Decreto del Presidente della Repubblica - 22/09/1988 - n. 448 art. 1 - Principi generali del processo minorile.Principi generali del processo minorile.
1. Nel procedimento a carico di minorenni si osservano le disposizioni del presente decreto e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale. Tali disposizioni sono applicate in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne, assicurando il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione e dall'articolo 6 del Trattato sull'Unione europea, nonché dei diritti riconosciuti dalla direttiva (UE) 2016/800 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali12. 2. Il giudice illustra all'imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni. [1] La Corte Costituzionale, con sentenza 22 gennaio 2015, n. 1 (in Gazz. Uff., 28 gennaio, n. 4), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui prevede che, nel processo minorile, nel caso di giudizio abbreviato richiesto dall'imputato in seguito a un decreto di giudizio immediato, la composizione dell'organo giudicante sia quella monocratica del giudice per le indagini preliminari e non quella collegiale prevista dall'art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario). [2] Comma modificato dall'articolo 5, comma 1, lettera a), del D.L. 16 settembre 2024, n. 131, convertito con modificazioni dalla Legge 14 novembre 2024, n. 166. InquadramentoIl processo penale minorile rappresenta, pur essendo tributario del codice di procedura penale, un microcosmo normativo autonomo. La primaria fonte normativa che regola il processo penale minorile è il d.P.R. n. 448/1988: la norma in commento prevede, infatti, che l'iter processuale sia disciplinato dalle norme contenute nel d.P.R. n. 448/1988 e, per quanto in esse non previsto, si debba fare riferimento al codice di procedura penale ordinario. Il principio di sussidiarietà contenuto nell'art. 1, comma 1, d.P.R. n. 448/1988 trova poi un temperamento nel principio di adeguatezza applicativa: le norme del codice di rito dovranno essere applicate in modo adeguato alla personalità ed alle esigenze educative del minorenne (art. 1, comma 1, secondo periodo, d.P.R. n. 448/1988). Pertanto, il minore diviene il parametro statico (così il riferimento alla personalità) e dinamico (in questo senso il riferimento alle esigenze educative) su cui modulare le modalità applicative delle norme processuali. La centralità del minore è ribadita dall'art. 1, comma 2, d.P.R. n. 448/1988 laddove pone l'accento sulla necessità che il minorenne debba essere, da un lato, consapevole dell' iter processuale che si sta celebrando a suo carico e, dall'altro lato, protagonista della vicenda processuale e non un mero oggetto di accertamento. Il processo penale minorileIl processo penale minorile, pur essendo strutturato in maniera tale da considerare le peculiarità del minore e le esigenze del soggetto in fieri, rimane un processo penale di cui conserva la natura e la finalità, non potendo tramutarsi in uno strumento educativo. Infatti, volendo adottare una lettura che sia «costituzionalmente percorribile» (Giostra, 19), occorre ricordare che qualsivoglia forma di rieducazione risulta possibile solamente nei confronti del soggetto condannato (cfr. art. 27 Cost.). Da ciò deriva che non risulta possibile anticipare forme di rieducazione alla fase antecedente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna e, pertanto, trasformare il processo penale, ancorché celebrato nei confronti di un minorenne, in un momento ed in un luogo di rieducazione. La c.d. finalità educativa – rectius la finalità di tutela delle esigenze educative (Giostra, 20) – del processo penale minorile rappresenta, non il fine a cui piegare la procedura, ma uno strumento interpretativo capace di adeguare il meccanismo processuale alle esigenze del minore per evitare che il coinvolgimento in un processo penale possa rappresentare un'occasione di stigmatizzazione ed un evento unicamente penalizzante. Pertanto, il processo penale minorile non può caratterizzarsi per la presenza di paternalismo e tensione pedagogica, pur dovendo tradursi in un iter procedimentale capace di tenere in considerazione le esigenze educative del minore, adeguando le forme in ragione della peculiarità del minorenne. Bisogna dar conto del fatto che esiste una differente opzione interpretativa secondo cui il processo penale minore rappresenta una forma di intervento educativo (Fumu, 71 ss.; Moro, 2008, 545 ss.; Palomba, 86) ed una posizione esegetica intermedia che ritiene che nel processo penale minorile conviva l'istanza repressiva e l'istanza educativa (Spangher, 30 ss.). Il principio di sussidiarietàL'art. 1, comma 1, d.P.R. n. 448/1988 prevede che il processo a carico di imputati minorenni sia regolato dalle norme del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 e, per quando da esse non previsto, siano applicabili le norme del codice di procedura penale. Viene in tal modo sancito il principio di sussidiarietà o di adeguatezza normativa. Secondo quanto prevede l'art. 1 d.lgs. 272/1989 (disp. att. d.P.R. 448/1988) il medesimo principio vale anche per le norme di attuazione, coordinamento e transitorie: la fonte primaria è rappresentata dal d.lgs. n. 272/1989 (disp. att. d.P.R. n. 448/1988) e, per quanto da esse non previsto, troveranno applicazione le disposizioni di attuazione del codice di procedura penale ordinario. Da ciò si desume anche che laddove una materia sia regolata sia dal d.P.R. n. 448/1988 sia dal codice di procedura penale, a prevalere sarà la disciplina contenuta nel d.P.R. n. 448/1988. Il rinvio operato dall'art. 1, comma 1, d.P.R. n. 448/1988, può essere inteso in due differenti eccezioni. Secondo un primo orientamento interpretativo, infatti, l'art. 1, comma 1, d.P.R. n. 448/1988 conterrebbe un rinvio materiale: sarebbe richiamato il codice di rito nella formulazione esistente al momento dell'entrata in vigore del d.P.R. n. 448/1988, con la conseguenza che qualsiasi intervento modificativo o abrogativo della norma sussidiaria richiamata non esplicherebbe automaticamente efficacia nel processo penale minorile (Palomba, 69). Tuttavia, secondo una differente e preferibile linea esegetica, il rinvio contenuto nell'art. 1 d.P.R. n. 448/1988 deve essere interpretato in senso formale e, dunque, si devono considerare richiamate le norme del codice di procedura penale vigenti al momento in cui il rinvio è chiamato ad operare (Giostra, 6; Di Nuovo, Grasso,143-144; Pepino, 16 e Spangher, 28). Sempre in tema di rinvio al codice di procedura penale, occorre precisare che la presenza di un vuoto normativo all'interno del d.P.R. n. 448/1988 non comporta un'automatica operatività delle norme del codice di rito. Infatti, a fronte della lacuna normativa, l'interprete dovrebbe tentare di risolvere la questione facendo riferimento alle norme proprie della procedura penale minorile ed ai principi da essa ricavabili. Solo laddove ciò non sia possibile – e non sia possibile neppure un'interpretazione sistematica – si potranno ritenere applicabili le norme del codice di procedura penale (Giostra, 7-9). Tale opzione interpretativa si fonda anche sull'idea di un sistema processuale minorile autonomo ed autosufficiente (Cipolla, 366-367). Occorre ricordare che, una volta accertata l'esistenza di un vuoto normativo che deve essere colmato facendo riferimento al codice di procedura penale, non vi è la possibilità – stante l'assenza della locuzione «in quanto compatibili» – di un apprezzamento in ordine alla applicabilità delle disposizioni codicistiche (Giostra, 13), salvo poi doverle applicare in modo adeguato alle esigenze del minore (cfr. infra § 4). La Corte Costituzionale (C. Cost. n. 323/2000) ha precisato che «quale che sia dunque, in generale, la ricostruzione che si debba effettuare dei rapporti fra norme del codice e norme del decreto sul processo minorile», se la norma contenuta nel codice di rito ordinario – che disciplina un aspetto già disciplinato dal d.P.R. n. 448/1988 – risulti essere una disposizione «di maggior favore [...], introdotta ex novo a distanza di tempo dal momento in cui furono delineate le due parallele discipline del codice e del decreto sul processo minorile, [...] si deve ritenere che essa sia applicabile anche agli indagati minori, in base al principio, seguito dallo stesso legislatore e conforme ai principi costituzionali e internazionali, del favor minoris. In assenza, infatti, di ostacoli testuali insuperabili, e dovendosi procedere ad una interpretazione sistematica, non può non darsi rilievo preminente, nella ricostruzione della disciplina, ai criteri di fondo che la ispirano, fra cui quello appunto del trattamento più favorevole per l'indagato minorenne». Il principio di sussidiarietà e la giurisdizione di pace La disciplina del processo penale minorile deve anche considerare le regole fissate dal d.lgs. n. 274/2000 in tema di reati di competenza del Giudice di Pace. Infatti, il combinato disposto degli artt. 4, comma 4 e 63 d.lgs. n. 274/2000 prevede che il Tribunale per i Minorenni sia competente anche nel caso in cui il minore ponga in essere fatti riconducibili alle fattispecie di reato che, secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 274/2000, risultano attribuiti alla giurisdizione di pace. Tuttavia, in tali casi, il Giudice minorile dovrà osservare le disposizioni contenute negli artt. 52-62-bis d.lgs. n. 274/2000 (sanzioni applicabili dal giudice di pace), 33 (sentenza di condanna alla pena della permanenza domiciliare). Inoltre, dovranno essere applicati anche gli artt. 34 (esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto), 35, (estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie), 43 (esecuzione della pena della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità) e 44 (modifica delle modalità di esecuzione della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità) d.lgs. n. 274/2000, ma solo in quanto compatibili. Risulta discusso in dottrina il parametro di riferimento del giudizio di compatibilità previsto dall'art. 63 d.lgs. n. 274/2000, ovvero se la norma dettata dalla disciplina della giurisdizione di pace debba essere valutato alla luce di quanto previsto dal d.P.R. n. 448/1988 oppure in ragione del combinato disposto del d.P.R. n. 448/1988 così come integrato dal codice di rito ordinario. Secondo l'interpretazione preferibile, la norma contenuta nel d.lgs. n. 274/2000 potrà essere applicata solo se non in contrasto con il d.P.R. n. 448/1988 e con il codice di procedura penale (Giostra, 24). In giurisprudenza si è affermato che allorché il Tribunale per i Minorenni si trovi a dovere giudicare un reato di competenza del giudice di pace, commesso da un minore, deve irrogare le più miti sanzioni previste dal d.lgs. n. 274/2000 (Cass. pen. V, n. 22680/2005; Cass. pen. V, n. 35247/2013 e Cass. pen. V, n. 15723/2018). I rapporti con le fonti sovranazionali Con riferimento ai rapporti tra la disciplina del processo penale minorile e le fonti sovranazionali, occorre rilevare che il contrasto tra la normativa sovranazionale e la disciplina nazionale risulta censurabile ai sensi dell'art. 76 Cost. in relazione alle fonti sovranazionali ratificate dall'Italia in un momento antecedente all'entrata in vigore del d.P.R. n. 448/1988; mentre risulta censurabile, alla luce dell'insegnamento costituzionale (C. Cost. 348/2007 e 349/2007), a norma di quanto dispone l'art. 117 Cost. in relazione alle fonti sovranazionali ratificate in un momento successivo (Giostra, 6-7; Cipolla, 375). Alla luce del confronto tra la normativa europea e la disciplina italiana, si può concludere affermando l'esistenza di un duplice livello di garanzie processuali: da un lato, il livello europeo che fissa standard minimi di tutela e, dall'altro lato, il livello nazionale che rappresenta l'avanguardia delle guarentigie minorili. La circostanza che il sistema italiano si presenti come particolarmente avanzato – e come un modello per i futuri sviluppi della giustizia minorile anche oltre i confini nazionali – è testimoniato anche dal raffronto con la disciplina interna degli altri Paesi europei, i quali, secondo una visione generale e d'insieme, offrono spesso soglie di tutele inferiori rispetto a quelle italiane ed europee. Pertanto, pur nella consapevolezza delle criticità della disciplina processuale che rimane sicuramente migliorabile e perfettibile, è possibile affermare che l'ordinamento processual-penalistico minorile italiano valorizzi ed amplifichi i dicta europei e tenga nella debita considerazione l'art. 24, § 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (Conti, 98). Il principio di adeguatezza applicativaL'art. 1, comma 1, d.P.R. n. 448/1988, sancito il principio di sussidiarietà – e, dunque, risolvendo il problema di quale norma sia applicabile –, prosegue precisando che le norme del codice di procedura penale dovranno essere applicate in modo adeguato alla personalità ed alle esigenze educative del minorenne – modulando la modalità applicativa, il quomodo, della norma individuata come applicabile –. Pertanto, la norma processuale non potrà essere applicata tout court ma dovrà preventivamente subire un vaglio di compatibilità con le specificità del rito minorile. Si tratta del principio di adeguatezza applicativa in forma del quale la norma codicistica potrà essere applicata solo nel caso in cui si palesi adeguata a disciplinare un procedimento penale in cui è coinvolto un soggetto minorenne. Tale principio «indica il tributo massimo che il sistema è in grado di offrire in punto di diversificazione per individualizzare il processo a tutela della evoluzione psicologica del minorenne» (Giostra, 15). Si tratta «di un criterio fortemente legato al generale principio di minima offensività, che [...] impone [...] di evitare, nell'esercizio della giurisdizione penale, ogni pregiudizio al corretto sviluppo psico-fisico del minore, di adottare le opportune cautele per salvaguardare le correlate esigenze educative, fornendo una risposta individualizzata, in quanto adeguata al caso concreto, tenuto conto del fatto compiuto e della persona a cui si rivolge» (Vigoni, 1949). Tuttavia, il principio di adeguatezza applicativa non consente di trasformare il processo penale minorile in uno strumento di emenda, di educazione e di recupero del minore, ma si limita a chiarire che il processo penale minorile deve evitare di pregiudicare le esigenze educative del minore (Giostra, 16). Il principio di adeguatezza applicativa risulta applicabile sia alle norme del codice di procedura penale, sia alle norme contenute nel d.P.R. n. 448/1988. Infatti, come suggerisce il dato letterale – che non consente di esentare dal criterio dell'adeguatezza le norme dettate dal d.P.R. n. 448/1988 –, la necessità di porre attenzione alla specificità del minorenne coinvolto nell'iter processuale riguarda la disciplina processuale concretamente applicabile al caso concreto, senza poter distinguere in base alla fonte della norma applicabile (Palomba, 60 ss., Giostra, 15. Contra Battistacci, 5 che ritiene il principio di adeguatezza applicativa riferibile solo alle norme del codice di procedura penale applicabili al rito minorile). La dottrina chiarisce che l'espressione «alla personalità e alle esigenze educative del minore», utilizzata dall'art. 1, comma 1, secondo periodo, d.P.R. n. 448/1988 al fine di individuare i parametri a cui ancorare il principio in esame, deve essere intesa come una «endiadi normativa, non essendo ipotizzabili accorgimenti che, adeguati alla personalità del minore, non lo siano alle sue esigenze educative; e viceversa» (Giostra, 16). L'art. 1, comma 2, d.P.R. n. 448/1988L'art. 1, comma 2, d.P.R. n. 448/1988 prevede – in sintonia con quanto avviene nel processo civile che vede coinvolto un minore (cfr. art. 473-bis.5, comma 4, c.p.c.) – che il Giudice debba illustrare al minore il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza – ed anche in sua assenza (Giostra, 22) – nonché del contenuto delle decisioni assunte, tanto che si dovrebbe parlare di processo penale «informato» (Vigoni, 1950). La norma palesa la necessità di rendere il minore, coinvolto in un processo penale, consapevole di quanto gli sta accedendo, conscio dei diritti e delle garanzie che gli sono riconosciute e del contesto processuale in cui si trova. Non si tratta, quindi, di una norma capace di connotare di paternalismo il Giudice minorile, ma di una disposizione normativa che pone l'Autorità Giudiziaria minorile quale garante del ruolo centrale che il minore ricopre nella dinamica processuale e la onera di verificare la consapevolezza del minore in ordine ai diritti ed alle garanzie che l'ordinamento processuale gli riconosce. Nonostante la minore età, il minorenne indagato o imputato risulta essere il vero protagonista del processo. La dottrina evidenzia che il coinvolgimento del minore, da un lato, abbia lo scopo di favorire lo sviluppo del senso di responsabilità e quindi la crescita sociale e, dall'altro, sia strumentale alle manifestazioni di volontà che la legge richiede all'imputato minorenne (Cipolla, 379). In relazione all'onere di illustrare il contenuto e le ragioni etico-sociali delle decisioni, la dottrina ha evidenziato che «l'assolvimento di questo compito» non debba tradursi in «atteggiamenti moralistici. Nulla è più lontano dalle esigenze educative del minore di un freddo dispositivo accompagnato da un paternalistico sermone» (Giostra, 22), dovendo escludere che l'Autorità Giudiziaria minorile possa esporre le proprie convinzioni ed i propri pregiudizi, dovendo solo chiarire le ragioni giuridiche della decisione assunta (Pepino, 17). 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