Ripartizione di responsabilità tra Casa di cura e medico curante e sua diversa graduazione

Antonio Bruno Serpetti
30 Maggio 2023

La graduazione della responsabilità tra Casa di cura e medico curante da essa dipendente, quali soggetti obbligati in solido, è possibile solo dopo che uno dei condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti dell'altro. Adeguatezza delle Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno alla persona.
Massima

“Il soggetto (paziente) danneggiato in conseguenza di un fatto illecito imputabile a più persone legate dal vincolo di solidarietà (nella specie, Casa di cura e medico curante da essa dipendente), può pretendere la totalità della prestazione risarcitoria anche nei confronti di una sola delle persone coobbligate, mentre la diversa gravità delle rispettive colpe di costoro e l'eventuale loro diseguale efficienza causale, può avere rilevanza soltanto ai fini della ripartizione interna del peso del risarcimento fra i corresponsabili. Di conseguenza, una ripartizione di responsabilità diversamente graduata, tra la Casa di cura e il medico curante, è possibile solo dopo che uno dei predetti condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti degli altri, atteso che, solo nel giudizio di regresso, può discutersi della gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze da esse derivanti”.

Il caso

Il caso di specie trae origine dalla richiesta di risarcimento del danno subito da un paziente a seguito di un intervento chirurgico di osteosintesi degenerato in una infezione causata dalle lacune assistenziali del medico curante e della Casa di cura ove era stato eseguito l'intervento. Nel giudizio di primo grado, il medico curante, convenuto insieme alla Casa di cura, proponeva, altresì, domanda di manleva nei confronti della propria Compagnia assicuratrice. All'esito del giudizio, il Tribunale accoglieva la domanda di risarcimento del danno proposta dal paziente, ma rigettava la domanda di manleva in ragione dell'intervenuta prescrizione del diritto dell'assicurato.

Appellata la sentenza dai soccombenti, la Corte d'appello di confermava la correttezza della decisione del giudice di primo grado nella parte in cui aveva individuato specifici profili di responsabilità colposa derivanti dalle lacune assistenziali tanto a carico della Struttura sanitaria che ospitava il paziente (con particolare riguardo all'origine nosocomiale dell'infezione che lo aveva colpito), quanto in relazione alla condotta terapeutica del medico, condividendo i presupposti e le valutazioni esposte nella consulenza tecnica d'ufficio svolta nel corso del giudizio di primo grado; confermava, da ultimo, il riconoscimento dell'intervenuta prescrizione rilevata dal primo giudice in relazione al diritto del medico chirurgo di vedersi garantito dalla propria Compagnia assicuratrice.

La causa giungeva in Cassazione.

La questione

Nella sentenza qui esaminata,la Suprema Corte affronta, nuovamente, il tema della responsabilità solidale tra Casa di cura e medico da essa dipendente, in particolare, chiarendole questioni connesse alla ripartizione ed alla graduazione dell'obbligazione risarcitoria.

La Suprema Corte si pronuncia, altresì, a favore dell'utilizzo delle Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno alla persona.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, nella motivazione della sentenza in esame, chiarisce il proprio orientamento in ordine al motivo del ricorso proposto dal medico curante relativo alla ritenuta violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1228, 1298 e 2055 c.c., nonché art. 116 c.p.c., per avere il giudice d'appello erroneamente omesso di procedere ad una distinzione delle specifiche posizioniascrivibili alla Struttura sanitaria convenuta ed al medico curante, al fine di pervenire all'esclusione della responsabilità di quest'ultimo nella causazione dei danni denunciati dal paziente (in considerazione del carattere assorbente, sul piano causale, della responsabilità della Casa di cura), o, quantomeno, all'accertamento di una sua responsabilità significativamente inferiore a quella imputabile alla Struttura convenuta, atteso che le conseguenze dannose subite dal paziente (l'infezione contratta) avevano prevalentemente origine nosocomiale.

Secondo il ricorrente, dunque, la Corte d'appello avrebbe dovuto ripartire l'obbligazione risarcitoria in misura non paritaria tra i convenuti, una volta superata la presunzione di uguaglianza delle responsabilità debitorie sancita dall'art. 1298 c.c., in materia di obbligazioni solidali.

La Suprema Corte, sul punto, rileva l'inammissibilità della censura relativa alla invocata necessità di procedere ad una ripartizione di responsabilità, diversamente graduata, tra la Casa di cura e il medico curante.

A tale riguardo, infatti, la Corte richiama il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità ai sensi del quale il soggetto danneggiato in conseguenza di un fatto illecito imputabile a più persone legate dal vincolo di solidarietà, può pretendere la totalità della prestazione risarcitoria anche nei confronti di una sola delle persone coobbligate; mentre la diversa gravità delle rispettive colpe e l'eventuale diseguale efficienza causale possono avere rilevanza soltanto ai fini della ripartizione interna del peso del risarcimento fra i corresponsabili. Conseguentemente, afferma la Corte, il giudice del merito adito dal danneggiato può e deve pronunciarsi sulla graduazione delle colpe solo se uno dei predetti condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti degli altri, atteso che, solo nel giudizio di regresso può discutersi della gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze da esse derivanti (in tal senso, anche Cass. Sez. III, 8 novembre 2005, n. 21664; Cass., Sez. III, 10 ottobre 2004, n. 15428). Nel caso di specie, invece, non essendo stata proposta alcuna azione di regresso dalla Casa di cura convenuta, il giudice del merito non aveva alcun dovere, né avrebbe potuto, pronunciarsi sulla graduazione delle colpe invocata dal ricorrente.

La Suprema Corte, nella pronuncia in esame, dichiara altresì inammissibile la censura del ricorrente secondo la quale la Corte territoriale avrebbe erroneamente determinato l'entità del danno biologico sofferto dal paziente, poiché avrebbe fatto riferimento, a tal fine, alle previsioni delle Tabelle del Tribunale di Milano, in contrasto con quanto desumibile dai più accreditati e moderni testi di valutazione del danno biologico permanente.

Sul punto, la Corte obietta che il giudice d'appello, nel procedere alla liquidazione del danno biologico sofferto dal paziente sulla base delle Tabelle del Tribunale di Milano, si sia avvalsa di un parametro di riferimento ai fini della liquidazione equitativa del danno biologico tradizionalmente congruo e sufficientemente adeguato. A sostegno di ciò, richiama il consolidato insegnamento ai sensi del quale le Tabelle per la liquidazione del danno alla persona predisposte dal Tribunale di Milano devono ritenersi munite di un'efficacia para-normativa, in quanto destinate a concretizzare il criterio della liquidazione equitativa di cui all'art. 1226 c.c. (così, Cass., Sez. III, 6 maggio 2020, n. 8532). Ciò posto, la pretesa del ricorrente di vedere applicata, in sostituzione delle Tabelle milanesi, ai fini della liquidazione del danno sofferto dal paziente, una diversa fonte ritenuta maggiormente adeguata, deve essere considerata alla stregua di un tentativo errato di prospettare una rilettura dei fatti di causa, nonché inadeguato rispetto alle valutazioni già correttamente operate dal giudice di merito.

Con un altro motivo di ricorso, il medico curante (ricorrente principale) censurava la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1335, 2697, 2727, 2729 c.c., in relazione all'art. 2952 c.c., comma 3, per avere il giudice d'appello ritenuto prescritto il proprio diritto alla manleva invocato nei confronti della propria Compagnia assicurativa; eccepiva che la Corte d'Appello non aveva tenuto conto che alla richiesta risarcitoria indirizzata nei propri confronti dal danneggiato (costituente il dies a quo per il computo della prescrizione del proprio diritto alla garanzia) - pure inviata alla Casa di cura presso la quale egli esercitava la propria attività lavorativa - non poteva essere applicata la presunzione di ricezione di cui all'art. 1335 c.c., atteso l'evidente conflitto di interessi esistente tra il paziente e la medesima Casa di cura in relazione alla rivendicazione risarcitoria; conflitto di interessi, di per sé tale da giustificare il riconoscimento della inoperatività del richiamato meccanismo presuntivo.

Ebbene, anche questo motivo è ritenuto infondato dalla Suprema Corte, la quale osserva come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la dichiarazione recettizia ex art. 1335 c.c. si presume conosciuta dal destinatario nel momento in cui giunge al relativo indirizzo, da intendersi come luogo che, per collegamento ordinario (dimora o domicilio) o per normale frequentazione per l'esplicazione della propria attività lavorativa, o per preventiva indicazione o pattuizione, risulti in concreto nella sfera di dominio e di controllo del destinatario, apparendo idonea a consentirgli la ricezione dell'atto e la possibilità di conoscenza del relativo contenuto (tra le tante, cfr. Cass. 8 ottobre 2021, n. 27412, secondo cui “come previsto dall'art.1335 c.c., la dichiarazione recettizia si presume conosciuta nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario, da intendersi come luogo che, per collegamento ordinario - dimora o domicilio - o per normale frequentazione per l'esplicazione della propria attività lavorativa, o per una preventiva indicazione o pattuizione, risulti in concreto nella sfera di dominio e controllo del destinatario stesso, apparendo idoneo a consentirgli la ricezione dell'atto e la possibilità di conoscenza del relativo contenuto").

Ferma tale premessa – spiega la Corte – l'invocazione da parte del ricorrente di un supposto conflitto di interessi tra la Casa di cura ed il medico destinatario della richiesta risarcitoria (indicata come circostanza idonea a fornire la prova contraria alla presunzione di conoscenza sancita dall'art. 1335 c.c.), oltre a integrare una circostanza di fatto mai precedentemente dedotta dall'interessato, non risulta neppure riferita a fatti adeguatamente comprovati; difatti, un eventuale conflitto di interessi tra medico a Casa di cura sarebbe, ipoteticamente, insorto nel solo caso in cui, successivamente alla consegna del plico contenente la richiesta risarcitoria del danneggiato, il medico e la Casa di cura, eventualmente convenuti in giudizio, avessero assunto posizioni confliggenti tra loro, in tal modo configurando la potenzialità di un conflitto. E neppure risulta riferita a fatti di per sé rilevabili dagli atti del giudizio (nel senso di fatti di per sé soli sufficienti a far presumere il mancato contatto dell'interessato con la comunicazione allo stesso indirizzata), così da escludere la concreta idoneità della doglianza in esame ad integrare gli estremi di un vizio di legittimità della decisione impugnata, sub specie della violazione dell'art. 1335 c.c.

Osservazioni

Il tema principale che viene in luce nella pronuncia è quello relativo alla c.d. “graduazione della responsabilità” tra Struttura sanitaria e medico esercente.

La Suprema Corte, in particolare, ribadisce il principio secondo cui la solidarietà che lega i coautori di un fatto dannoso fonda il diritto del danneggiato di agire per ottenere la totalità della prestazione anche da parte di uno solo dei coobbligati; il diverso grado delle colpe e la diversità dell'efficienza causale delle condotte imputabili ai responsabili del danno rilevano, invece, esclusivamente ai fini della “ripartizione interna” del debito, e cioè in sede di esercizio dell'azione di regresso.

Si tratta di un principio già ribadito in passato dalla giurisprudenza di legittimità, che la stessa Corte richiama citando i propri precedenti (cfr. Cass. n. 15428/2004, ove, in riferimento al caso di un'azione di risarcimento dei danni derivanti dalla circolazione di veicoli coperti da assicurazione per la responsabilità civile, ex l. n. 990/1969, si affermava che la Compagnia assicuratrice, nei limiti del massimale, risponde dell'intera obbligazione risarcitoria).

Con particolare rifermento al tema della responsabilità medica, la pronuncia in esame non può che evocare i principi enunciati in una delle note “sentenze decalogo” di San Martino del 2019, in particolare la n. 28987/2019, che, intervenendo in merito all'interpretazione dell'art. 9 della legge Gelli-Bianco, aveva chiarito la questione della ripartizione dei rapporti interni tra Struttura sanitaria e medico esercente.

Il Supremo Collegio, in quell'occasione, ha anzitutto chiarito la differenza tra azione di regresso e azione di rivalsa, concetti simili ma giuridicamente diversi: infatti, mentre l'azione di regresso presuppone la nascita di una obbligazione avente il medesimo titolo, nonché la presenza di più coobbligati solidali, uno dei quali adempia per l'intero, l'azione di rivalsa riguarda il riparto della responsabilità da inadempimento imputata al debitore e al suo ausiliario, in via solidale.

La Corte di legittimità ha, inoltre, precisato contenuto e limiti quantitativi della relativa azione in tema di responsabilità medica, ritenendo di ripartire il danno da malpractice tra Struttura e sanitario anche in ipotesi di colpa esclusiva di quest'ultimo, salvo i casi del tutto eccezionali di inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile, devianza da quel programma condiviso di tutela della salute che accomuna tali soggetti.

In punto di quantificazione del giudizio di rivalsa, la Corte si è, infine, espressa per l'applicabilità dei criteri generali di cui agli artt. 1298 (“nei rapporti interni l'obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell'interesse esclusivo di alcuno di essi. Le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente”) e 2055 c.c.; norme, da cui deriverebbe la necessità di parametrare la misura del regresso alla gravità delle rispettive colpe ed all'entità delle conseguenze che ne sono derivate. In mancanza di prova da parte del solvens circa la diversa gradazione delle colpe e la derivazione causale del sinistro – spiega la Corte - dovrà necessariamente trovare applicazione il principio presuntivo di “pari contribuzione al danno da parte dei condebitori solidali”.

Difatti, avvalendosi la Struttura sanitaria della collaborazione di operatori per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale nei confronti del paziente, la responsabilità della stessa per i danni causati dai propri ausiliari trova radice nel rischio d'impresa connaturato all'utilizzazione dei terzi nell'adempimento dell'obbligazione ex art. 1228 c.c.; dall'altro lato, tuttavia, la prestazione negligente del medico non può essere agevolmente isolata dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operate dalla Struttura. Da quanto detto, dunque, deriva l'operatività del principio presuntivo di divisione paritaria pro quota dell'obbligazione solidale tra la Struttura stessa ed il medico, presunzione che potrà essere superata unicamente mediante la dimostrazione, da parte dell'Ente, non soltanto della colpa esclusiva dell'operatore, ma, altresì, della derivazione causale dell'evento dannoso da una condotta del medico dissonante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, intesa come grave, ma anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile malpractice.

In assenza di tale prova, l'Ente dovrà essere ritenuto corresponsabile, sul piano dei rapporti interni, secondo la presunzione di pari contribuzione al danno ex artt. 1298, comma 2, c.c. e 2055, comma 3, c.c.

Fatti salvi i casi in cui la condotta dell'esercente la professione sanitaria sia del tutto discrepante rispetto al piano dell'ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, tra il medico e la Casa di cura sussisterà, dunque, un vincolo solidale in relazione all'obbligazione risarcitoria, in quanto soggetti – seppur a diverso titolo – concorrenti nella produzione dell'evento lesivo. Invero, per determinare la misura del diritto di regresso in capo al solvens, occorre aver riguardo non già all'interesse fra i condebitori, bensì alla gravità delle rispettive colpe e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate.

Ebbene, la pronuncia in commento sembra considerare assodati tutti questi principi, limitandosi a precisare che l'esame della graduazione delle colpe tra Casa di cura e medico esercente non possa avvenire in mancanza dell'azione di regresso.

In sostanza, in tema di responsabilità medica per fatto illecito imputabile a più persone, la questione della gravità delle rispettive colpe e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate può essere oggetto di esame da parte del giudice del merito solo se uno dei condebitori abbia esercitato l'azione di regresso nei confronti degli altri, atteso che, solo nel giudizio di regresso, può discutersi della gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze da esse derivanti.

La Suprema Corte, infine, coglie l'occasione per sottolineare l'adeguatezza dei criteri stabiliti dalle Tabelle milanesi ai fini della determinazione del danno alla persona, e per interpretare l'istituto della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c.

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