Per l'accertamento del nesso causale basta il 30% di probabilità. Riflessioni a margine di una sentenza enigmatica

Daniela Zorzit
11 Settembre 2023

La Cassazione chiarisce quali sono le modalità di accertamento del nesso causale, qualora l'evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile ad una pluralità di cause.
Massima

Nel caso in cui concorrano più cause, ossia nel caso in cui si tratta di verificare se una cosa ha contribuito causalmente all'evento insieme ad altre concause, quel principio di diritto è specificato nel senso che: qualora l'evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della "probabilità prevalente" e del "più probabile che non".

Dunque, il giudice di merito è tenuto ad eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili, poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente.

In tema di responsabilità da cose in custodia, il custode deve fornire la prova del ruolo causale della condotta del danneggiato, che deve essere tale da incidere sul nesso di causalità escludendolo.

Il caso

Tizio ha perso la vita in un incidente stradale: mentre, alla guida della sua motocicletta, effettuava un sorpasso non riuscito, si avvedeva del fatto che dalla corsia opposta sopraggiungeva un autoarticolato; ha quindi frenato, ma è caduto ed è andato ad urtare contro il parafango del camion. I congiunti agiscono iure proprio e iure hereditatis contro Anas, sostenendo che l'occorso sarebbe dipeso da una anomalia del manto stradale, dovuta alle pessime condizioni del giunto.

Citano anche la Compagnia assicurativa designata per il Fondo vittime della strada affermando che dietro all'autocarro vi sarebbe stato un altro mezzo, rimasto ignoto, che avrebbe avuto una certa parte nella dinamica.

Il Tribunale accerta che l'incidente si è verificato sia per l'imprudenza della vittima, che ha inciso al 60%, sia per un difetto del manto stradale, che ha contribuito per il restante 40%. Esclude, invece, il coinvolgimento di un terzo veicolo non identificato.

La Corte d'Appello ritiene, al contrario, che l'incidente sia dipeso dalla responsabilità esclusiva del danneggiato e dispone la restituzione delle somme nel frattempo incassate in forza della sentenza di primo grado.

I congiunti del de cuius propongono ricorso per Cassazione lamentando la violazione degli artt. 2051 cc. e 2697 cc., oltre che dell'art. 1227 cc.

La questione

Come si accerta il nesso qualora l'evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile ad una pluralità di cause?

Si può dire che un certo fattore, che ha il 30% di probabilità, “ha cagionato” l'evento se le altre possibili spiegazioni sono supportate, ciascuna, da una percentuale minore?

Le soluzioni giuridiche

La Corte risponde al quesito in termini positivi. Nel percorso argomentativo la Cassazione puntualizza che: "Non serve dunque né la certezza, né una elevata probabilità, come assunto dalla Corte di merito, bensì una valutazione delle ipotesi alternative e la scelta di quella più probabile, anche se di poco, rispetto alle altre, che non necessariamente si ponga come di elevata probabilità. Ciò si spiega per il fatto che le probabilità numeriche di un fatto (che la cosa abbia concorso al danno) non necessariamente ammontano al 100%, ossia: data la tesi X e quella contraria Y, non necessariamente la loro somma porta al 100% (nel senso che la prima è data al 60% e l'altra al 40%, ad esempio). Ciò accade perché c'è sempre spazio per altre spiegazioni, molto meno probabili, che sono date ad una percentuale minore. Così che, scartate queste ultime (come indicato da Cass. 25885-2022), può accadere che le rimanenti, ad esempio quella sostenuta dall'attore e quella sostenuta dal convenuto, abbiano l'una il 30% e l'altra il 20%: la regola del più probabile che no, porta ad affermare come fondata la prima delle due, anche se non caratterizzata da una elevata probabilità, come ha preteso la corte di merito, quanto piuttosto di una probabilità maggiore dell'altra ipotesi".

Il primo motivo di ricorso viene dunque ritenuto fondato; e la chiave che giustifica questa soluzione è tutta racchiusa, a parere di chi scrive, nell'affermazione secondo cui "Non serve dunque né la certezza né una elevata probabilità"> (sul punto si tornerà infra). Il giudice del gravame ha, pertanto, errato quando ha escluso la derivazione causale dell'evento dalla res (ex art. 2051 cc.) sul presupposto che non fosse "né certoaltamente probabile che la cosa avesse contribuito al danno".

Il Supremo Collegio accoglie anche la seconda censura, osservando che:

a) per orientamento consolidato (si vedano per es. Cass. 9315/2019; Cass. 2480/2018), grava sul custode, ai fini dell'esonero da responsabilità, l'onere di provare che la condotta del danneggiato è stata tale da escludere il nesso;

b) la Corte d'Appello ha violato tale principio perché, nel ritenere che il sinistro fosse dipeso in via esclusiva dal fatto della vittima, ha basato la propria valutazione su mere ipotesi ricavate dalla CTU.

Secondo la Cassazione, merita quindi di essere condivisa la critica svolta dagli eredi del de cuius, che hanno denunciato la violazione (oltre che degli artt. 2051 cc., 2697 cc., 1227 c.c.) dell'art. 2727 cc.: la sentenza gravata si è (erroneamente) appoggiata non ad indizi gravi, precisi e concordanti, bensì ad elementi di mero sospetto o assolutamente dubbi, quali la velocità tenuta dal motociclista.

Osservazioni

Dalla lettura della sentenza in commento non emergono i particolari della vicenda e i precisi sviluppi del giudizio di merito; il che rende un poco difficile ricostruire il quadro.

Sembra peraltro che le linee essenziali si condensino intorno a due direttrici, che fanno capo ai principi generali (per un limpido quadro della materia: P. Mariotti, R. Caminiti, nota a Cass. civ., sez. III, 27.04.2023 n. 11152 “Responsabilità del custode: la Cassazione fa il punto sui principi cardine”, in questa Rivista, 28.07.2023) e che possono essere così tratteggiate. Nella logica dell'art. 2051 cc.:

  • il danneggiato che agisce per ottenere il risarcimento è tenuto a provare il nesso tra la cosa e l'evento;
  • il custode che intenda liberarsi da responsabilità potrà invocare il caso fortuito, rappresentato (anche) dal fatto della vittima; dovrà quindi dimostrare che la condotta del soggetto leso ha avuto una incidenza causale esclusiva (si veda Cass. civ. 26.07.2021 n. 21395).

Ebbene, da quel che sembra, nel caso in esame il giudice di primo grado ha, per un verso, ritenuto assolto l'onere gravante sugli attori (circa l'esistenza del collegamento eziologico tra pessime condizioni del giunto ed evento morte) e, per l'altro, ha escluso che fosse stata raggiunta la prova liberatoria da parte del custode, non avendo questi dimostrato che il comportamento del motociclista (velocità eccessiva) avesse avuto incidenza causale esclusiva.

Una volta fissate tali coordinate, il Tribunale ha applicato l'art. 1227 cc., muovendo dal presupposto che entrambi i fattori (res + condotta della vittima) avessero contribuito alla produzione del sinistro, ed ha quindi ripartito le responsabilità nella misura del 40% e 60%.

Il caso è stato risolto in modo ben diverso dalla Corte d'Appello, che ha negato qualunque rilievo all'anomalia del manto stradale ed ha ascritto, in toto, l'accaduto alla colpa del danneggiato (ritenendo pertanto raggiunta la prova liberatoria da parte di ANAS).

Per quel che è dato evincere dalla lettura della sentenza, il giudice del gravame ha vagliato gli indizi esistenti a favore delle tesi sostenute, rispettivamente, dagli attori e dalla convenuta ed ha escluso il nesso tra res ed evento in ragione del fatto che <<sulla base degli elementi emersi non era né certoaltamente probabile che la cosa avesse contribuito al danno>>.

Il primo errore consiste proprio in ciò: nell'aver ritenuto necessario, ai fini della prova del rapporto causale tra condizioni della strada e incidente, un grado di conferma prossimo alla certezza.

E in effetti, un tale ragionamento si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata che, sin da Cass. civ. 21619/2007, ha chiarito che nell'ambito della responsabilità civile è sufficiente il criterio del “più probabile che non”.

L'altro profilo di critica riguarda, come si è detto, la falsa applicazione dell'art. 2727 cc. poiché la Corte d'Appello ha considerato provato il fatto del terzo - sub specie di caso fortuito - sulla base di mere ipotesi o sospetti.

Ebbene, a parere di chi scrive, la Cassazione avrebbe potuto fermarsi qui, e sciogliere la complessità della lite in due semplici enunciati: a) ai fini dell'accertamento del nesso non occorre la certezza né l'elevata probabilità, ma basta il criterio del 50+1; b) non è corretto fondare una presunzione su elementi che non siano indizi gravi, precisi e concordanti.

Sembra infatti che l'ulteriore sviluppo della motivazione sia un poco “extra calcem”, non abbia cioè attinenza con la vicenda in esame.

Invero, la Corte focalizza l'attenzione e prende a riferimento (richiamando una propria decisione resa in ambito di responsabilità sanitaria) il caso in cui l'evento dannoso sia astrattamente riconducibile a una pluralità di cause alternative, di cui alcune di scarsa rilevanza (per es. dieci possibili fattori dati al 5% ciascuno) ed altre - le rimanenti – assistite, rispettivamente, da una incidenza del 30% e del 20%.

Secondo il Supremo Collegio, di fronte ad un simile scenario il Giudice deve anzitutto scartare le spiegazioni meno probabili; ove, all'esito di questa prima scrematura, restino due ipotesi, di cui una al 20% e l'altra al 30%, ben potrà considerare fondata quest'ultima. È sufficiente, insomma, una “probabilità relativa”.

A questo punto sorgono spontanee almeno due osservazioni.

In primo luogo, come si è accennato, vi è da chiedersi se tale situazione tipo – a cui la Cassazione fa specifico riferimento, richiamando espressamente la sentenza n. 25884/2022 e costruendo su di essa il proprio dictum - si attagli perfettamente al caso.

Il dubbio si pone perché in quella pronuncia si discuteva della morte di un paziente che, secondo i CTU, era astrattamente riconducibile a quattro diverse ipotesi (alternative), di cui una sola ricollegabile all'azione umana (errata manovra chirurgica), e rispetto alle quali gli elementi indiziari offrivano gradi diversi di (maggiore o minore) conferma.

Nella fattispecie oggetto della sentenza qui annotata, invece, per quanto sia scarna la ricostruzione del “fatto”, sembra che il sinistro stradale all'origine della lite ricada in un paradigma più semplice e lineare: le “cause” parrebbero infatti solo due (da quanto si evince, il coinvolgimento di un terzo veicolo è stato escluso dal giudice di primo grado, e la questione non è stata più discussa nel gravame). Dunque: nel cono di luce illuminato dal processo i fattori rilevanti parrebbero essere solo la condotta del motociclista (velocità/imprudenza) e l'anomalia stradale. Non altro.

Se è così, dal punto di vista logico lo scenario astrattamente immaginabile dovrebbe svilupparsi su tre piani (di seguito indicati sub A, B e C):

A) il sinistro potrebbe essere dipeso da uno solo dei due fattori (cioè o dalla velocità oppure dalla anomalia del manto), a seconda che si concretizzino queste due sotto-ipotesi:

a) date le circostanze e gli elementi raccolti, è “più probabile che non” che l'incidente sia stato provocato dalla condotta del motociclista (es. l'ipotesi che la causa sia stata l'imprudenza/velocità è data al 70% contro il 30% dell'anomalia stradale);

b) oppure: date le circostanze e gli elementi raccolti, è “più probabile che non” che il sinistro sia derivato dal difetto del giunto (ipotesi assistita dal 70% contro il 30% dell'imprudenza/velocità).

B) Ma potrebbe anche accadere che non sia assolutamente possibile accertare quale, tra le due (ed uniche) spiegazioni dell'evento, sia stata la causa dell'incidente, vale a dire: l'evento potrebbe essere dipeso, alternativamente (al 50%), o dall'uno o dall'altro. In tal caso, essendovi incertezza sul nesso (perché non c'è un fattore “più probabile”), si dirà che l'attore danneggiato non ha assolto il proprio onere ai sensi dell'art. 2051 cc.. Si dovrà concludere che la res non ha avuto alcuna incidenza nella verificazione dell'evento.

C) Il sinistro potrebbe infine essere dipeso da un concorso, cioè dalla concreta “sinergia”, dalla combinazione tra velocità ed anomalia del manto stradale.

Questa ipotesi (a differenza di quelle sub A e B) presuppone che si accerti che entrambi i fattori hanno contribuito a cagionare l'evento (e in tal senso si è orientato il Tribunale nella vicenda in esame): la velocità e il deterioramento del giunto hanno “interagito”, dando luogo ad un sinistro che, in assenza vuoi dell'uno, vuoi dell'altro, non si sarebbe verificato con quelle modalità e conseguenze (hic et nunc). Qui si avrebbe un “concorso di cause umane” (condotta del custode che non ha vigilato sulla res e apporto della vittima stessa): non vi sarebbe la prova liberatoria ex art. 2051 cc. (la quale presuppone, come “fatto del terzo”, la colpa esclusiva del danneggiato) e troverebbe applicazione l'art. 1227 cc.
Tale ultima norma, del resto, secondo quanto affermato dalla Cassazione (Cass. civ. 3729/1990), costituisce una species del più generale principio di cui all'art. 2055 cc., tanto che, laddove non sia possibile determinare la precisa entità dei rispettivi contributi (quello del responsabile e quello del soggetto leso) si potrà applicare la regola del riparto al 50% (cosí Cass. civ. 1002/2010).

Non pare, allora, che il caso oggetto delle presenti note sia inquadrabile entro le coordinate in cui il Supremo Collegio ha inteso inscriverlo: non sembra, insomma, che rientri nell'ipotesi dell'evento dannoso astrattamente riconducibile a una pluralità di cause alternative, di cui solo alcune più probabili delle rimanenti.

A parere di chi scrive, nella specie, non essendovi altre “spiegazioni”, il rapporto tra la condotta imprudente - che chiameremo (a) - e le pessime condizioni del giunto - che indicheremo con (b) - doveva necessariamente risolversi in quattro possibili articolazioni (alternative): ipotesi (a) più probabile di (b); oppure ipotesi (b) più probabile di (a); o, ancora, ipotesi (a) e ipotesi (b) date ciascuna al 50% o, infine, concorso (accertato) tra (a) e (b).

Si torna a dire: se le ipotetiche cause del sinistro erano solo due, e cioè o la condotta del motociclista o l'anomalia del manto stradale, la Cassazione avrebbe potuto limitarsi a rimarcare che la Corte d'Appello aveva errato nel ritenere necessaria, ai fini della prova del nesso, la “certezza o elevata probabilità” (dunque, verosimilmente, tra l'80 e il 100%).

Sarebbe stato sufficiente sottolineare che non occorrono percentuali “elevate” o prossime a 100 per poter sostenere che vi era il collegamento eziologico tra la cosa in custodia e l'evento di danno, bastando il 50+1.

Il riferimento alla pluralità delle cause ed alla conseguente attività di valutazione demandata al Giudice sembra dunque fuori luogo, tanto più che l'ambito della infortunistica stradale pare piuttosto distante da quello della responsabilità medica, ove è assai frequente che l'evento avverso sia di difficile ricostruzione (in termini di accertamento causale), data la ontologica complessità delle problematiche inerenti ed i limiti intrinseci del sapere umano (secondo la Cassazione penale SS. UU. 11.09.2002 n. 30328, è impossibile che la spiegazione causale poggi sempre su leggi scientifiche universali e statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè alla “certezza”, e ciò <<soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali s'innesta la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena eziopatogenetica dei fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale, che costruisce il nodo nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità>>).

Segue. Scenari inquietanti nell'accertamento del nesso di causa

Detto questo, la seconda riflessione si risolve in un sentimento di preoccupazione a fronte del principio espresso dalla Cassazione. Invero, prendendo per buone le indicazioni (numeriche) fornite dalla Corte, si arriva a considerare “causa” un quid che ha (solo) il 30% di probabilità (di essere tale).

Così, volendo riprendere l'esempio di cui alla sentenza in esame, si consideri che X (decesso) potrebbe essere dipeso da fattori diversi (che si escludono a vicenda): la probabilità che la morte sia stata determinata da A è del 10%; da B è dell'8%, da C è del 2%, da D è del 10%, da E è del 10%, da F è del 10%, da G, ossia dalla condotta dell'operatore sanitario, è del 30%, da H è del 20%.

E dunque, dati 100 casi in cui, a parità di condizioni, si è prodotto lo stesso evento (che costituiscono appunto la coorte, il parametro di riferimento della rilevazione ed elaborazione statistica), solo in 30 di questi G sarebbe colpevole; tuttavia, se si applicasse il dictum della Cass. 10978/2023 qui annotata (che appunto considera “causa” l'antecedente dotato della maggior probabilità relativa), si avrebbe il seguente effetto: 70 medici pagherebbero un risarcimento (integrale) anche se non hanno cagionato l'exitus.

Ma è davvero “giusto” un sistema che conduce a questo risultato? Non è forse un eccesso (tanto più se si pensa che dietro ai sanitari ci sono le strutture ospedaliere pubbliche, finanziate con la fiscalità generale)?

Non è questa la sede per un approfondimento, ma l'interrogativo potrebbe avere il suo peso se è vero che, su altri fronti (si pensi alla rendita nella sentenza della Cassazione n. 31574/2022, oppure ai criteri ed ai “limiti” nella liquidazione del danno non patrimoniale fissati dalla più recente giurisprudenza sulla spinta del novellato art. 138 CAP), la tendenza parrebbe quella di individuare strumenti e rimedi che consentano di garantire un corretto equilibrio tra l'esigenza di tutela del danneggiato e la sostenibilità del sistema (specie se obbligatoriamente assicurato).

Vale la pena notare che in altre sentenze la Suprema Corte aveva sottolineato che il principio del “più probabile che non” ammette una certa flessibilità: Cass. civ. n. 15991/2011 aveva chiarito, in via esemplificativa, che <<se, in tema di danni da trasfusione di sangue infetto, le possibili concause appaiono plurime e quantificabili in misura di dieci, ciascuna con un'incidenza probabilistica pari al 3%, mentre la trasfusione attinge al grado di probabilità pari al 40%, non per questo la domanda risarcitoria sarà per ciò solo rigettata - o geneticamente trasmutata in risarcimento da chance perduta -, dovendo viceversa il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento che trova la sua fonte nella disposizione di legge di cui all' art . 116 c.p.c., valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all'esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili (..)>>.

Analogamente, Cass. 4024/2018 aveva rimarcato che la ragionevole probabilità che un dato fattore abbia provocato l'evento va intesa non in senso statistico, ma logico, e cioè non in base a regole astratte, ma alla luce delle circostanze del caso concreto, chiarendo che <<se il crollo d'un immobile potesse astrattamente essere ascritto a sette possibili cause, tra loro alternative, una delle quali probabile al 40%, e le altre sei al 10%, la prima dovrebbe ritenersi “causa” del crollo, a nulla rilevando che le sue probabilità statistiche di avveramento fossero inferiori al 50%, e quindi “improbabili” per la sola statistica>>.

Ebbene, si potrebbe anche condividere l'idea secondo cui la regola del “più probabile che non” risulta comunque rispettata quando vi sia un solo fattore dotato del 40%, che concorre con altri di rilevanza largamente inferiore (es. tutti al 5% ciascuno); ma tale “approssimazione” reca con sé pericolose derive perché, una volta aperta la breccia verso valutazioni “morbide” e meno rigide, l'alluvione è in agguato.

Si vuole dire che, se si stabilisce il principio per cui ciò che vale è la probabilità “relativa” (nel senso chiarito dalla Cassazione in commento), si dovrà allora riconoscere la valenza di “causa” anche a fattori dotati di una “credibilità” molto più bassa del 40%, laddove tutte le altre spiegazioni siano ancor meno probabili (es. si dirà che l'ipotesi A, data al 20%, è “causa” dell'evento laddove gli altri possibili fattori siano dieci, ciascuno supportato dal solo 8%).

E qui il terreno diventa scivoloso.

A ben vedere, il ragionamento di Cass. 10978/2023 (che appunto conduce all'esito appena descritto) finisce, in sostanza, per erodere e sgretolare la regola stessa della “preponderanza dell'evidenza”.

Invero, a parere di chi scrive, non si può considerare come “causa” una condotta che sia “data” al 30% (per la quale cioè una legge di copertura afferma che, “coeteris paribus, X provoca Y solo nel 30% dei casi”). E ciò perché vi è il 70% di possibilità che l'evento non sia stato cagionato da quella azione: dunque, verrebbe da dire che “è più probabile che non” (tornando all'esempio del medico) che il decesso non sia affatto dipeso dalla manovra del sanitario (essendo, quasi certamente, un altro il fattore, tra i tanti, che lo ha determinato).

È evidente allora che si è di fronte ad una via di fuga che tradisce il principio stesso.

Il “metodo” indicato dalla sentenza qui annotata pare, tra l'altro, piuttosto approssimativo e si rivela inutilizzabile laddove si presentino situazioni “limite” (si pensi al caso in cui l'evento X sia spiegabile con quattro ipotesi alternative, supportate, ciascuna rispettivamente da una probabilità del 30%, del 25%, del 25% e del 20%. Si potrebbe seriamente dubitare che il fattore dato al 30% sia davvero “causa”, essendo minimale lo scarto con gli altri).

Riflessioni e confronto con la teoria della causalitá proporzionale

Da notare altresì che, una volta predicata, nei termini suddetti, l'esistenza del nesso, il risarcimento è ovviamente dovuto per intero (appunto perché si considerano integrati tutti i presupposti dell'illecito), con piena soddisfazione per il danneggiato.

E qui si potrebbe osservare che siamo addirittura al di là della teoria della cd. “causalità proporzionale” elaborata da una parte della dottrina come possibile modello alternativo, in cui il compendio è commisurato all'apporto causale della condotta riferibile al soggetto che l'ha posta in essere.

In altri termini, secondo questa impostazione, si tratta di imputare al “responsabile” quella porzione di danno corrispondente alla probabilità che la sua azione abbia cagionato l'evento, anche se non ricorra un “50+1”: cosí per es., laddove vi sia solo un 20% di possibilità che A abbia cagionato B, il risarcimento sarà appunto limitato a tale percentuale. (Per una trattazione più ampia del tema, e per la connessione con la perdita di chance si veda M. Capecchi, Il nesso di causalità nella responsabilità civile, in Le responsabilità in ambito sanitario, Cedam, 2014, 245 ss.).

La causalità proporzionale, inizialmente “condivisa” da Cass. civ. 16.01.2009 n. 975, è stata poi criticata e respinta dalla giurisprudenza, a partire da Cass. civ. 21.07.2011 n. 15991. Resta allora da chiedersi (senza peraltro voler entrare nel merito della “sostenibilità” di quell'approccio teorico alla luce del dato positivo), se sul piano del risultato non fosse forse più “giusto” l'esito cui appunto giungeva la predetta dottrina, piuttosto che quello a cui approda la decisione in commento, che riconosce l'intero a fronte di una probabilità “relativa” del solo 20 o 30.

Varrebbe infatti la pena di domandarsi se la soluzione indicata da Cass. 10978/2023 sia davvero rispettosa del dato normativo, e in particolare se essa non contrasti con l'art. 2043 cc. che richiede un nesso concreto, un collegamento effettivo (“Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto….”). Nell'esempio portato dalla sentenza annotata il rapporto di causa parrebbe non sussistere affatto dato che – è opportuno ribadirlo - vi è il 70% di probabilità che l'evento sia dipeso da altri fattori, diversi dalla condotta di chi è chiamato a risponderne.

Vi è poi un altro profilo che merita una qualche considerazione.

Secondo l'orientamento ribadito dalle note sentenze di San Martino del 2019 (Cass. civ. 11 novembre 2019, n. 28991), il nesso di causa può essere provato anche mediante presunzioni, le quali richiedono che i fatti posti a fondamento della inferenza siano gravi, precisi e concordanti (tema, questo, che costituisce oggetto del secondo motivo di censura nella decisione in esame).

In proposito, la giurisprudenza (Cass. civ. 21403/2021; Cass. civ. 1163/2020, Cass. civ. 3513/2019) ha chiarito che <<In tema di prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'"id quod plerumque accidit", sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza>>.

Ebbene, ci si potrebbe domandare se i presupposti richiesti dall'art. 2729 cc. siano davvero soddisfatti allorquando gli indizi raccolti portino a dire che vi è (solo) il 30% di possibilità che la causa dell'evento (decesso) sia la manovra del medico G, esistendo (per es.) altri possibili 7 fattori, supportati, ciascuno, dal 10%.

La risposta parrebbe negativa perché dal fatto noto “condotta del sanitario”, in presenza di una data serie di condizioni, non si ricava, univocamente, il collegamento con l'evento B (morte); anzi: nel 70 % dei casi, ad A non segue affatto B (essendovi appunto solo un 30% di possibilità che l'evento dipenda da A ed un 70% che sia provocato da fattori diversi, egualmente presenti nella fattispecie).

In definitiva, a parere di chi scrive, il ragionamento svolto da Cass. n. 10978/2023 solleva più di una perplessità e pone l'interprete di fronte a quesiti che, per un verso, non sembrano trovare facile risposta, e, per l'altro, inducono a chiedersi se l'individuazione a tutti i costi di un responsabile (pur in assenza di elementi tali da soddisfare in modo rigoroso la condizione della “preponderanza dell'evidenza”) sia proprio la scelta giusta – in un contesto che è caratterizzato da risorse sempre più limitate -, o se, per converso, di fronte ai casi che sono e restano assai dubbi, non sia preferibile, se proprio non si vuole lasciare la vittima priva di tutela, introdurre sistemi di tipo indennitario.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.