Lesione della reputazione personale sui social network e risarcimento del danno non patrimoniale

Ilenia Alagna
05 Settembre 2023

La Cassazione affronta il tema della stigmatizzazione sui social network (come Facebook), chiarendo quando tale comportamento costituisce lesione della dignità e della reputazione di un soggetto.
Massima

Stigmatizzare un soggetto sui social network adducendo di “metterlo sotto con la macchina” perchè non rispetta le restrizioni covid non costituisce lesione della dignità e della reputazione del destinatario. Secondo i giudici non vi è alcuna attribuzione di qualità sfavorevoli alla persona, di lesione della considerazione in cui l'individuo è tenuto dalla comunità in cui opera ed è conosciuto.

Il caso

Tizio ha convenuto in giudizio Caio, al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti alla lesione della reputazione personale, causata da un post di commento adesivo ad un messaggio di critica al comportamento dell'attore, postato dal vicesindaco della città sulla propria pagina Facebook. In particolare, l'attore ha rappresentato di essere affetto da un disturbo ossessivo compulsivo, con grave turbamento della condotta e di svolgere quotidianamente attività motoria – corsa a piedi – “quale bisogno insopprimibile per il suo benessere”, imprescindibile cura per la malattia mentale. Ha esposto di essersi rivolto ad un Centro di Salute Mentale, per ottenere una cura che alleviasse l'angoscia e la disperazione, ricevendo la prescrizione di un trattamento farmacologico e di una intensa attività fisica per fronteggiare lo stato di stress. In tale contesto, l'attore ha praticato attività di corsa in un periodo nel quale i provvedimenti governativi vietavano indiscriminatamente di uscire dalle proprie abitazioni, se non nei limitatissimi casi previsti. La condotta è stata stigmatizzata dal vicesindaco della città, sulla propria pagina facebook, liberamente accessibile da chiunque e commentata adesivamente da molte persone. Il social riportava un video ritraente l'attore intento nell'attività motoria, con supporti audio e con il seguente commento: “Da diversi giorni mi segnalate questo personaggio che in barba alle restrizioni sbeffeggia tutti, forze di controllo comprese. Ogni giorno assieme all'inseparabile apparato musicale, rigorosamente ad alto volume ed accompagnato dal povero cane, il fenomeno corre per tutta Ferrara fregandosene dei divieti. Ieri però qualcosa ha fermato la sua voglia di prendere in giro tutti noi ferraresi stanchi di questo personaggio. La polizia ha denunciato il “Runner” sperando gli sia passata la voglia di sbeffeggiare le Ffoo. Oggi controlleremo agli amici che mi contesteranno comunico che possono offrire il proprio giardino ad uso allenamento, magari facendogli compagnia! Attendo con ansia le solite critiche e attacchi rosicanti dei soliti leoni da tastiera”. Caio, ha scritto in calce a tale post: “…Caro Nicola Lodi mettilo sotto con la macchina, vedrai che un mesetto di ospedale in questo momento epocale non se lo scorderà mai”. Tizio ha chiesto il risarcimento del danno non patrimoniale, conseguente alla violazione degli artt. 595, 612 e 185, II comma c.p., qualificando la condotta come lesiva della propria reputazione e del proprio onore.

La questione

La stigmatizzazione di un soggetto su Facebook costituisce sempre lesione della sua dignità? Quali sono le condizioni per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione della reputazione personale su un social network?

Le soluzioni giuridiche

Il Provvedimento analizzato ha visto coinvolto Tizio nel fenomeno qualificato dalla dottrina e dalla giurisprudenza come hate speech. L'utilizzo, per così dire “a cascata”, ad opera di più persone del commento del comportamento altrui, con finalità di critica e con un effetto mortificante per il destinatario, è ormai tanto diffuso, quanto moralmente discutibile. I giudici del Tribunale di Ferrara nel respingere la domanda attorea affermano che la disamina della domanda risarcitoria non può cadere nel “paradosso della tolleranza” delineato da Karl Popper, posto che il delicato contemperamento dei principi di manifestazione del pensiero, di cui la critica è espressione, e della dignità e dell'onore, deve pur sempre muovere da una prudente e consapevole cornice di confine normativo. La manifestazione libera del pensiero è la pietra angolare dell'ordine democratico, tutelata dalla Carta Costituzionale (art. 21), dalla Carta UE (art. 11), dalla CEDU (art. 10) e dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo del 1948 (art. 19), e incontra i limiti normativamente determinati. Per tale motivo, opportunamente, la parte attrice ha ricondotto le proprie pretese nell'alveo delle fattispecie penali della diffamazione e della minaccia – ricalcando le scelte operate dal Pubblico Ministero - posto che un generico rinvio all'art. 2 della Carta Costituzionale non potrebbe di per sé consentire l'accoglimento della domandaLa manifestazione libera del pensiero è la pietra angolare dell'ordine democratico, tutelata dalla Carta Costituzionale (art. 21), dalla Carta UE (art. 11), dalla CEDU (art. 10) e dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo del 1948 (art. 19), e incontra i limiti normativamente determinati. Per tale motivo, opportunamente, la parte attrice ha ricondotto le proprie pretese nell'alveo delle fattispecie penali della diffamazione e della minaccia – ricalcando le scelte operate dal Pubblico Ministero - posto che un generico rinvio all'art. 2 della Carta Costituzionale non potrebbe di per sé consentire l'accoglimento della domanda. Come anticipato, il fenomeno dei “discorsi d'odio” trova terreno fertile nei c.d. social, stanze virtuali, spesso aperte indistintamente al pubblico, che pongono in relazione un numero indiscriminato di persone, attraverso una comunicazione con modalità interattiva, producendo un effetto sustein: in questo contesto la libertà di espressione è amplificata, quale manifestazione dell'individuo, portando con sé un frequente pericolo di conflitto con interessi e valori costituzionali. Il rischio per l'utente è indubbiamente quello di non considerare che le proprie dichiarazioni non sono pronunciate come in una camera privata, bensì in una pubblica piazza virtuale, nell'agorà dell'etere. Certamente emerge dai quotidiani comportamenti dei fruitori dei social una analfabetizzazione digitale della quale dovrà farsi carico non solo il legislatore, ma la società tutta. Esclusa l'adesione alle teorie estremistiche che identificano lo cyberspazio quale luogo refrattario alle regole giuridico-sociali, in una sorta di regno della autarchia e dell'anarchia, deve ritenersi che l'antinomia tra i diritti debba essere risolta in base ai confini normativi dell'ordinamento: la continenza, il rispetto dei diritti fondamentali e per la dignità altrui, il buon costume (nei limiti di riserva di legge indicati dal VI comma dell'art. 21 Cost.).

In altri termini, solo la configurazione di una fattispecie penale consente di travalicare il confine del diritto di critica ed assurgere a fatto illecito sanzionabile dal Giudice, poiché la libertà di espressione, in un ordinamento pienamente democratico, non protegge solo le idee condivise o ritenute inoffensive, ma anche quelle che urtano, inquietano e disturbano.

Occorre, dunque, interrogarsi se il post scritto da Caio (“…Caro Nicola Lodi mettilo sotto con la macchina, vedrai che un mesetto di ospedale in questo momento epocale non se lo scorderà mai.”) – a commento di quello scritto dal vicesindaco Lodi – sia sussumibile nelle fattispecie di cui agli artt. 595 e 612 c.p. Sotto il primo profilo, occorre verificare la oggettiva offensività delle affermazioni che si assumono lesive dell'altrui reputazione, bene giuridico cui la norma penale intende offrire tutela, intesa, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, quale “integrità morale della persona e stima diffusa nell'ambiente sociale di riferimento, vale a dire l'opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro”. L'espressione assume certamente i connotati della adesione alla critica espressa dal vicesindaco della città di Ferrara per il comportamento tenuto da Tizio – il quale aveva formalmente violato i divieti di libera circolazione posti dalla normativa c.d. anticovid – ed integra forme e toni poco consoni alla manifestazione di una disapprovazione della condotta tenuta, potenzialmente lesiva della sensibilità altrui.

Tuttavia, non si può ritenere di per sé la frase utilizzata idonea a ledere la dignità e la reputazione del destinatario: non vi è alcuna attribuzione di qualità sfavorevoli alla persona, di lesione della considerazione in cui l'individuo è tenuto dalla comunità in cui opera ed è conosciuto.

Peraltro, quale cornice storica di valutazione della condotta del convenuto, deve evidenziarsi come non potesse questi sapere dei disturbi mentali di Tizio, mentre la limitazione integrale del diritto garantito dall'art. 16 della Costituzione ha certamente turbato tutti i cittadini, sconvolgendo in tale frangente le loro vite. Appare così più comprensibile, quanto non giustificabile sotto il profilo delle modalità espressive, la critica serrata di chi tali limiti aveva apparentemente violato.

Né può essere valutato in sé quanto dichiarato dal vicesindaco, posto che il concorso presupporrebbe la condivisione sulla propria bacheca del messaggio scritto da altri, in guisa da allargare i potenziali destinatari del messaggio, attraverso la rete dei contatti personali.

Non risulta, tuttavia, che Caio abbia postato sulla propria bacheca i post del vicesindaco, limitandosi a scrivere il proprio commento in calce sulla bacheca di quest'ultimo.

Sotto il secondo profilo, neppure si configura un'ipotesi di minaccia. Da un lato, infatti, appare evidente la modalità sarcastica con cui la frase è stata pronunciata e l'utilizzo di un desiderio meramente prospettato e non realmente voluto o augurato, difettando così il requisito della serietà della minaccia; dall'altro, difetta completamente la capacità della condotta di intimidire il soggetto passivo, sulla base di un giudizio di idoneità valutata oggettivamente ex ante da parte di un soggetto medio.

Inoltre secondo i giudici difetta qualsivoglia elemento della condotta prevista dalla fattispecie tipica non essendo, l'auspicio, nemmeno rivolto all'odierno attore, bensì manifestandosi in un sarcastico invito al vice sindaco della città; né può ritenersi integrata la componente soggettiva.

Osservazioni
Il fenomeno dell'hate speech – espressione spesso tradotta in italiano con la formula “incitamento all'odio” – è una categoria elaborata negli anni dalla giurisprudenza americana per indicare un particolare tipo di comunicazione che si serve di parole, espressioni o elementi non verbali che non hanno altra funzione a parte quella di esprimere odio e intolleranza, nonché di incitare al pregiudizio e alla paura verso una persona o un gruppo di persone, accomunate da etnia, orientamento sessuale, politico, religioso o disabilità.L'ambiente digitale, in particolare quello dei social network, ha indubbiamente un potere di diffusione e di pubblicità dell'odio ben maggiore rispetto ai media tradizionali. Le espressioni d'odio, una volta immesse in rete, hanno una notevole capacità di persistenza e di divulgazione: Internet funziona, dunque, come mezzo facilitatore, avendo la capacità di rendere virali alcuni contenuti in un lasso di tempo anche brevissimo.La domanda che dobbiamo porci è se sia appropriato lasciare argomenti così delicati in mano alle policy interne dei social network, o se si possano prevedere, più opportunamente, regimi di co-regolamentazione con le Autorità competenti, operando una censura ex post, su segnalazione delle stesse piattaforme, laddove l'autorità giudiziaria ritenga opportuno.In questo senso va il Regolamento recante disposizioni in materia di rispetto della dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all'hate speech emanato dall'AGCOM il 15 maggio 2019, il cui articolo 9 comma 1 recita: “l'Autorità promuove, mediante procedure di co-regolamentazione, l'adozione da parte dei fornitori di servizi di media audiovisivi, nonché su piattaforme di condivisione di video di misure volte a contrastare la diffusione in rete, e in particolare sui social media, di contenuti in violazione dei principi sanciti a tutela della dignità umana e per la rimozione dei contenuti d'odio”.La rimozione dai social network di contenuti illegali, inclusi quelli che incitano all'odio, è stata oggetto di alcune controverse decisioni da parte della Corte di giustizia dell'Unione europea.Per quanto riguarda le misure dell'Unione europea, i giudici di Lussemburgo, con la sentenza del 3 ottobre 2019 hanno stabilito che i singoli Paesi possono costringere Facebook ad eliminare i contenuti illegali come gli “hate speech”, i discorsi di odio, sia all'interno dell'Ue che in tutto il mondo. La decisone è arrivata in seguito alla causa intentata da una esponente austriaca del partito dei Verdi, Eva Glawischnig Piesczek, contro il social network di Mark Zuckerberg, presso l'Alta corte austriaca, chiedendo la rimozione di una serie di commenti diffamatori su di lei a livello globale. L'organo austriaco si era così rivolto alla Corte di giustizia europea, e quest'ultima ha sancito che i tribunali nazionali potranno chiedere al social network di tracciare ed eliminare post identici o equivalenti a un contenuto già giudicato illecito.Infatti Facebook, sebbene sia configurabile come un prestatore di servizi di hosting e quindi non responsabile delle informazioni memorizzate, anche qualora non sia a conoscenza della loro illiceità, potrà comunque essere soggetto ad ingiunzione di porre fine o impedire una violazione, in particolare cancellando le informazioni illecite o disabilitandone l'accesso.L'Unione europea per il momento è rimasta abbastanza neutrale, in attesa di una definizione più chiara degli obblighi e delle responsabilità delle piattaforme social. Ad oggi i giganti del web non sono tenuti a monitorare tutti i contenuti postati sulle loro piattaforme, ma la Corte di giustizia dell'Unione europea ha più volte sottolineato come tale scenario non impedisca alle piattaforme di sorvegliare attivamente. E per tale ragione, secondo i giudici di Lussemburgo, gli ordini di rimozione dovrebbero essere applicati in tutto il mondo purché ciò non violi il «diritto internazionale pertinente».

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.