità": quanto, poi, all'affermazione secondo cui una clausola “macchinosa” sarebbe di per sé immeritevole, una clausola contrattuale non può dirsi mai “macchinosa” in senso assoluto, ma tutt'al più in senso relativo (come è il caso di una clausola contenuta in un testo contrattuale predisposto unilateralmente e sottoposto a persona priva delle necessarie competenze per comprenderlo). Tuttavia, in una simile ipotesi il contratto contenente tale clausola non è “immeritevole”, ma, piuttosto, annullabile -naturalmente, al ricorrere di tutte le altre condizioni di legge- poiché il consenso del contraente è stato dato per errore o carpito con dolo, oppure risolvibile, oltre che generativo di un obbligo di risarcimento del danno a carico del proponente, perché quest'ultimo non ha fornito alla controparte le necessarie informazioni precontrattuali imposte dalla legge e/o dal dovere di buona fede (senza dire che, nel caso di specie, la pretesa “macchinosità” consisteva in una banale moltiplicazione d'un rapporto per una differenza; una operazione, come osservato dalla Suprema Corte, puramente aritmetica, e niente affatto “macchinosa”); - "aleatorietà": quanto alla presunta immeritevolezza della clausola per essere caratterizzata da aleatorietà, si tratta di affermazione erronea in punto di diritto. L'alea economica (insita in ogni contratto) è cosa ben diversa rispetto all'alea giuridica, che di taluni contratti forma invece oggetto e ne è elemento essenziale. Esistono infatti contratti aleatori (ad esempio, la rendita vitalizia); dal che se deduce che, se la legge ne consente la stipula, l'aleatorietà non può ritenersi di per sé una caratteristica tale da rendere “immeritevole” di giuridica esistenza il contratto. Né, ricorda la Suprema Corte, è inibito alle parti stipulare contratti aleatori atipici (ad esempio, il c.d. vitalizio atipico) e non è neppure vietato inserire elementi di aleatorietà in un contratto commutativo. Le parti d'un contratto, infatti, possono -nell'esercizio del loro potere di autonomia negoziale- prevedere la possibilità di sopravvenienze che incidono o possono incidere sull'equilibrio delle prestazioni, ed assumerne, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in tal modo lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, con l'effetto di escludere, nel caso di verificazione di tali sopravvenienze, l'applicabilità dei meccanismi riequilibratorii previsti nell'ordinaria disciplina del contratto. Peraltro, l'assunzione di un siffatto rischio può risultare anche per implicito dal regolamento convenzionale che le parti hanno dato al rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro reciproche obbligazioni; - "squilibrio": quanto alla pretesa “immeritevolezza” di un contratto squilibrato, l'iter argomentativo della Cassazione è più articolato. La Suprema Corte ricorda, al riguardo, che Corte d'appello di Trieste ha mostrato di ritenere che il concetto di “equilibrio delle prestazioni” di un contratto sinallagmatico consista in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni, e che ogni minimo disallineamento tra questa perfetta parità possa essere sindacato dal giudice, amputando parti del contratto per ricondurlo all'equità: ma si tratta du affermazioni che, secondo la Suprema Corte, sono erronee da più punti di vista:
In conclusione, il giudizio di immeritevolezza di cui è menzione nell'art. 1322 c.c.non può mai trasformarsi, secondo la Cassazione, in una “magica porta di Ishtar” attraverso la quale veicolare un inammissibile intervento del giudice sulla convenienza dell'affare. Peraltro, la Suprema Corte demolisce anche l'ulteriore profilo di preteso squilibrio derivante dalla circostanza che la clausola di “rischio cambio” in esame prevede due differenti modalità di calcolo del conguaglio degli interessi, a seconda che il franco svizzero si apprezzi o (al contrario) si deprezzi rispetto all'euro, sulla base della considerazione che il giudizio di “immeritevolezza” d'un contratto, ai sensi dell'art. 1322 c. 2 c.c., non può essere formulato in astratto ed ex ante, limitandosi a considerare il solo contenuto oggettivo dei patti contrattuali, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando lo scopo perseguito dalle parti (e concludendo che, anche sotto questo profilo, nel caso in questione non sussistono ragioni di immeritevolezza). In conclusione, la Corte d'appello di Trieste, secondo la Suprema Corte, ha formulato un giudizio di immeritevolezza del contratto, dopo avere accertato circostanze irrilevanti ai fini del suddetto giudizio (aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni), e ha, pertanto, falsamente applicato l'art. 1322 c.c. 2) Liceità della clausola di indicizzazione Ugualmente articolato è l'iter argomentativo relativo alla liceità della clausola di indicizzazione. E, anche in questo caso, per comprendere appieno l'iter logico argomentativo della Suprema Corte – suddiviso -se così può dirsi- in una pars destruens, e in una parte ricostruttiva - è opportuno iniziare dalle conclusioni per risalire, da qui, alle premesse. Secondo la Suprema Corte, una clausola inserita in un contratto di leasing, la quale faccia dipendere gli interessi dovuti dall'utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario, in un caso come quello di specie, non è uno strumento finanziario derivato, e tanto meno un “derivato implicito”, e ciò per le seguenti ragioni: - in primo luogo, per una ragione letterale: gli “strumenti finanziari derivati” sono accordi negoziali definiti dall'art. 1 TUF, e la clausola oggetto del giudizio non rientra in tale previsione:
Nessuna delle previsioni contenute nelle predette norme è tale da includere la clausola di “rischio cambio” concordata dalle parti nel contratto in esame, poiché attraverso essa le parti non hanno scambiato nulla né hanno inteso trarre frutto da uno scambio di valori comunque determinati. Il contratto ha, infatti, ad oggetto “la locazione finanziaria dell'immobile ivi catastalmente indicato” e, per effetto del contratto, Beta ha assunto l'obbligo di acquistare l'immobile, e Alfa quello di goderne e restituire le rate. In altri termini, nessun “reciproco scambio di flussi di denaro” è stato previsto tra le parti, né era interesse delle parti concludere quel contratto per lucrare sulle previste fluttuazioni valutarie, e tanto meno per coprire un rischio di credito; - in secondo luogo per ragioni sistematiche: la clausola di “rischio cambio” non può qualificarsi “strumento finanziario derivato” neanche facendo ricorso all'analogia legis , per due ragioni: a) perché la sua causa - per quanto dedotto dalle parti - nulla ha in comune con quella degli “strumenti finanziari derivati” elencati dalla legge; e b) perché è privo di alcuni elementi essenziali che accomunano la maggior parte degli strumenti finanziari derivati tipici. Infatti:
- in terzo luogo, sotto un diverso profilo, sempre di natura sistematica: n on sono condivisibili gli argomenti utilizzati dalla dottrina per sostenere la tesi secondo cui clausole come quella qui in esame costituirebbero “strumenti finanziari derivati impliciti”. Infatti:
La Suprema Corte, esaurita la pars destruens, sviluppa la corretta ricostruzione della fattispecie. E, per farlo, provvede, per così dire, a “scomporre” la fattispecie: la corretta qualificazione giuridica della clausola – afferma la Cassazione - deve muovere del rilievo che il contratto oggetto ha ad oggetto una operazione reale, prevede che il valore del debito complessivo dell'utilizzatore venga determinato in franchi svizzeri e accorda all'utilizzatore la facoltà di pagare in euro. Ebbene il contratto di leasing ha, ovviamente, sempre una funzione (anche) di finanziamento, ed un finanziamento può legittimamente essere concesso in valuta estera, anche con una forma tecnica per così dire “mista”, cioè quando le rate dovute dall'utilizzatore sono espresse in valuta domestica, ma il valore è, per così dire, “agganciato” al rapporto di cambio con una valuta estera; un finanziamento il cui importo è parametrato ad un rapporto di cambio è un debito di valore e non di valuta. La clausola in esame è, dunque, una normale “clausola-valore”, attraverso la quale le parti individuano il criterio al quale commisurare la prestazione del debitore. Pertanto, l'aleatorietà del contratto, lungi dal costituire un indice della presenza d'un “derivato implicito”, non è che un effetto naturale d'una (altrettanto normale) clausola-valore, e la previsione che eventuali conguagli a favore dell'una o dell'altra parte siano regolati a parte, e non incidano sul valore della rata (che resta costante) non è che una modalità esecutiva delle reciproche obbligazioni, insuscettibile di riverberare effetti di sorta sulla qualificazione del contratto. Tali considerazioni non mutano per il fatto che il contratto prevede una doppia indicizzazione, “agganciando” le variazioni del canone sia alle variazioni del tasso LIBOR, sia alle variazioni del rapporto di cambio franco/euro: infatti, l'indicizzazione del canone al tasso LIBOR costituisce una normale clausola, onnipresente nei finanziamenti a tasso variabile, è pacificamente lecita e non costituisce un derivato, e l'indicizzazione del canone alle fluttuazioni del rapporto di cambio costituisce una clausola-valore (secondo quanto appena esposto), e, come tale, pacificamente lecita e non costituisce un derivato. Non è sostenibile, in definitiva, che dalla combinazione di due clausole, tutte e due lecite e non costituenti uno strumento finanziario derivato, possa sorgere un contratto illecito e che costituisca uno strumento finanziario derivato. Da ultimo, la Suprema Corte esamina due ulteriori elementi: se la clausola di rischio cambio snaturi la causa del contratto di leasing, e se la previsione d'una clausola di rischio cambio sia contraria a buona fede. Quanto al primo aspetto, è certamente vero che l'inserimento di elementi spurii in un contratto legalmente o socialmente tipico può determinarne la trasformazione in altro tipo, ma, per stabilire se un contratto, a causa di pattuizioni eterogenee rispetto allo schema tipico, abbia mutato causa e natura, è necessario seguire tre criteri:
Quanto al secondo aspetto, la Suprema Corte conclude che la sola pattuizione di una clausola di “rischio cambio” come quella in esame non può, ex se, costituire violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario; in ogni caso anche l'eventuale violazione dei suddetti doveri di correttezza nella fase delle trattative, e di buona fede nell'esecuzione del contratto, non potrebbe condurre ad una dichiarazione di “immeritevolezza” del contratto: tali violazioni potrebbero condurre, in tesi, all'annullamento del contratto per vizio del consenso (errore o dolo), oppure all'affermazione di una responsabilità precontrattuale, od ancora al risarcimento del danno. Osservazioni Il provvedimento che qui si commenta è decisamente stringente e anche, per quanto possa apparire paradossale, sintetico, “condensando” – se così può dirsi – in poche pagine temi di enorme rilevanza e sui quali moltissimo è stato scritto. Un esercizio dottissimo, ma soprattutto una utilissima guida di natura metodologica, a beneficio dell’operatore, per affrontare la questione della meritevolezza e della legittimità rispetto alle sempre più numerose ipotesi di “contaminazione” di figure tipiche (o anche di figure inizialmente atipiche – si pensi proprio al leasing - che ormai si sono sedimentate nella cultura giuridica assumendo una sorta di “nuova tipicità”) che l’esperienza economica propone quotidianamente. A margine dell’enucleazione del principio di diritto, i passaggi logico-giuridici del provvedimento permettono di ricavare qualche fil rouge che è certamente utile in prospettiva ricostruttiva di ulteriori fattispecie:
Sappiamo che la realtà del mondo degli affari è assai vivace nel “generare”, in continuazione, nuove strutture contrattuali e nuovi fenomeni economici. Qualificare correttamente tali strutture e fenomeni richiede la capacità di analizzare correttamente, e il provvedimento della Suprema Corte ha, sotto questo profilo, un approccio quasi didascalico. Allo stesso tempo, le parole della Cassazione costituiscono un richiamo a uno stringente principio di autoresponsabilità e di diligenza nell’agire che dovrebbe caratterizzare l’operato di ciascun attore dell’agone economico. Non è compito del giudice intervenire per correggere squilibri nel sinallagma contrattuale, e questa è una affermazione della Suprema Corte di cui ciascun operatore economico dovrà tener conto. |