Il risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale spetta anche al figlio concepito?

Ludovico Berti
04 Luglio 2023

La Cassazione affronta la questione se il figlio concepito possa richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione (o perdita) del rapporto parentale.
Massima

Concretizza un errore di diritto quello di sottoporre ad un regime probatorio diverso la pretesa risarcitoria dei figli, di giovanissima età all'epoca dell'incidente occorso al loro padre, per le ripercussioni negative derivanti dalla macrolesione ortopedica riportata dal genitore rispetto a quella degli altri congiunti; la sentenza impugnata ha inequivocabilmente preteso l'allegazione di concrete voci di danno per i figli, solo in ragione del fatto che la prima avesse quattro anni al momento dell'incidente e che il secondo fosse nel grembo della madre, e non ha ammesso la superabilità sul piano presuntivo di detta mancata allegazione.

Il caso

A seguito di un sinistro stradale Tizio subisce gravi pregiudizi, fra i quali l'amputazione del piede. Costui, insieme alla compagna, anche in rappresentazione dei due figli dei quali uno solo concepito al momento dell'evento, oltre al fratello ed alla madre, agiscono in giudizio nei confronti del responsabile e della sua assicurazione chiedendo la condanna al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. La sentenza di primo grado rigetta le domande dei due figli e sul punto la decisione viene confermata anche in secondo grado. Tizio e la compagna ricorrono per cassazione ritenendo che il rigetto della domanda di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale a favore dei due figli costituisca una violazione di diritto (artt. 1223, 1226, 1056, 2059, 2727 e 2729 c.c. e artt. 2, 29 e 30 Cost.).

La questione

Se il figlio concepito (e quindi non ancora nato) sia legittimato o meno a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione (o perdita) del rapporto parentale.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Suprema Corte, la decisione della Corte territoriale è errata per aver preteso di sottoporre la domanda risarcitoria avanzata dai genitori per conto dei figli minori ad un regime probatorio diverso rispetto a quella degli altri congiunti, richiedendo l'allegazione di concrete voci di danno solo in ragione del fatto che un figlio avesse quattro anni al momento del sinistro ed che l'altro fosse nel grembo materno, senza ammettere la superabilità sul piano presuntivo di detta mancata allegazione.

Quindi, in accoglimento dell'impugnazione, ha cassato la sentenza affermando il seguente e consolidato principio: “il danno parentale si configura anche in presenza di mera lesione del danno da perdita del rapporto parentale e che esso rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell'esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, nonché nella sofferenza interiore derivante dal venir meno del rapporto e/o dall'inevitabile atteggiarsi di quel rapporto in modo differente (Cass. 28 settembre 2018, n. 23469); si tratta di danno non patrimoniale iure proprio del congiunto, il quale se ritenuto spettante in astratto, come ammesso dalla Corte di appello, può essere allegato e dimostrato ricorrendo a presunzioni semplici, a massime di comune esperienza, al fatto notorio, dato che l'esistenza stessa del rapporto di parentela da presumere la sofferenza del familiare (Cass. 30 agosto 2022, n. 25541; Cass. 21 marzo 2022, n. 9010; Cass. 24 aprile 2019, n. 11212 ex multis)”.

La Corte avendo ritenuto presumibile, come per gli altri congiunti, il pregiudizio subito dal nascituro per la macrolesione del padre, ha di fatto dato per scontato ciò che fino ad ora non lo era, ossia la sua legittimazione.

Osservazioni

La decisione è assolutamente degna di nota perché, anche se in poche righe ribadisce il valore primario della prova presuntiva nell'accertamento del danno non patrimoniale da perdita/lesione del rapporto parentale, ciò che colpisce è che tale oramai pacifico principio viene affermatocon riferimento ad una figura, qual è quella del concepito, che fino ad oggi era sempre stata ritenuta non legittimata a pretendere alcunché a titolo risarcitorio.

Infatti, la giurisprudenza della Cassazione ha sempre ritenuto che il mero concepimento e la mancata esistenza in vita del congiunto al momento del fatto, escludano l'esistenza di un vincolo familiare idoneo a configurare il danno parentale (v. Cass. 1410/2011), mentre decisioni di merito sono giunte alla medesima conclusione rilevando come il diritto al risarcimento del danno non sia uno di quelli che l'art. 1 c.c. riconosce a favore del concepito e che, comunque, questi non possieda quella capacità di sofferenza che costituisce il presupposto indispensabile per il risarcimento del danno non patrimoniale.

Tra l'altro, tale ultimo principio è stato recentemente ripreso, e quindi fortificato, dalla Suprema Corte per negare la risarcibilità del danno parentale a quel nipote che per la sua tenera età (la decisione riguarda un bimbo di 8 mesi) non riesca a percepire il pregiudizio conseguente alla perdita né in termini di sofferenza futura, né in termini di perdita delle utilità rappresentate dal reciproco affetto, solidarietà e comunanza familiare (v. Cass. 12987/2022), in tal modo ritenendo che, ai fini della legittimazione attiva, il requisito della capacità giuridica, che si acquisisce alla nascita, debba essere arricchito dalla capacità del minore di percepire la perdita.

A sostegno della decisione in commento, è opportuno ricordare che le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015, nel sancire definitivamente l'irrisarcibilità del danno in favore del nato malformato per la lesione del diritto a non nascere se non sani, hanno tuttavia spiegando che possa sussistere “l'astratta titolarità attiva dell'individuo, pur quando l'illecito sia consumato prima della sua nascita” a vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento di un danno, “non trovando essa un ostacolo insormontabile nell'anteriorità del fatto illecito rispetto alla nascita — giacché si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica ai sensi dell'art. 1 c.c. — né nelle teorie della causalità giuridica, perché tra causa ed evento lesivo può intercorrere uno spazio intertemporale, tale da differire il relativo diritto al ristoro solo al compiuto verificarsi dell'effetto pregiudizievole purché senza il concorso determinante di concause sopravvenute”.

D'altronde, la valorizzazione della situazione giuridica del concepito è ancorata al dettato costituzionale, che prevede la tutela della maternità (art. 31, comma 2, Cost.), garantisce i diritti inviolabili dell'uomo (art. 2 Cost.) e riconosce al concepito una serie di diritti specificamente individuati, quali la capacità successoria (art. 462, comma 1, c.c.) e quella di ricevere per donazione beni immobili, mobili e denaro (art. 784 c.c.).

Fra l'altro, già nel 2022 2002 le Sezioni Unite della Cassazione Civile, con la sentenza n. 9556 dell'1° Luglio, per consacrare il diritto delle vittime secondarie al risarcimento per la lesione/perdita del rapporto parentale (per la prima volta riconosciuto dalla innovativa sentenza del Tribunale di Milano n. 4768/1990), rilevavano come a tale riconoscimento non fosse ostativo il disposto dell'art. 1223 c.c., occorrendo di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo fosse consistito e in che misura la lesione subita dalla vittima primaria potesse aver inciso sulla relazione.

Nel caso concreto la novità risiederebbe nella possibilità di accertare, presuntivamente, il pregiudizio che una grave invalidità permanente (o un decesso) possa comportare in un rapporto non ancora esistente al momento dell'evento che potrebbe condurre, in linea di principio (e provocatoriamente), a ritenere legittimato non solo il figlio concepito al momento dell'evento ma, perché no, anche quello concepito in epoca successiva che, ugualmente al primo, soffrirebbe per la menomazione del padre.

Tale ultima considerazione, anche se dichiaratamente provocatoria, fa tuttavia comprendere come le implicazioni, non solo teoriche ma anche pratiche, che potrebbero scaturire da quanto solamente sottinteso dalla decisione in commento, potrebbero condurre a scenari del tutto nuovi e forse inaspettati.

La questione è molto delicata e non è intenzione di questo breve commento affrontarla funditius, ma se l'intenzione della decisione in commento, che si è posta in contrasto con l'orientamento maggioritario e trova un debole supporto in principi estrapolati da giurisprudenza relativa ad un ambito diverso, quale quello della nascita indesiderata, e da riferimenti normativi non pienamente pertinenti, era effettivamente quella, “rivoluzionaria”, di riconoscere il diritto al risarcimento ad un soggetto fino ad oggi escluso dal novero degli aventi diritto, forse, stante la rilevanza della questione, una più esplicita argomentazione a sostegno di tale revirement sarebbe stata opportuna.

È innegabile però che, la S.C., imponendo al giudice del rinvio di ricorrere alla prova presuntiva per la dimostrazione del danno parentale subito dal soggetto concepito al momento dell'evento di danno, implicitamente ne ammette la sua titolarità, in tal modo aprendo le porte della tutela risarcitoria, più o meno consapevolmente, a tale vittima secondaria.

Infatti, nella fattispecie, tenuto conto del principio enunciato dalla Cassazione, è evidente come il giudice del rinvio non potrà dichiarare la carenza di legittimazione del concepito ma, dovrà limitarsi ad accertare, con ragionamento presuntivo, se egli abbia o meno subito un pregiudizio.

Nonostante questo specifico caso, la questione della legittimità/titolarità del concepito a richiedere il danno parentale non può ritenersi definita dalla decisione in commento che, più propriamente, può essere intesa come un invito, per dottrina e giurisprudenza, a confrontarsi sulla delicata questione in maniera più consapevole.

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