Decreto legislativo - 12/01/2019 - n. 14 art. 167 - Patrimoni destinati ad uno specifico affarePatrimoni destinati ad uno specifico affare 1. Gli atti che incidono su un patrimonio destinato ad uno specifico affare previsto dall'articolo 2447-bis, primo comma, lettera a), del codice civile sono revocabili quando pregiudicano il patrimonio della società. Il presupposto soggettivo dell'azione è costituito dalla conoscenza dello stato d'insolvenza della società. InquadramentoLa norma in commento «completa» il contenuto dell'art. 2447-novies c.c. e, unitamente agli artt. 262 e 263 del nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (d'ora in avanti, anche soltanto «Codice» o «c.d.c.»), rappresenta la disciplina concorsuale dei patrimoni destinati ad uno specifico affare. Trattandosi della prima disposizione del Codice dedicata all'istituto in questione, è bene premettere fin d'ora che, con riferimento ai patrimoni destinati, la nuova disciplina della crisi mantiene sostanzialmente inalterato l'impianto testuale della legge fallimentare, che era stato introdotto nell'ordinamento dal d.lgs. n. 5/2006. Si può aggiungere che, anche a livello di inquadramento dogmatico, l'assetto d'ancien régime rimane pressoché immutato, fatte salve tuttavia le necessarie differenziazioni di vertice derivanti dall'innesto di princìpi generali di nuovo conio, che fino ad oggi risultavano, almeno formalmente, estranei all'impianto della legge fallimentare (ci si riferisce, in particolare, al processo di progressiva «europeizzazione» del diritto della crisi sancito dal recepimento della Direttiva (UE) 2019/1023, cd. Insolvency, su cui v. meglio infra). Conseguentemente, l'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale finora consolidatasi in materia rimane ad oggi in larga parte attuale, a partire dal basilare principio per cui l'insolvenza è uno status riferibile solo ad un soggetto giuridico, e non – in termini obiettivi – al patrimonio che fa capo allo stesso (Niutta, 312). Devono pertanto continuare a ritenersi assoggettabili agli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza introdotti dal nuovo Codice soltanto le imprese, e non (almeno in via diretta) i patrimoni destinati da esse costituiti, relativamente ai quali, invece, il parametro di riferimento resta la “capienza” (ossia l'idoneità a soddisfare i debiti ad essi riferibili), in difetto della quale il patrimonio potrà essere liquidato ai sensi dell'art. 263 c.c.i.i. (mentre per le imprese in bonis le disposizioni applicabili sono quelle di cui all'art. 2447-novies, primo comma c.c., di cui supra) c.c.i.i. (Fimmanò2, 2006, 716). La disposizione di cui all'art. 67-bis l. fall. (e che si ritrova ora trasposta nell'art. 167 c.c.i.i. qui in commento) è stata ritenuta, non a torto, di non agevole interpretazione (Patti, 793); essa riguarda l'ipotesi di separazione patrimoniale contemplata dall'art. 2447-bis, lett. a), c.c., ossia la c.d. separazione «operativa» (mentre la disciplina concorsuale della separazione «finanziaria» è dettata invece dall'art. 176 c.c.i.i., al cui commento, dunque, si rinvia) e presuppone l'apertura della liquidazione giudiziale della società costituente il patrimonio separato. La finalità della norma in rassegna è quella di regolare i rapporti tra i creditori sociali e, segnatamente, l'articolazione delle loro pretese rispetto a quelle dei creditori particolari del patrimonio destinato. Presupposti
Oltre all'apertura della procedura di liquidazione giudiziale, la applicabilità dell'istituto è circoscritta dalla presenza di specifici presupposti: innanzitutto dal punto di vista oggettivo si richiede che l'atto da revocare abbia «inciso» il patrimonio destinato. Di poi, occorre che, per effetto del compimento di tale atto «incidente» il patrimonio separato, si sia prodotto un pregiudizio al patrimonio sociale. A tali presupposti (oggettivi) deve ulteriormente «affiancarsi» il presupposto (esplicitamente indicato dal legislatore come «soggettivo») consistente nella conoscenza dello stato di insolvenza della società costituente il patrimonio destinato. Si osserva che, nel silenzio della legge, la dottrina ha tentato, in vario modo, di individuare quali atti possano qualificarsi «incidenti» rispetto al patrimonio separato e, in primo luogo, ci si è chiesti se oggetto di revocatoria possa essere la stessa deliberazione di costituzione del patrimonio separato. Da un lato tale possibilità è stata esclusa ritenendosi che per atti «incidenti» il patrimonio destinato ad uno specifico affare, il legislatore avrebbe inteso solo atti di natura dispositiva, con la conseguenza che la deliberazione costitutiva non integrerebbe tale requisito perché, si sostiene, avrebbe natura «organizzativa» (Pollio, 594). Sempre in questo senso, è stato da altri (Santagata De Castro, 192-199) osservato che tra società costituente e patrimonio destinato non vi sarebbe una alterità soggettiva tale da giustificare il venir meno del vincolo di separazione in sede di liquidazione giudiziale; inoltre, tale dottrina, considera che la deliberazione costitutiva, di per sé, non sarebbe in alcun caso suscettibile di recare pregiudizio ai creditori sociali: sarebbero, piuttosto, le modalità di gestione del patrimonio destinato ad uno specifico affare che potrebbero pregiudicare i creditore. Ancora, la dottrina in rassegna osserva che i diritti dei creditori sarebbero comunque sufficientemente tutelati anche senza il rimedio della revocatoria della deliberazione costitutiva, dal momento che il creditore che si ritenesse leso da tale deliberazione costitutiva avrebbe comunque la possibilità di agire in via ordinaria al fine di ottenere il risarcimento del danno a causa dell'insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare il suo credito. Infine, a sostegno della tesi qui enunciata, s'invoca il riferimento al diritto di opposizione stabilito a favore dei creditori e la circostanza che dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 2447-quinquies, essi non possono far valere sul patrimonio alcun diritto. Sulla base di tali argomentazioni, dunque, si è conclusivamente sostenuto che l'opposizione dei creditori sia un rimedio «sostitutivo» delle azioni revocatorie ordinarie e di quella ex art. 166 del Codice. Sul piano della concreta operatività, si osserva che siffatta conclusione ha il pregio di eliminare le principali difficoltà che si registrano in sede di applicabilità di revocatoria della delibera di costituzione e in particolare quelle rivenienti dalla dichiarazione di inefficacia di una serie di rapporti giuridici, la caducazione dei quali finirebbe inevitabilmente per comportare notevoli incertezze. Inoltre, si è ulteriormente osservato, che tale costruzione eliminerebbe anche le note difficoltà interpretative legate all'operatività della revocatoria, ossia l'individuazione dei soggetti legittimati ad agire (e, in particolare, se tali siano solo i creditori anteriori all'iscrizione della deliberazione costituiva) e, infine, la natura (se gratuita od onerosa) dell'atto di destinazione (Santagata De Castro, 1969). Di contro, la principale obiezione mossa nei confronti di questa tesi poggia sulla considerazione che l'azione revocatoria ordinaria (2901 c.c.) e il diritto di opposizione (2447-quater c.c.) si riferirebbero a soggetti differenti: l'art. 2901 c.c. tutelerebbe infatti anche i creditori posteriori alla costituzione del patrimonio, qualora vi sia stata la «dolosa preordinazione» della delibera a recare loro un danno; invece il diritto di opposizione potrebbe essere esercitato solo da parte di coloro che sono divenuti creditori anteriormente alla delibera di costituzione. La dottrina ha tentato di superare tale obiezione (Santagata De Castro, 194) ritenendo che ai creditori posteriori sarebbe comunque consentito esercitare l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, ai sensi dell'art. 2395 c.c. e che tale scelta testimonierebbe la volontà del legislatore di sostituire la tutela consistente nell'inefficacia dell'atto con rimedi risarcitori. In parziale accordo con questa impostazione, altra parte della dottrina (Patti, 794) nega la revocabilità della delibera costitutiva sulla base della considerazione che, ove si ammettesse la revocatoria in esame, si negherebbe la funzione stessa della destinazione patrimoniale, ossia quella di salvaguardare specifiche classi di creditori, alla cui soddisfazione il patrimonio è prioritariamente destinato. In proposito, si è altresì osservato (Manferoce, 1366) che la non revocabilità della deliberazione deriverebbe, da un lato, dalla natura dell'atto in questione, che potrebbe non integrare un pregiudizio per il patrimonio sociale e, dall'altro, dalla tendenza del legislatore verso la limitazione degli atti revocabili e, inoltre, che l'assenza di una alterità soggettiva tra società e patrimonio farebbe sì che i presupposti soggettivi e oggettivi richiesti dalla norma siano riferibili solo alla società. Da altri si ritiene che, più che legittimare la revocabilità della deliberazione costituiva, l'art. 167 c.c.i.i. testimonia piuttosto la possibilità di esercitare l'azione ai sensi dell'art. 166 c.c.i.i., in quanto in tale ipotesi l'atto revocabile è imputabile solo alla società costituente e non invece ad una entità patrimoniale separata (Pescatore, 444). La ratio della norma sarebbe infatti quella di prevedere una disciplina per gli atti relativi ad una massa patrimoniale, diversa da quella sociale, la quale è oggetto di liquidazione giudiziale; per poter consentire al curatore di incidere su di essa è stato necessario, appunto, introdurre una norma che ammettesse tale possibilità (l'art. 167 c.c.i.i.). Come visto, però, tale esigenza non si avverte quando oggetto della revocatoria è un atto che fa capo solo alla società, quale la delibera costitutiva della destinazione (Pellegrino, 702). In senso contrario, parte della dottrina ha invece ritenuto revocabile anche la deliberazione costitutiva del patrimonio destinato ad uno specifico affare (Gennari, 1352). Al riguardo si è affermato, anzitutto, che l'atto in commento non sarebbe da considerarsi affatto «neutro» per i crediti sociali, in considerazione dei rilevanti effetti che discendono dall'applicabilità dell'art. 2447-quinquies c.c.. Le sostanziali differenze che si riscontrano nei presupposti dell'azione di opposizione e in quella di revocazione (tanto ordinaria quanto ex art. 166 del Codice), fra cui i diversi termini di prescrizione, secondo tale dottrina, inducono a ritenere ammissibile l'esercizio di entrambe le azioni revocatorie al fine di meglio tutelare la posizione dei creditori sociali che, come noto, in sede di destinazione assumono una posizione del tutto particolare e dunque l'opposizione sarebbe un rimedio concorrente con le azioni revocatorie (Manes, 138). Inoltre, si sottolinea come il presupposto oggettivo dell'azione revocatoria sia più circoscritto di quello per l'esercizio dell'azione di opposizione. In particolare, l'azione revocatoria sarebbe l'unico strumento azionabile nei confronti degli atti cd. intergestori, ossia quegli atti dispositivi che producono effetti economici tra i vari compendi che fanno parte della società (patrimonio sociale e vari patrimoni destinati), la cui attuazione non potrebbe essere in alcun modo impugnata in quanto, oltretutto, per la modifica della consistenza del patrimonio destinato non sono previste apposite delibere. La necessità di offrire una migliore tutela a siffatte ipotesi, secondo parte della dottrina, avrebbe indotto il legislatore della legge fallimentare, e ora del Codice, a dotare il curatore di maggiore autonomia per ciò che concerne la possibilità di esercitare o meno l'azione revocatoria al fine di ripristinare la par condicio creditorum. In questo senso si sottolinea come anche a prescindere dalle azioni revocatorie, esistono altri strumenti a tutela dei creditori che risultano di difficile applicazione pratica quali, ad esempio, la possibilità per i creditori particolari di ricorrere alla responsabilità da attività di direzione e coordinamento della società, se si considera la destinazione patrimoniale come assimilabile alla dissociazione (in termini però soggettivi) di “attività” che si realizza nei gruppi di società (Gennari, 1358). Nella previsione legislativa dell'art. 67-bis della legge fallimentare, e ora dell'art. 167 c.c.i.i., quindi, stando alla dottrina in esame, non sarebbe rintracciabile un intento limitativo (nel senso di limitare l'unica ipotesi di revocazione alla fattispecie ivi disciplinata) ma, piuttosto, quello di ampliare la categoria di atti ricompresi: ferme restando le regole previste in sede civile e di liquidazione giudiziale, se l'atto ha recato pregiudizio (e vi sia anche l'elemento soggettivo della conoscenza dello stato di insolvenza) esso può essere revocato anche qualora si identifichi nella deliberazione costitutiva (Gennari, 1360). Secondo altra parte della dottrina (Fimmanò 1, 347; Fimmanò 3, 1112), la revocabilità della delibera costitutiva di patrimoni destinati discenderebbe direttamente dallo specifico carattere «segregativo» che permea la fattispecie. La deliberazione costitutiva, stando a tale Autore, si collocherebbe fra gli atti di pianificazione di una attività economica a titolo oneroso la quale può contenere atti dispositivi, di beni e rapporti, che possono consistere in varie modalità di esecuzione: ai fini della revocatoria dovrebbe valutarsi la destinazione attributiva dei beni e rapporti e non invece l'atto di pianificazione od individuazione che, come tale, risulterebbe neutro per i creditori; altri, ancora, insistono sulla circostanza che la deliberazione costitutiva di patrimoni destinati non è atto a titolo gratuito (Terranova, 82). In questo senso, è stato da altri notato che la deliberazione costituiva di patrimoni destinati ad uno specifico affare avrebbe natura di atto complesso con una duplice funzione «organizzativa e individuativa» di beni e rapporti e dunque sarebbe revocabile (Nigro, 947). A favore di questo «sdoppiamento» starebbe la previsione che in sede di 2447-quinquies si riferisce alla «destinazione» e non alla «deliberazione»: all'interno della stessa deliberazione possono convivere varie modalità esecutive. La dottrina in rassegna elenca le principali modalità esecutive: 1. l'autodestinazione, quando la società destina beni già esistenti al patrimonio separato; 2. eterodestinazione, quando i beni facenti parte del patrimonio sono forniti esclusivamente da terzi; 3. segregazione reciproca tra più s.p.a. sul modello della cointeressenza impropria od il collegamento di trusts. Sulla base di tale schema, si ritiene che, se è vero che l'atto di organizzazione è da considerare neutro in quanto gli effetti traslativi non deriverebbero in automatico dallo stesso, è anche vero che la revocabilità può riguardare le specifiche attribuzioni a favore del patrimonio destinato. In questo senso, l'atto sarebbe revocabile quando gli amministratori sapevano di non essere in grado di adempiere alle proprie obbligazioni assunte prima della segregazione. All'obiezione che il patrimonio separato non appartiene ad un soggetto diverso dalla società, la dottrina in commento risponde con l'equiparazione all'ipotesi di costituzione di garanzie o di cause di prelazione: anche in questo caso si verificherebbe una sottrazione di beni ai creditori senza trasferimento della proprietà. Alla luce delle ricordate riflessioni, si conclude che quando la destinazione patrimoniale pregiudica il patrimonio sociale è ammissibile la revocatoria dei singoli atti dispositivi per eliminare il pregiudizio derivante dalla stessa separazione. Con la conseguenza che l'art. 167 c.c.i.i.andrebbe letto nel senso di escludere dalla revocatoria gli atti che incidono solo sulla «cellula» patrimoniale e non possono avere ripercussioni sul patrimonio generale e, di conseguenza, pregiudicare i creditori concorsuali. Sempre in questa direzione si ritiene che seppur (sul piano della interpretazione letterale) la deliberazione costitutiva di patrimoni destinati sarebbe da escludere dagli atti che «incidono» sul patrimonio, l'inclusione in quella categoria potrebbe giustificarsi in quanto atto in grado di ledere la garanzia patrimoniale. Ciò deriverebbe dal fatto che l'operazione intergestoria (tra società e patrimonio destinato) di ulteriore dotazione patrimoniale, ossia un atto successivo alla delibera costitutiva, sarebbe revocabile e dunque, a fortiori, anche la destinazione ex novo dovrebbe potersi revocare, dal momento che fra le due ipotesi vi sarebbe una mera differenza cronologica. Qualora, invece, la delibera costitutiva fosse considerata un atto intergestorio sarebbe sicura l'applicabilità dell'art. 167 c.d.c., con la sola esclusione dell'ipotesi in cui il patrimonio oggetto di separazione fosse composto con soli apporti di terzi: in questo caso sarebbe un puro atto di pianificazione organizzativa. La dottrina in rassegna, conclusivamente ritiene che il rimedio dell'opposizione sia «insuscettibile di assorbire quello revocatorio» (Pasquariello, 237). Gli agli atti che «incidono sul patrimonio» sono revocabili sulla base dell'art. 167 c.c.i.i.e in questa categoria parrebbero incluse le varie attività negoziali attraverso le quali si svolge l'esercizio dello specifico affare: oltre ai cd. atti intergestori, potrebbero dunque includersi anche gli atti che, seppur compiuti in relazione allo specifico affare, non rechino l'espressa menzione del vincolo di destinazione e per i quali quindi è prevista la responsabilità sussidiaria della società con il suo patrimonio, sulla base di quanto prescritto dall'art. art. 2447-quinques, quarto comma c.c., come ad esempio il pagamento di debiti del patrimonio destinato con risorse della società, o la costituzione di garanzie per debiti del patrimonio destinato su beni della società (Comporti, 384; Terranova, 80). Secondo parte della dottrina formatasi durante la vigenza della legge fallimentare, gli atti revocabili ora rilevanti ai sensi dell'art. 167 c.c.i.i.si identificano con quelli previsti dall'art. 166; essi possono identificarsi nei pagamenti di debiti della società con entità facenti parte del patrimonio destinato, nella creazione di garanzie su beni del patrimonio per tali debiti, o ancora consistere in atti di disposizione del patrimonio (destinato) la cui controprestazione sia a vantaggio del patrimonio sociale (Pellegrino, 708; Scarafoni, 941; Manferoce, 1367; Quaranta, 860). Su un piano più generale occorre infine dare conto che, mentre dai più si ritiene che gli atti nei quali si concreta l'attività d'impresa relativa allo specifico affare non sarebbero interessati dall'ambito di operatività della revocatoria di cui all'art. 166 del Codice, secondo una parte della dottrina, essendo la società l'unico soggetto il cui nome viene speso nei traffici commerciali, si tratterebbe, in ogni caso, di atti posti in essere dalla società costituente e che sarebbero perciò soggetti anche alla revocatoria qui in esame (Pasquariello, 246). Il pregiudizio del patrimonio sociale La revocatoria prevista dalla norma in rassegna si fonda altresì sul pregiudizio che l’atto abbia recato al patrimonio della società. In proposito si è osservato che un mero pregiudizio «riflesso» sul patrimonio sociale non sarebbe idoneo a fondare la revocatoria in commento e che, invece, tale pregiudizio debba incidere sul patrimonio in maniera immediata e diretta. Con l’ulteriore e rilevante conseguenza che per l’esperimento dell’azione non basterebbe dunque provare il mero compimento dell’atto, ma occorrerebbe altresì che il curatore fornisca prova del pregiudizio immediato e diretto subito dal patrimonio sociale per effetto dell’atto che s’intende revocare (Patti, 794). Tale elemento rappresenta un profilo di novità rispetto alla disciplina della revocatoria di cui all’art. 166 del Codice e, proprio la presenza esplicita di tale requisito, aveva già indotto alcuni Autori (Romano, 302) a ritenere che l’azione revocatoria in commento ex 167 c.c.i.i. avesse natura indennitaria collocandosi pertanto agli antipodi rispetto all’azione revocatoria prevista dall’art. 166 c.d.c., la cui natura, fin da principio, era stata considerata dalla giurisprudenza come «anti-indennitaria» (Cass. S.U., n. 7028/2006; Cass., n. 18550/2006). È noto il rilievo operativo di tali questioni, dal momento che ove si ritenga che la natura della revocatoria non sia «indennitaria», non occorrerebbe dare specifica prova del pregiudizio diretto e immediato che, in certa misura, resterebbe «assorbito» dall’interesse (prevalente, rispetto a quello di fornire la prova nei termini anzidetti) di tutelare i creditori sociali. Altri Autori non ritengono vi siano sostanziali differenze fra i due tipi di azioni revocatorie e sostengono che, anche per l’esercizio dell’azione revocatoria ora disciplinata dall’art. 167 c.c.i.i., non sia necessario il riferimento a un danno effettivo al patrimonio perché il riferimento normativo al «pregiudizio» avrebbe piuttosto la funzione di escludere dal novero degli atti revocabili quelli che, pur relativi al patrimonio destinato, non incidono sul patrimonio sociale e non siano quindi in grado di ledere il diritto dei creditori concorsuali e perciò anche la norma qui in commento andrebbe letta in chiave anti-indennitaria (Fimmanò 1, 371; Guerrieri, 573; Bonfatti, 60). Una parte della dottrina ha infine osservato che il tenore letterale dell’art. 167 c.c.i.i. e la circostanza che la disciplina dei patrimoni destinati ad uno specifico affare è speciale rispetto a quella del patrimonio generale e pone problemi specifici, indurrebbero a distinguere due ipotesi. Nel caso in cui la società costituente risponde nei confronti dei creditori del patrimonio destinato, in quanto così stabilito nella delibera costitutiva, è evidente che ogni atto che incide sul patrimonio destinato finisce inevitabilmente per incidere e dunque, almeno potenzialmente, recare pregiudizio al patrimonio sociale (poiché, se il patrimonio destinato non è sufficiente, il creditore dello stesso può agire sul patrimonio sociale). Qualora, invece, la società costituente non risponde nei confronti del patrimonio destinato, perché non ha assunto specifica responsabilità in tal senso nella deliberazione costitutiva del patrimonio destinato ad uno specifico affare, potrebbero essere revocati soltanto gli atti con i quali la società abbia pregiudicato il patrimonio sociale a favore di quello destinato (Lenzi, 570; Pellegrino, 707).
La conoscenza dello stato di insolvenza La revocatoria in commento richiede infine la ricorrenza di un presupposto soggettivo, consistente nella conoscenza dello stato di insolvenza della società. In proposito non sorgono particolari difficoltà rispetto alle problematiche già note in tema di revocatoria di cui all'art. 166 del Codice dal momento che, appunto, la conoscenza dello stato d'insolvenza è un requisito richiesto anche ai fini dell'applicabilità della stessa revocatoria, ai sensi dell'art. 166 c.d.c. In materia di revocatoria ex art. 166 c.c.i.i.la giurisprudenza ha più volte evidenziato che la conoscenza dello stato di insolvenza dev'essere effettiva e non solo potenziale (Cass. I, n. 8827/2011; Cass. I, n. 3956/1998; Cass. I, n. 10209/2009; Cass. I, n. 391/2010; Trib. Bologna IV, 8 gennaio 2015; Trib. Salerno III, 18 giugno 2013, n. 1559; Trib. Salerno III, 7 maggio 2013, n. 1196; Trib. Salerno III, 2 ottobre 2013, n. 2484). Tale conclusione è stata tratta anche rispetto alla revocatoria di cui all'art. 167 c.c.i.i.: la necessità di prova della conoscenza dello stato di insolvenza andrebbe riferita solamente alla società (e quindi agli amministratori) e non invece ai terzi; secondo questa impostazione, non sarebbe necessario per il curatore provare la consapevolezza da parte del terzo della provenienza dei mezzi utilizzati per il suo soddisfacimento (Patti, 794; Nigro, 947). Altra dottrina, in senso diverso, muovendo dall'idea che il terzo assume la qualità di «terzo accipiens negli atti anomali previsti al comma 1 dell'art. 67, compiuti dalla società e, però, aventi per oggetto entità del patrimonio destinato», conclude che «non può ammettersi, perché non avrebbe alcuna giustificazione, che lo stesso assuma una posizione diversa, ma addirittura più favorevole, rispetto a quella riservata al terzo a cui si riferisce direttamente l'art. 67, comma 1, cioè l'accipiens negli atti anomali compiuti dalla società, impiegando unicamente mezzi del patrimonio generale» (Pellegrino, 711; in senso analogo Bertaccini, 1443. Queste stesse riflessioni possono essere traslate oggi in riferimento al Codice). Occorre tuttavia osservare che, stando al tenore letterale della norma in rassegna, presupposto per agire in revocatoria è la conoscenza da parte del terzo dello stato di insolvenza della società e non, invece, della incapienza del patrimonio destinato. Sicché, la formula adottata indurrebbe a considerare irrilevante, ai fini della revocatoria, l'eventuale inconsapevolezza del terzo rispetto alla incapienza del patrimonio destinato. Ne risulta un sistema farraginoso e non del tutto coerente ad una equilibrata tutela degli interessi coinvolti, anche perché, come pure è stato notato (Pasquariello, 250), il terzo sarebbe tenuto a conoscere informazioni relative alla società costituente - e non invece quelle relative alla sua «controparte negoziale» ossia il patrimonio destinato - che potrebbero in concreto anche essere indipendenti dallo svolgimento dell'affare; il che, vale la pena qui di osservare, condurrebbe a un risultato incoerente con la funzione stessa dell'istituto dei patrimoni destinati. BibliografiaBonfatti e Censoni, La riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, Padova, 2006; Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nella società per azioni, in Quad. giur. comm., Milano, 2008; Id., La liquidazione delle cellule destinate alla luce della riforma del diritto fallimentare, in Società, 2006, II, 157 ss.; Id., La revocatoria dei patrimoni destinati, in Fallimento, 2005, X, 1105 ss.; Gennari, Sub art. 2447-quater in Commentario del codice civile, delle società dell’azienda e della concorrenza, a cura di Santosuosso e diretto da Gabrielli, Torino, 2015, 1340 ss.; Guerrieri, Le Sezioni Unite riconoscono la funzione distributiva della revocatoria fallimentare, ma il legislatore la… mette in crisi, in Giur. comm., 2007, III, parte 2, 573 ss.; Bertaccini, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori in Fallimento e concordato fallimentare, a cura di Jorio, Milano, 2016, 1369 ss.; Lenzi, I patrimoni destinati: costituzione e dinamica dell’affare, in Riv. not., 2003, III, 543 ss.; Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Breviaria iuris, a cura di Cian e Trabucchi, Padova, 2013, 915 ss.; Manes, Sub art. 2447-quater, in Patrimoni destinati ad uno specifico affare, a cura di Manes e Pasquariello, Bologna, 2013, 123 ss.; Manferoce, I patrimoni destinati, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da Cagnasso e Panzani, Torino, 2016, I; Nigro, Sub art. 67-bis, in Nigro, Sandulli, Santoro, La legge fallimentare dopo la riforma, Torino, 2010; Niutta, Patrimoni destinati e procedure concorsuali (a seguito della riforma che ha interessato il diritto fallimentare), in Dir. 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