Valida la cessione di partecipazioni sociali a prezzo simbolico a fronte di rilevanti impegni finanziari assunti dall’acquirente
20 Febbraio 2024
Massima Non può ritenersi meramente apparente o simbolico il prezzo che, seppur pari a zero o a cifra che si approssima allo zero, si riferisca a un negozio che presenti carattere oneroso, in relazione all'assunzione da parte dell'acquirente, contestuale o con atti collegati di obblighi connessi con il diritto acquistato, dell'acquisizione di partecipazioni sociali che impongono al titolare ulteriori apporti finanziari pena l'azzeramento del valore di tali partecipazioni. Il caso La pronuncia riguarda una complessa operazione di risanamento aziendale, nell'ambito della quale una Holding, a seguito di un “contratto parasociale”, aveva ceduto, a quattro società, partecipazioni azionarie complessivamente pari al 44% del capitale sociale di una S.p.a. partecipata per un corrispettivo di Euro 1,00 per ciascuna vendita. La Holding e il suo socio di riferimento agivano nei confronti delle società acquirenti e di altri soggetti a vario titolo coinvolti nell'operazione per l'acccertamento: i) della inesistenza del “contratto parasociale” per mancato perfezionamento dello stesso; ii) della nullità di tale contratto e del contratto di compravendita delle azioni per violazione dell'art. 644 c.p.; iii) della nullità di tale ultimo contratto (anche) per mancanza di causa; in via subordinata per la rescissione di tali contratti per lesione ultra dimidium e per il loro annullamento per violenza; per la condanna dei convenuti alla restituzione del valore equivalente alle partecipazioni azionarie cedute e al risarcimento dei danni derivanti dal deprezzamento della residua partecipazione detenuta e in subordine alla restituzione delle azioni cedute; per la condanna al risarcimento dei danni alla salute e all'immagine sofferti dal socio di riferimento della Holding. Il Tribunale rigettava tutte le domande attoree. Nel respingere anche il gravame proposto dalla parte venditrice, la Corte di Appello di Brescia evidenziava che la cessione delle partecipazioni azionarie si inseriva nell'ambito di una più complessa operazione finanziaria preordinata a realizzare il superamento della situazione di grave difficoltà economica e finanziaria in cui versava la s.p.a.; in particolare, veniva rilevato che: i) gli acquirenti erano già soci (finanziari) della s.p.a., avendo in passato acquistato azioni in misura pari al 29,95% del capitale sociale, versando un prezzo (pari a oltre Euro 15,5 mln) superiore al relativo valore nominale, e sottoscritto un prestito obbligazionario convertibile di Euro 14,2 mln; ii) i predetti soci si erano determinati all'acquisto in oggetto al fine di attuare un programma di ristrutturazione aziendale idoneo a far fronte alla grave crisi di liquidità che aveva colpito la s.p.a., crisi di tale entità da non permettere il rimborso integrale del predetto prestito obbligazionario e da richiedere un'iniezione di Euro 10 mln, cui il socio di maggioranza non era in grado di dare corso per la quota di sua spettanza; iii) l'acquisto delle partecipazioni azionarie costituiva un tassello di completamento dell'iniziativa di risanamento accompagnata dalla disponibilità dei soci finanziari di immettere la liquidità necessaria mediante la sottoscrizione di un prestito obbligazionario convertibile di Euro 10 mln integrabile eventualmente di altri Euro 5 mln. Sulla base di questi elementi la Corte di Appello riconosceva come la cessione delle partecipazioni azionarie a prezzo “simbolico” e notevolmente inferiore rispetto al valore del patrimonio netto sociale di circa Euro 11 mln, non fosse priva di causa, trovando giustificazione nell'assunzione di rilevanti impegni finanziari per far fronte all'insolvenza gravante sulla s.p.a. e nell'incertezza del buon esito dell'iniziativa. La Suprema Corte veniva adita dalla parte venditrice, per avere la Corte di Appello ritenuto sufficiente a giustificare la natura commutativa del negozio, concluso a prezzo simbolico, un'utilità indiretta, futura ed eventuale, rappresentata da quella che il venditore avrebbe potuto trarre dall'incremento di valore della partecipazione residua derivante dall'operazione di risanamento che gli acquirenti si erano mostrati disponibili a effettuare; ai fini, poi, della dedotta fattispecie di nullità del contratto per usura, rescissione per lesione e annullamento per violenza morale, parte venditrice, censurava la sentenza per non avere la Corte di Appello rilevato l'approfittamento da parte degli acquirenti della situazione di difficoltà economica e finanziaria in cui versava la Holding e la manifesta sproporzione dei vantaggi da questi conseguiti rispetto alle prestazioni eseguite. La questione Il tema giuridico affrontato della pronuncia in commento attiene alla validità o meno di un contratto di compravendita di partecipazioni sociali ad un prezzo simbolico ovvero prossimo allo zero, sotto il profilo della causa giustificatrice della cessione, la cui mancanza, come noto determina ex artt. 1325 e 1418 c.c. la nullità della vendita per difetto di uno dei suoi requisiti essenziali. Osservazioni La sentenza in commento si colloca nel solco di un orientamento giurisprudenziale - a questo punto, in via di consolidamento - che in caso di vendita di immobili (Cass., Sez. II, 19 aprile 2013, n. 9640) così come nel caso di cessione di quote di s.r.l. (Cass., Sez. I, 4 novembre 2015, n. 22567) ha evidenziato che, in tema di contratti di scambio, lo squilibrio economico originario delle prestazioni non può comportare la nullità del contratto per mancanza di causa, perché nel nostro ordinamento prevale il principio dell'autonomia negoziale, che opera con riferimento alla determinazione delle prestazioni corrispettive. Richiamando questo principio la Suprema Corte ha ribadito come solo l'indicazione di un prezzo assolutamente privo di valore, meramente apparente e simbolico, possa determinare la nullità della vendita per difetto di uno dei sui requisiti essenziali, mentre la pattuizione di un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non del tutto privo di valore, pone solo un problema concernente l'adeguatezza e la corrispettività delle prestazioni ed afferisce, quindi, all'interpretazione della volontà dei contraenti e all'eventuale configurabilità di una causa diversa del contratto. Sulla base di ciò, il carattere simbolico del prezzo delle cessioni viene meno una volta che si tengono in debito conto anche gli ulteriori impegni assunti dai contraenti. In applicazione di questi principi la sentenza de qua, riconoscendo l'esistenza di un effettivo sinallagma contrattuale nelle cessioni de quibus, ha respinto la tesi dei ricorrenti in quanto, da un lato, non può ritenersi meramente apparente o simbolico il prezzo che, seppur pari a zero o a cifra che si approssima allo zero, si riferisce ad un negozio che presenti carattere oneroso, in relazione all'assunzione da parte dell'acquirente, contestuale o con atti collegati, di obblighi connessi all'acquisizione di partecipazioni sociali che impongono al titolare ulteriori apporti finanziari pena l'azzeramento del valore di tali partecipazioni; mentre, dall'altro lato, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti non difetta una causa vendendi in ragione del fatto che l'utilità derivante dal venditore -ravvisata nel corrispettivo della vendita della società una volta risanata- non sarebbe diretta, attuale e concreta, trattandosi di elementi non necessari ai fini della integrazione del profilo causale in contestazione. La natura onerosa degli impegni assunti a latere dell'acquisto de quo - precisa ancora la Cassazione - non può essere posta in dubbio: i) né per il fatto che gli acquirenti si sono impegnati a sostenere finanziariamente la società senza rinunciare al diritto alla restituzione delle somme versate; ii) né per la convenuta modifica in senso migliorativo per i soci finanziari delle condizioni del prestito obbligazionario convertibile; iii) né per la mancata liberazione della cedente dalla garanzie prestate; iv) né per la onerosità del patto parasociale concluso anche in caso di vendita della società a terzi. La Suprema Corte nel confermare la validità del contratto sotto il profilo causale ha anche respinto il profilo di censura attinente la dedotta usura, fondata su una non condivisibile qualificazione delle cessioni in termini di mere operazioni di finanziamento, confermando la decisione della Corte di Appello che aveva collocato la cessione di partecipazioni all'ambito di un'iniziativa di risanamento aziendale ed escluso sia il requisito oggettivo della “lesione enorme”, sia l'allegato atteggiamento di coartazione psicologica dei soci finanziari o dei loro fiduciari ai danni degli attori, respingendo, così, gli ulteriori profili di invalidità delle cessioni. Conclusioni La pronuncia qui esaminata, valorizzando il principio dell'autonomia negoziale delle parti, con riferimento alla determinazione delle prestazioni corrispettive e tenendo in debito conto gli impegni assunti dai contraenti, ha riconosciuto, da un lato, l'onerosità della complessa operazione e, dall'altro, l'esistenza dell'effettivo sinallagma contrattuale, con un ragionamento che sembra muoversi anche nell'ottica della cd. causa concreta del contratto. Quest'ultima, che ha trovato applicazione giurisprudenziale nella sentenza Cass., 08 maggio 2006 n.10490, trova sempre più spazio nelle recenti pronunce di legittimità, che allontanandosi dalla nozione “astratta” di causa, individuano detto requisito nella funzione pratica che i contraenti hanno assegnato al loro accordo, intesa come la sintesi (e, dunque, ragione concreta) degli interessi reali che il contratto è diretto a perseguire, al di là del modello astratto utilizzato. |