Interpretazione del contratto di licenza di marchio

21 Giugno 2023

La Corte di Cassazione si sofferma sui criteri di interpretazione del contratto con riferimento ad un accordo di licenza di marchio.

Massima

L’attività di interpretazione del contratto, che consiste nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti, è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito ed è sindacabile in sede di legittimità qualora, come nel caso in esame, venga fatta valere la violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli art. 1362 e s. c.c. […] Non si tratta della mera contrapposizione tra due diverse interpretazioni, quanto della elusione del criterio letterale richiamato per essere stato, invece, il percorso argomentativo del giudicante che, affidandosi ad una congettura interiore, si è discostato da tale criterio.

Il caso

Una società titolare di un marchio di calzature maschili ha stipulato un contratto di licenza con un'altra società che prevedeva l'impegno della licenziataria “a mettere a disposizione della concedente per le spese di pubblicità e promozione il 6% [del fatturato] da conteggiarsi sulla base di calcolo delle royalties”. Nell'accordo era altresì previsto che “Le attività promozionali e pubblicitarie poste a carico della licenziataria, nella misura sopra indicata, verranno effettuate secondo la propria discrezionalità e senza obbligo di rendiconto, direttamente dalla concedente unicamente tenuta a far conoscere alla licenziataria la tipologia e l'entità dell'investimento”.

La licenziataria ha citato in giudizio la concedente innanzi al Tribunale di Milano per accertare l'inadempimento di quest'ultima in relazione all'obbligo di effettuare investimenti pubblicitari per la promozione delle vendite delle calzature e oggetto di licenza e, di conseguenza, ottenere la restituzione della somma di € 1.723.537,51 versata a titolo di contributo alle spese pubblicitarie. La concedente ha invece presentato domanda riconvenzionale per il pagamento delle royalties nel frattempo maturate, richiedendo altresì il risarcimento dei danni derivanti dall'inadempimento dell'obbligo di commercializzare i prodotti nei canali di vendita autorizzati.

Il Tribunale di Milano ha rigettato le domande della licenziataria, riconoscendo un credito risarcitorio in favore della concedente per la somma di € 175.065,79 in aggiunta ad € 2.000,00 per la mancata commercializzazione delle calzature nei canali concordati. Secondo il giudice di prime cure l'attribuzione patrimoniale a carico della licenziataria non presentava un rapporto sinallagmatico implicante l'obbligo della concedente di effettuare spese pubblicitarie aventi ad oggetto i prodotti indicati nel contratto, attesa la discrezionalità contrattualmente riconosciuta alla concedente in merito alla modalità di esecuzione di tali spese.

La licenziataria ha quindi proposto appello avverso la sentenza del Tribunale. Tuttavia, l'impugnazione è stata ritenuta infondata, eccetto per la rivalutazione delle royalties dovute alla concedente, ridotte all'ammontare di € 140.995,39.

All'infruttuoso appello è seguito il ricorso per cassazione in cui la licenziataria ha dedotto, inter alia, la violazione o falsa applicazione dell'art. 12 disp. prel. c.c. e artt. 13621363, 1367 e 1371 c.c., per aver la Corte territoriale interpretato il contratto di licenza nel senso che tra l'obbligazione gravante sulla licenziataria di versare una somma pari al 6% del fatturato netto per l'effettuazione di investimenti pubblicitari e quella della concedente di eseguire tali investimenti non intercorresse alcun nesso sinallagmatico. Ad avviso della ricorrente, l'interpretazione prospettata dalla Corte meneghina violerebbe il criterio ermeneutico letterale, quello della comune intenzione delle parti, quello sistematico, nonché i criteri rappresentati dall'equo contemperamento degli interessi delle parti e dalla buona fede.

La questione

La questione in esame è la seguente: nel contratto di licenza di marchio è possibile evincere un obbligo di natura sinallagmatica a carico dell’impresa concedente verso l’impresa licenziataria avente ad oggetto la gestione degli investimenti pubblicitari finanziati dalla licenziataria alla luce delle norme interpretative del contratto di cui all'art. 1362 e s. c.c.?

Si può superare l’interpretazione letterale che marginalizza i doveri di una delle parti ricorrendo ad un’interpretazione sistematica?

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente, occorre ricordare che il sindacato della Corte di Cassazione sull'interpretazione delle clausole contrattuali operata dai giudici di merito è ammesso soltanto laddove questi ultimi, piuttosto che interpretare la disposizione pattizia facendo ricorso a parametri legali dando conto delle risultanze istruttorie poste alla base della sussunzione, operino attraverso enunciazioni inconoscibili perché frutto di una congetturazione interiore (Cass. 25 novembre 2019 n. 30686). Ciò in quanto, in via generale, l'individuazione della comune volontà dei contraenti impinge in una valutazione di fatto tipica del giudice di merito.

Ne consegue che le censure aventi ad oggetto l'interpretazione di un contratto sono esaminabili dal Giudice di legittimità soltanto a condizione che ricorra una violazione o falsa applicazione dei criteri ermeneutici legali espressi agli artt. 1362 ss., c.c.

Diversamente, la censura deve essere dichiarata inammissibile in quanto in sede di legittimità non può riproporsi un riesame del merito (Cass. 9 aprile 2021 n. 9461, Cass. 16 gennaio 2019 n. 873, Cass. 15 novembre 2017 n. 27136). Del pari, alla Suprema Corte è inibito il pronunciarsi sul risultato interpretativo in sé in quanto afferente all'ambito delle valutazioni di fatto di esclusiva competenza dei giudici di merito (Cass. 26 maggio 2016 n. 10891; Cass. 10 febbraio 2015 n. 2465).

Nel caso de quo, la Corte di appello milanese, nell'escludere che le obbligazioni reciproche avessero natura sinallagmatica facendo leva sulla discrezionalità riservata alla concedente nella individuazione delle modalità di effettuazione delle spese pubblicitarie e in assenza di un obbligo di rendiconto, si è discostata dai criteri ermeneutici legali, pur facendovi riferimento.

Sulla base della marcata elusione del dato normativo la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte di appello di Milano.

Osservazioni

Affinché la Corte di Cassazione possa esaminare un ricorso avente ad oggetto l'interpretazione delle clausole di un regolamento contrattuale è necessario che ricorra una violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale ovvero l'omesso esame di un fatto storico, ai sensi dell'art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. (Cass. 19 agosto 2021 n. 2312). Il sindacato della Suprema Corte può quindi esercitarsi esclusivamente sul procedimento logico-giuridico per giungere ad una determinata soluzione ermeneutica (Cass. 15 marzo 1969 n. 837).

Così, in passato, il Giudice di legittimità ha confermato la sentenza di merito che, interpretando nel suo complesso una clausola di un regolamento condominiale, aveva escluso la possibilità di ricondurre alla tipologia di utilizzazione “civile”, “professionale” o “commerciale” la destinazione a laboratorio di pasticceria di un locale condominiale sito al piano interrato del relativo fabbricato, negando, con ragionamento immune da vizi logici o giuridici, che potessero al contrario rilevare talune circostanze estrinseche alla portata disciplinatoria della clausola contrattuale interpretata, come la preesistenza della anzidetta destinazione rispetto alla approvazione del regolamento condominiale ovvero la tolleranza manifestata per anni nell'esercizio dell'attività vietata e, infine, il collegamento funzionale tra l'attività di produzione artigianale di pasticcini svolto al piano interrato e quella commerciale di pasticceria esercitata al piano terreno dello stesso fabbricato (Cass. 31 luglio 2009 n. 17893).

Diversamente, non si ha violazione o falsa applicazione di legge laddove il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un'altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale (Cass. 10 maggio 2018 n. 11254). Ne deriva l'impossibilità di dolersi in sede di legittimità del fatto che il giudice di merito ha privilegiato un'interpretazione rispetto ad un'altra, purché sostenuta da almeno un criterio legale.

È verosimile che il giudice propenda per una soluzione ermeneutica basata sull'intenzione comune dei contraenti specialmente qualora il regolamento contrattuale non appaia particolarmente chiaro sulla disciplina di uno specifico aspetto. Peraltro, quand'anche le clausole siano formulate in modo inequivoco è lo stesso art. 1362 c.c. a porre l'interpretazione teleologica su un piano preferenziale rispetto a quella letterale. E nel caso in questione il ricorso all'interpretazione letterale diventa la causa di addebito al giudice territoriale circa la scorretta interpretazione del contratto di licenza di marchio tenuto conto che il secondo paragrafo dell'art. 13 dell'accordo in questione attribuiva massima discrezionalità all'impresa concedente sulle modalità concrete di impiego delle somme destinate agli investimenti pubblicitari.

Sembra quindi che la corte di appello dovrà spingersi oltre l'adagio in claris non fit interpretatio, ricercando l'effettiva volontà dei contraenti alla luce di un'interpretazione sistematica dell'intero apparato negoziale e delle specifiche finalità di un contratto di licenza di marchio.

Guida all'approfondimento

G. Fonsi, G. Resta G. Alpa (a cura di), L’interpretazione del contratto. Orientamenti e tecniche della giurisprudenza, Giuffrè, 2001.  

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