Responsabilità dell'avvocato ed esclusione della copertura assicurativa

Gianluca Cascella
30 Agosto 2023

Se, al momento della stipula o rinnovo della polizza, l'assicurato ometta di comunicare all'assicuratore la sussistenza di circostanze che potrebbero essere poste a fondamento di richieste di risarcimento da parte di terzi nei confronti dell'assicurato medesimo, rende fondata e meritevole di accoglimento l'eccezione di non operatività della polizza.
Massima

Allorquando in sede di stipula della polizza, ovvero di rinnovo della stessa, l'assicurato ometta di comunicare all'assicuratore la sussistenza di circostanze (rectius, di essere a conoscenza delle medesime) che, pur se risalenti a periodi anteriori, anche solo a livello teorico potrebbero essere poste a fondamento di richieste di risarcimento da parte di terzi nei confronti dell'assicurato medesimo, rende fondata e meritevole di accoglimento l'eccezione di non operatività della polizza sollevata dall'assicuratore terzo chiamato in causa, circostanze che, ove l'assicurato svolga la professione di avvocato, ben possono essere rappresentate dalla errata individuazione del legittimato passivo della pretesa, con conseguente – a catena – errata ed infruttuosa azione esecutiva, con successivo conseguente rigetto della istanza di fallimento presentata nei confronti del presunto debitore, rispetto al quale il titolo azionato era stato ritenuto non opponibile.

Il caso

Tizio conveniva dinanzi al Tribunale di Bari, con procedimento ex art. 702-bis c.p.c. l'avv. Caio, invocandone la condanna al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'assunta condotta professionale errata del medesimo, con conseguente inadempimento al mandato professionale al predetto conferito per patrocinare gli interessi di Tizio in una causa di lavoro.

I danni erano quantificati in € 117.620,00 corrispondenti all'importo della condanna ottenuta dal predetto avv. Caio nei confronti di un soggetto giuridicamente inesistente, errore che aveva determinato l'inutile decorso del termine di prescrizione decennale, precludendo in modo definitivo a Tizio la possibilità di vedere tutelati i propri diritti.

Il convenuto Caio si costituiva negando la propria responsabilità, adducendo che l'impossibilità di recuperare il credito era dipesa dagli infruttuosi tentativi di sottoporre ad esecuzione il debitore, che era poi fallito; in ogni caso, chiedeva ed otteneva di essere autorizzato a chiamare in causa il proprio assicuratore, per esserne garantito e manlevato; a sua volta, l'assicuratore si costituiva eccependo in via preliminare l'esclusione della copertura, per aver l'avv. Caio omesso – come previsto dalla polizza – di dichiarare all'assicuratore, in sede di stipula della polizza, la conoscenza di circostanze idonee a fondare, anche solo in astratto, richieste risarcitorie da parte di terzi, associandosi nel merito alle difese dell'assicurato. Il Tribunale adito accoglieva la domanda attorea, sul presupposto del riconoscimento della responsabilità dell'avv. Caio per i danni lamentati dal suo ex cliente, Tizio, nel contempo accogliendo la domanda di garanzia/manleva formulata dal medesimo nei confronti dell'assicuratore.

Proponeva appello l'assicuratore dolendosi, tra gli altri motivi, dell'accoglimento della domanda di manleva ed evidenziando che il primo giudice aveva errato nel rigettare la eccezione di non operatività della polizza, in quanto dagli elementi raccolti emergeva che l'avv. Caio aveva conoscenza pregressa di circostanze che avrebbero potuto giustificare la formulazione, da parte di terzi, di richieste risarcitorie nei suoi confronti, e tuttavia aveva omesso di comunicare all'assicuratore tali circostanze, in sede di stipula della polizza.

La questione

Per quello che rileva nel contesto di questo contributo, il caso descritto propone, in particolare, una questione di indubbio interesse, ovvero quella relativa alla individuazione delle circostanze la cui pregressa conoscenza, da parte dell'assicurato, e la conseguente omessa dichiarazione, da parte del medesimo, all'assicuratore, in sede di stipula della polizza (ovvero di rinnovo della stessa) possono giustificare il diniego della copertura assicurativa da parte dell'assicuratore.

Circostanze che – è bene tenerlo presente - allorquando l'assicurato sia un avvocato, possono assumere la più diversa natura, viste le molteplici attività professionali il cui espletamento concretizza lo svolgimento della professione forense, con tutte le discendenti conseguenze a carico del soggetto medesimo.

Le soluzioni giuridiche

La questione sottesa al motivo di appello proposto dall'assicuratore relativamente all'erroneo rigetto della eccezione di non operatività della polizza assicurativa, e conseguente accoglimento della domanda di garanzia/manleva formulata in primo grado dall'avv. Caio, è stata dalla Corte di Appello barese risolta con il riconoscimento della fondatezza della doglianza formulata dall'assicuratore di Caio.

Nello specifico, infatti, il giudice pugliese ha valorizzato la previsione contrattuale per la quale ogni circostanza conosciuta dall'assicurato, anche se pregressa e/o già denunciata al precedente assicuratore, deve essere portata a conoscenza anche del <nuovo> assicuratore, allorquando si tratti di circostanze dalle quali possa ragionevolmente desumersi venga formulata, sulla scorta di esse, una contestazione di responsabilità nei confronti dell'assicurato, con conseguente richiesta di risarcimento danni.

La statuizione appare corretta, rivelandosi anche interessante per il profilo relativo all'affermazione secondo cui elementi quali l'omessa notifica di un atto, un pignoramento dall'esito negativo ed, infine, il rigetto di un ricorso di fallimento sono circostanze che, all'avvocato di media diligenza (sempre quella ex art. 1176, comma 2 c.c.) devono far pensare che le stesse, anche se solo astrattamente, potrebbero porsi a fondamento di richieste risarcitorie da parte di terzi nei suoi confronti, e come tali sono da comunicare all'assicuratore.

Quello che la decisione non afferma espressamente, lasciandolo solo balenare sullo sfondo, è che la retroattività illimitata (o almeno decennale) delle polizze RCP rinviene un (giustificato, ad avviso di chi scrive) contemperamento nell'imposizione, a carico dell'assicurato, di un obbligo di disclosure di tutte le circostanze idonee ad incidere sulla individuazione del rischio e relativa stima, onde evitare che l'assicuratore sia esposto a conseguenze economiche negative per lui imprevedibili e potenzialmente pregiudizievoli.

Osservazioni

La sentenza qui commentata appare senza dubbio da condividere in quanto affronta e risolve – anche se forse in modo sbrigativo - correttamente la questione sottoposte al suo esame.

Visto che la questione riguarda il rapporto tra responsabilità professionale dell'avvocato e copertura assicurativa per i danni eventualmente derivanti al cliente (ovvero a terzi) da una condotta professionalmente errata del legale, non appare superfluo un breve inquadramento del perimetro della responsabilità dell'avvocato come delineato dalla prevalente e consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. VI, 28 agosto 2020, n. 17974).

Tale orientamento, che può dirsi indubbiamente consolidato, si articola nei seguenti passaggi:

1) l'asserito mancato esatto assolvimento dei doveri del mandato non è sufficiente a provare la responsabilità dell'avvocato per i danni che il cliente assume aver subito in dipendenza di essa;

2) tali danni, che parimenti il cliente (ex, a questo punto) deve allegare e provare, richiedono necessariamente, per essere ammessi a risarcimento, la dimostrazione del loro nesso causale con la condotta colposa (commissiva e/o omissiva) dell'avvocato;

3) la prova di tale nesso causale (che grava rigorosamente sul cliente/attore) è una prova positiva, ed attiene alla dimostrazione, secondo il criterio del “più probabile che non”, che l'attività che si assume omessa ovvero inesatta oppure inadeguata, se posta in essere correttamente, il cliente avrebbe ottenuto il vantaggio auspicato ovvero avrebbe evitato il pregiudizio lamentato.

In tale prospettiva, occorre tenere presente che la suddetta prova si incentra sugli esiti di una valutazione della condotta del professionista integrante, necessariamente, un giudizio di carattere prognostico sul possibile esito che tale attività professionale avrebbe potuto avere, occorrendo, come rilevato da altre decisioni, verificare se, qualora l'avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, il cliente avrebbe avuto il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, in mancanza, la prova del nesso causale (Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2018, n. 6862; Cass. civ., sez. III, 16 maggio 2017, n. 12038). A tanto va poi aggiunto che, con ancora più recente decisione, i giudici di legittimità hanno ulteriormente precisato come la valutazione dell'inadempimento che il cliente/danneggiato imputa al suo (ex) avvocato risulti, inevitabilmente, influenzata dai caratteri tipici della relativa obbligazione professionale (Cass. civ., sez. III, 28 maggio 2021, n. 15032).

I punti in cui si è sviluppato il ragionamento della Corte di Cassazione possono essere così sintetizzati: i) un inadempimento, pur se provato, non è sufficiente a dimostrare la responsabilità dell'avvocato per i danni lamentati dal cliente; ii) infatti, poiché quella dell'avvocato è una obbligazione <di mezzi> e non <di risultato>, la valutazione della relativa condotta deve avvenire sulla scorta dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, il parametro della diligenza professionale fissato dall'art. 1176, comma 2 c.c., che va commisurato alla natura dell'attività esercitata, dato che il professionista non può garantire, a prescindere, il risultato favorevole che il cliente si attende. A tale ultimo proposito, va osservato come la predetta ricostruzione dell'obbligazione dell'avvocato trova il consenso della dottrina, secondo cui l'unica obbligazione che, a carico dell'avvocato, discende dalla conclusione del contratto di opera professionale concluso con il cliente, sia quella di svolgere l'attività richiestagli, non potendosi certo ritenere obbligato a vincere la causa, anche perché – non va trascurato – sull'esito del giudizio incide in misura assolutamente non controllabile, da parte dell'avvocato, il libero convincimento del giudice (R. FAVALE, La responsabilità civile del professionista forense, Padova, 2002, p. 73); inoltre, non va trascurato di osservare che, come afferma altro autore, la diligenza richiesta dall'art. 1176, comma 2, c.c., al professionista, è una diligenza avente natura indubbiamente peculiare, essendo <particolarmente qualificata dalla perizia e dall'impiego degli strumenti tecnici adeguati al tipo di attività dovuta. Sotto questo riguardo può dirsi che l'impegno richiesto al professionista è superiore a quello del comune debitore> (C.M. BIANCA, Diritto Civile. 5, La responsabilità, 3^ ed., Milano, 2021, p.29); iii) inderogabilmente, il cliente è tenuto anche ad allegare e provare i danni che lamenta, i quali, per essere ammessi a risarcimento, richiedono necessariamente la prova del loro legame eziologico con la condotta colposa del legale; iv) per dimostrare tale legame causale, il cliente è chiamato a provare, che l'attività che egli imputa al legale di avere omesso, oppure posto in essere in modo inesatto o ancora non adeguato, ove invece compiuta nel rispetto dei canoni predetti, <più probabilmente che non> avrebbe permesso al cliente o di conseguire il risultato utile che egli si attendeva, ovvero di non subire il danno di cui, invece, questi si duole.

In definitiva, pertanto, secondo il consolidato orientamento di legittimità, il cliente che si professa danneggiato in conseguenza di un'attività professionale che assume errata, da parte del proprio legale, deve provare sia la sussistenza di un effettivo inadempimento, da parte del professionista, sia del nesso causale tra tale condotta inadempiente ed i danni che in conseguenza della stessa egli assume aver subito (ex multis, Cass. civ., sez. III, 5.2.2013, n. 2638; Cass. civ., sez. II, 27.5.2009, n. 12354).

Autorevole dottrina e la giurisprudenza, invece, tendono ad escludere la responsabilità dell'avvocato per quelle attività latamente riconducibili alla interpretazione di disposizioni legislative ovvero alla qualificazione di quanto (atto e/o fatto è indifferente) costituisce l'oggetto del giudizio (M. FRANZONI, Trattato della Responsabilità Civile, diretto da M. Franzoni, L'illecito, 2^ ed., Milano 2010, p. 288; Cass. civ., sez. II, 18.11.996, n. 10068), affermando che tali attività non possono in alcun modo considerarsi fonte di responsabilità per l'avvocato, ed ove mai, invece, dovessero ritenersi costituirla, troverebbe indiscutibilmente applicazione l'art. 2236 c.c. (M. FRANZONI, Trattato della Responsabilità Civile, diretto da M. Franzoni, L'illecito, 2^ ed., Milano 2010, p. 288; Cass. civ., sez. II, 18.11.996, n. 10068); in tal modo, si pongono in linea di sostanziale continuità con quella non recente dottrina che aveva affermato come

dottrina

, nel caso in cui la prestazione richiesta all'avvocato sia difficile, dal predetto professionista è possibile esigere esclusivamente quegli atti-tra quelli astrattamente possibili relativamente all'incarico da espletare - che rientrano nelle capacità del buon professionista della sua categoria (G. CATTANEO, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, p. 78 e ss.).

Calando i suddetti principi nella vicenda concreta, la responsabilità dell'avv. Caio è stata riconosciuta in primo grado e confermata in appello sul rilievo di un difetto di diligenza e di quella prudenza che, in relazione alle circostanze del caso concreto, era da ritenersi doverosa da parte del legale: diligenza e prudenza che, senza dubbio, sono quelle richieste al professionista ex art. 1176, comma 2, c.c.

Al riguardo, il professionista medio richiamato dall'art. 1176 c. 2 c.c. rappresenta il parametro di valutazione della condotta dell'avvocato, dato che, per la S.C,. l'avvocato medio non è mediocre, al contrario, deve risultare preparato, zelante e solerte (Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2018, n. 13077).

Per i giudici di legittimità, infatti, la condotta professionale dell'avvocato – la cui valutazione richiede che sia tenuta in adeguata e doverosa considerazione ogni concreta circostanza che caratterizza la fattispecie in cui la prestazione professionale è stata posta in essere (Cass. civ., sez. II, 9.11.1982, n. 5885) - può dirsi connotata da imperizia allorquando il medesimo o ignori ovvero violi specifiche previsioni normative, oppure adotti scelte che risolvono erroneamente questioni di diritto assolutamente pacifiche ed incontroverse, con la conseguenza che scegliere una determinata strategia processuale che, già ex ante, si riveli errata e/o inadeguata, ben può fondare una contestazione di responsabilità dell'avvocato (Cass. civ., sez. II, 1° ottobre 2018, n. 23740); tanto in ragione del fatto che, come osservato dalla S.C. in altra decisione, l'avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi degli artt. 1176 e 2236 c.c., in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge ed, in genere, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, compromette il buon esito del giudizio, mentre nelle ipotesi di interpretazione di leggi o di risoluzione di questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la sua responsabilità, a meno che non risulti che abbia agito con dolo o colpa grave (Cass. civ., sez. III, 10 giugno 2016, n. 11906).

Venendo ora all'esame della rilevanza ed incidenza delle suddette condotte dell'avvocato Caio rispetto alla operatività della polizza assicurativa, la prima cosa che è possibile osservare è che, per la decisione, anche elementi quali l'errata individuazione del legittimato passivo di un'azione giudiziale, una omessa notifica, un pignoramento dall'esito negativo ed, infine, una sentenza di rigetto della domanda di fallimento del debitore sono elementi fattuali suscettibili di porsi a fondamento di una richiesta di risarcimento nei confronti dell'assicurato (avvocato, nel caso di specie).

Tali circostanze, in ragione di tale loro natura, devono pertanto essere comunicate dall'assicurando avvocato, in sede di stipula della polizza, all'assicuratore, in assolvimento agli obblighi di disclosure e collaborazione gravanti sul primo, onde consentire al secondo di formulare ogni opportuna valutazione circa l'assunzione o meno del rischio.

Tanto è richiesto, come osservato dalla dottrina, dal combinato disposto degli artt. 1892-1893 c.c., i cui presupposti applicativi si concretizzano allorquando l'assicurato, intenzionalmente o con grave negligenza, renda dichiarazioni inesatte o reticenti in merito a circostanze determinanti per la formazione del consenso dell'assicuratore, ovvero in merito a circostanze tali da influire sul rischio secondo un collegamento oggettivo (S. LANDINI, L'assicurazione della responsabilità civile, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale Cicu-Messineo, già diretto da L. Mengoni e P. Schlesinger, continuato da V. Roppo e F. Anelli, Le assicurazioni, vol. III, Milano, 2021, p. 44). Del resto, che quello a carico dell'assicurato sia un vero obbligo precontrattuale, imposto direttamente dalla legge, di dire la verità e collaborare con l'assicuratore, lo affermano concordemente e da tempo, sia la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. III, 11 luglio 1991, n. 7697; conforme, Cass. civ., sez. III, 20 novembre 1990, n. 11206) sia autorevole dottrina, per la quale, in pratica, dichiarare il reale stato delle cose costituisce un vero e proprio obbligo per l'assicurato, di fonte legale e natura precontrattuale, in quanto preesistente al contratto, atteso che le dichiarazioni relative al rischio devono essere rese prima della stipula del contratto assicurativo (G. VISINTINI, La reticenza nel contratto di assicurazione, in Rassegna di Diritto Civile, 1971, I, 423).

In una simile ipotesi, allora, come affermato da altro autore, allorquando la condotta dell'assicurato sia connotata dalla reticenza, e quindi ometta, in sede di stipula della polizza, di dichiarare fatti di cui o era già a conoscenza, o comunque poteva già esserlo, tanto determina l'esclusione della copertura assicurativa (G. FACCI, Le clausole claims made ed i c.d. fatti noti nella successione delle polizze, in Resp. Civ. Prev., 2017, p. 760 e ss.).

Per concludere queste righe, poiché a quanto è possibile evincersi dall'esame della decisione di appello, quelle circostanze suscettibili di porsi a fondamento di eventuali richieste di risarcimento danni nei confronti dell'avv. Caio (omessa notifica; pignoramento negativo; rigetto della istanza di fallimento del debitore) si erano verificate tutte in data anteriore alla stipula della polizza invocata dall'avv. Caio (avvenuta il 19.2.2016), per cui rispetto ad esse sussisteva, in capo al predetto, la c.d. previous knowledge, che avrebbe dovuto indurlo a dichiarare le stesse all'assicuratore, nel caso di specie, verosimilmente, avrebbe potuto anche essere richiesta (o magari anche dichiarata d'ufficio, ai sensi di quanto affermato da Sez. Un., 12.12.2014, n. 26242-26243) la declaratoria di nullità della polizza, ex art. 1895 c.c., per inesistenza del rischio.

In proposito, invero, si richiama il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “In tema di assicurazione della responsabilità civile, la quale rappresenta una "species" dell'assicurazione contro i danni, il rischio, quale elemento essenziale dell'assicurazione, non coincide con il concetto di danno; conseguentemente, ai fini della validità dell'assicurazione, laddove si tratti di fare applicazione del disposto dell'art. 1917 c.c., al di là di eventuali deroghe pattizie ai principi da esso risultanti, l'evento che deve essere futuro ed incerto rispetto al momento della stipulazione del contratto non è il prodursi del danno in senso civilistico, bensì l'avverarsi della causa di esso. Infatti non è mai consentita la stipulazione dell'assicurazione di quel rischio i cui presupposti causali si siano già verificati al momento della stipula, a nulla rilevando che l'evento - e quindi il concreto pregiudizio patrimoniale - si sia verificato dopo la conclusione del contratto.” (Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2014, n. 5791).

Orientamento, questo, pienamente condiviso dalla dottrina, secondo cui, per un verso, il rischio, in quanto evento futuro ed incerto, deve esistere e non deve aver cessato di esistere al momento della conclusione del contratto (M. ROSSETTI, Inesistenza del rischio, in Le Assicurazioni. Le assicurazioni nei codici. Le assicurazioni obbligatorie, a cura di A. La Torre, Milano, 2000, p.87) e, per altro verso, il rischio non costituisce soltanto il presupposto del contratto di assicurazione, possedendo invece un rilievo strutturale, dal momento che esso è presente nell'oggetto e nella causa del contratto di assicurazione (G. FANELLI, Le Assicurazioni, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale Cicu-Messineo, diretto da L. Mengoni e P. Schlesinger, XXXVI, 1, Milano, 1973, p. 65).

Ne consegue, allora, che essendo i fatti fondanti la contestazione di responsabilità e conseguente richiesta di risarcimento danni, formulata da Tizio nei confronti dell'avv. Caio, si collocano, temporalmente - a quanto è dato evincere dalla decisione qui in commento – tra la fine del 2009 e gli inizi del 2016, da tanto ben possono ritenersi integrati i presupposti per l'applicazione dell'art. 1895 c.c., anche perché, come osserva un autore già citato, onde portare alla declaratoria della nullità della polizza, l'inesistenza del rischio deve sussistere al momento della stipulazione (M. ROSSETTI, op. cit., p. 88); nullità della polizza, quindi, che ben avrebbe potuto essere dichiarata atteso che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità “il contratto di assicurazione è nullo se l'evento rischioso assicurato si è già verificato, al momento della sua stipula; infatti, da un lato il contratto assicurativo è privo della sua funzione causale e dall'altra ha perso il carattere dell'aleatorietà suo proprio” (Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2011, n. 14410).

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