Codice di Procedura Civile art. 473 bis 52 - Forma della domanda1Forma della domanda1 [I]. La domanda per interdizione o inabilitazione si propone con ricorso diretto al tribunale del luogo in cui la persona nei confronti della quale è proposta ha residenza o domicilio. [II]. Il ricorso contiene le indicazioni di cui all'articolo 473-bis.12 o all'articolo 473-bis.13, nonché il nome e il cognome e la residenza del coniuge o del convivente di fatto, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado e, se vi sono, del tutore o curatore dell'interdicendo o dell'inabilitando. [1] Articolo inserito dall'art. 3, comma 33, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022 , il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come da ultimo modificato dall'art. 1, comma 380, lett. a), l. 29 dicembre 2022, n.197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.". InquadramentoL'art. 473-bis.52 c.p.c. riprende alla lettera, nel primo comma, il testo del primo comma dell'art. 712 c.p.c., disposizione che è stata per intero abrogata, unitamente alle altre disposizioni che componevano il Capo III, Titolo II, Libro IV, dal d.lgs. n. 149/2022. Il secondo comma trascrive con alcune modifiche il precedente disposto del secondo comma del detto art. 712, riguardante il contenuto del ricorso introduttivo del procedimento. Le modifiche risultano essere quelle rese necessarie dalla struttura innovata del processo per le controversie in materia di stato delle persone, di minorenni e di famiglia: e si esauriscono, concretamente, in meri ritocchi di coordinamento. Il procedimento per dichiarazione di interdizione o di inabilitazione era disciplinato dal codice di rito civile come uno dei procedimenti speciali in materia di famiglia. La giurisprudenza ne aveva descritto lo scopo e la natura con una pronuncia che vale anche a proposito della normativa di questo procedimento innovata dalla riforma di cui al d.lgs. n. 149/2022. Il processo di interdizione o inabilitazione (aveva affermato Cass. I, n. 17256/2005) ha per oggetto un accertamento della capacità di agire che incide sullo «status» della persona e si conclude con una pronuncia qualificata espressamente come sentenza, suscettibile di giudicato. Le peculiarità di detto procedimento, determinate dalla coesistenza di diritti soggettivi privati e di profili pubblicistici, dalla natura e non disponibilità degli interessi coinvolti, e specificamente segnate dalla posizione dei soggetti legittimati a presentare il ricorso, i quali esercitano un potere di azione, ma non agiscono a tutela di un proprio diritto soggettivo (art. 417 c.c.), dalla previsione che essi possono impugnare la sentenza, pur se non abbiano partecipato al giudizio (art. 718 c.p.c.), e dagli ampi poteri inquisitori del giudice (art. 419 c.c. e art. 714 c.p.c.), non escludono che esso si configuri, pur con tali importanti deviazioni rispetto al rito ordinario, come un procedimento contenzioso speciale, ritenuto dal legislatore come il più idoneo ad offrire garanzie a tutela dell'interesse dell'interdicendo e dell'inabilitando e ad assicurare una più penetrante ricerca della verità, e che quindi esso resti disciplinato, per quanto non previsto dalle regole speciali, dalle regole del processo contenzioso ordinario, ove non incompatibili. Da tanto deriva che anche nel processo di interdizione o di inabilitazione è ammissibile la pronuncia di cessazione della materia del contendere in ogni caso in cui, per motivi sopravvenuti, una pronuncia sul merito si profili come non più necessaria. (Nella specie la corte d'appello, pronunciando sull'appello del solo P.M., aveva dichiarato essere venuta meno la materia del contendere in relazione al giudizio di impugnazione, una volta preso atto che l'impugnante – che in primo grado aveva promosso il giudizio di interdizione – all'esito dei nuovi accertamenti tecnici aveva concluso per la insussistenza di elementi idonei a giustificare il mutamento della pronuncia di inabilitazione adottata dal primo giudice in quella di interdizione; che l'interdicendo aveva chiesto la conferma della sentenza impugnata e che l'interveniente non aveva proposto appello incidentale, limitandosi a formulare valutazioni critiche avverso una parte della motivazione della sentenza del tribunale. Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha ritenuto la legittimità di tale declaratoria). Il tribunale pronuncia in composizione collegiale (art. 50-bis n. 1 c.p.c.). La competenza per territorioLa regola dettata a proposito della competenza per territorio è rimasta invariata nonostante l'intervenuta riforma del processo civile, soprattutto per quanto concerne le controversie nella delicata materia delle persone e della famiglia. Rispetto a questa regola, confermata dalla riforma citata, il nuovo art. 473-bis.11, introdotto dalla riforma medesima, enuncia un principio diverso, per il quale, ove il procedimento non riguardi un soggetto minorenne si applicano le disposizioni generali in tema di foro generale delle persone fisiche (art. 18 e ss. c.p.c.). Dunque, la diversità di disciplina impone di evidenziare la conseguenza che ne deriva. La competenza stabilita dalla norma in commento ha natura speciale in quanto riferita allo specifico caso della procedura per interdizione o per inabilitazione: in tal senso deve ritenersi che il criterio così stabilito sia inderogabile, ai sensi dell'art. 28 c.p.c. Il giudice ha tempo e modo di rilevarne l'inosservanza, d'ufficio, sino all'udienza di comparizione delle parti di cui all'art. 473-bis.47. Le nozioni di residenza e quella di domicilio sono ormai acquisite pacificamente in dottrina e in giurisprudenza. Può ricordarsi che ai fini della determinazione della residenza le certificazioni anagrafiche hanno un valore esclusivamente presuntivo dovendosi ricercare piuttosto quale sia nella specie quella relazione di fatto tra la persona e un luogo che si traduca in una dimora stabile. In proposito la giurisprudenza ammette ogni mezzo di prova (Cass. lav., n. 9373/2014). Si intende invece per domicilio il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi, che va individuato non solo con riferimento ai rapporti economici e patrimoniali ma anche agli interessi morali, sociali e familiare, che normalmente confluiscono nel luogo in cui il soggetto vive con la propria famiglia. La nozione così offerta è complessa e per la giurisprudenza essa sottintende la ricorrenza dell'intenzione di costituire in un determinato luogo il centro principale delle proprie relazioni familiari, sociali ed economiche (Cass. III, n. 5006/2005). A differenza da quanto dispone in generale l'art. 18 c.p.c., la norma in commento non menziona la dimora, quale criterio suppletivo cui far capo nei casi in cui non possano essere utilizzati i luoghi di residenza e di domicilio. In proposito si è inteso verosimilmente indicare per la competenza dell'ufficio giudiziario elementi di riferimento meno labili di quello costituito dalla relazione non particolarmente qualificata dell'interdicendo o dell'inabilitando con un certo luogo. La giurisprudenza ha risolto il caso in cui il soggetto nei cui confronti è chiesto un provvedimento limitativo della capacità non abbia una residenza o un domicilio liberi ma si trovi ristretto in stato di detenzione. Essa in proposito ha pronunciato per la fattispecie dell'amministrazione di sostegno enunciando, però, una regola che può essere estesa al procedimento di interdizione o di inabilitazione. Cass. I, ord. n. 18943/2020, ad esempio, ha affermato che, nel caso in cui il beneficiario dell'amministrazione di sostegno si trovi in stato di detenzione in esecuzione di una sentenza definitiva di condanna, la competenza territoriale va riconosciuta al giudice del luogo in cui il detenuto aveva la sua dimora abituale prima dell'inizio dello stato detentivo, non potendo trovare applicazione il criterio legale che individua la residenza (con la quale coincide, salva prova contraria, la dimora abituale) nel luogo in cui è posta la sede principale degl'interessi e degli affari della persona, dal momento che, tale criterio, implicando il carattere volontario dello stabilimento, postula un elemento soggettivo la cui sussistenza resta esclusa per definizione nel caso in cui l'interessato, essendo sottoposto a pena detentiva, non possa fissare liberamente la propria dimora. In senso conforme si è pronunciata Cass. I, ord. n. 7241/2020. Si è anche affermato che Il giudice competente per l'apertura della tutela di chi si trovi in stato di interdizione legale per essere stato definitivamente condannato alla pena dell'ergastolo, va individuato in quello del luogo in cui, alla data dell'apertura, coincidente con l'informativa della condanna al giudice tutelare, l'interdetto abbia la sede principale dei suoi affari ed interessi. Tale luogo, da individuarsi in concreto, è, secondo l'«id quod plerumque accidit», quello della sua residenza anagrafica, salva la prova contraria, ed in particolare della circostanza che, per effetto della eventuale detenzione cautelare, nel luogo in cui risiedeva (anagraficamente o effettivamente) prima dell'arresto, l'interdetto non abbia più i propri rapporti o interessi principali, e che, dunque, il centro degli stessi si sia spostato nel luogo di detenzione (Cass. I, ord. n. 1631/2016). Può essere richiamato il principio enunciato a proposito della tutela dei minori per il quale la competenza per territorio in ordine alla procedura di tutela dell'incapace di cui all'art. 343 c.c. si radica nel luogo in cui si trova la sede principale degli affari e degli interessi dell'interdetto alla data della sua apertura, restando irrilevanti gli eventuali successivi spostamenti di dimora in ragione dell'applicazione del principio generale della «perpetuatio iurisdictionis», eccezionalmente derogabile, ai sensi dell'art. 343, comma 2, c.c., solo per giustificate esigenze riguardanti il collegamento tra il tutore e l'ufficio giudiziario cui è demandato il controllo sulla sua attività (Cass. I, ord. n. 18272/2016). Non è indicato alcun criterio di determinazione della competenza per il caso in cui il soggetto interdicendo o inabilitato non abbia residenza o domicilio in Italia. Per la dottrina si deve applicare l'art. 18, secondo comma, c.p.c., per il quale la competenza spetta al tribunale del luogo di residenza dell'attore (Andrioli). Per i cittadini residenti all'estero è competente il tribunale di ultima residenza dell'interdicendo o dell'inabilitando (art. 31, secondo comma, d.P.R. n. 200/1967). Per la legittimazione alla proposizione dell'azione si rinvia all'art. 417 c.c. Il ricorsoL'art. 712, secondo comma, indicava due aspetti necessari cui doveva riferirsi il contenuto del ricorso: – i fatti sui quali la domanda è fondata; – il nome, il cognome e la residenza dei soggetti che compongono il nucleo familiare, in senso esteso: del coniuge, del convivente di fatto, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado e, se vi sono, del tutore dell'interdicendo e del curatore dell'inabilitando. L'attuale art. 473-bis.52 contiene le medesime indicazioni; ad esse aggiunge il rinvio alle disposizioni di cui agli artt. 473-bis.12 o, a seconda dei casi, 473-bis.13. L'esposizione dei fatti che danno fondamento alla domanda ha riguardo alle circostanze di cui all'art. 414 c.c. per l'interdicendo e di cui all'art. 415 per l'inabilitando. Ne costituisce condizione l'eventuale presupposto temporale menzionato nell'art. 416. È lo stesso art. 125 c.p.c. a richiedere, più in generale e per tutti gli atti di parte, che questi indichino oltre all'ufficio giudiziario cui sono diretti e oltre alle parti, l'oggetto dell'istanza, le ragioni di questa e le conclusioni, intese come riferimento dello scopo dell'atto: l'indicazione, cioè, del provvedimento che viene chiesto al giudice. L'atto della parte è in linea ordinaria atto di difensore legalmente esercente, ove la parte non abbia i requisiti per stare in giudizio di persona o a tanto venga autorizzato. E l'obbligatorietà vige come principio generale in tutte le procedure familiari, come rende esplicito il dettato dell'art. 473-bis.14, quarto comma, che di questa obbligatorietà fa obbligo di informazione al presidente del tribunale allorché designa il relatore e fissa l'udienza di comparizione delle parti. Il richiamo dell'art. 473-bis.12 implica che anche il ricorso per l'interdizione o l'inabilitazione devono contenere: – il numero di codice fiscale delle parti e del difensore, unitamente all'indicazione della procura; – l'indicazione dei mezzi di prova dei quali il ricorrente intende valersi; – l'indicazione dell'esistenza di eventuali altri procedimenti aventi a oggetto, in tutto o in parte, le medesime domande o domande con esse connesse; – in presenza di figli minori, le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni, la documentazione attestante la titolarità dei diritti reali su beni immobili e beni mobili registrati o quote sociali, gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari relativi agli ultimi tre anni. Il numero di codice fiscale è ormai elemento di identificazione obbligatorio anche nei procedimenti giurisdizionali. Si veda, ad esempio, l'art. 3-bis d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, per quanto concerne i difensori. L'indicazione dei mezzi di prova assume un rilievo di minore importanza nell'ambito delle procedure di carattere non strettamente contenzioso e nelle quali non vi è onere di parte di osservare termini preclusivi. Inoltre, il procedimento in materia familiare, e quello in tema di interdizione e inabilitazione specialmente, si caratterizza per una larga misura dii poteri ufficiosi di iniziativa e di accertamento: sì che il requisito dell'indicazione dei mezzi di prova va inteso nel senso dell'esposizione di quanto occorra a conferire alla domanda una sua parvenza di non immediata e manifesta infondatezza. L'indicazione della sussistenza di altri procedimenti è finalizzata alla loro eventuale riunione nonché alla prevenzione di accavallamenti e di dispersioni di mezzi e di tempi. Il requisito costituisce null'altro che il richiamo di principi di semplificazione che regolano il mondo del processo in tutti i suoi aspetti. La presenza di figli minori può essere del tutto eventuale ma, quando essa sussista, l'opportunità che ne sia conosciuta la situazione in cui essi vivono, anche sotto il profilo patrimoniale ed economico, appare palese a consentire la tutela dei loro interessi. Se a chiedere il provvedimento sono i genitori, non farà differenza che si chieda al giudice una pronuncia sullo status piuttosto che un affidamento diverso o un certo provvedimento di amministrazione di beni; se i minori sono assoggettati a un tutore, nonostante l'esistenza di una tutela aperta non sarà di troppo fare il punto nel momento in cui i minori, invece di diventare capaci e autosufficienti con la maggiore età, vedono mutata la loro condizione soggettiva, tendenzialmente a tempo indeterminato. L'art. 121 c.p.c. dispone attualmente che tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico; e l'art. 473-bis.12, primo comma, lett. e) ribadisce, per il ricorso introduttivo del procedimento per interdizione o inabilitazione, che l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda si fonda deve essere chiara e sintetica. Il deposito degli atti e dei documenti ha luogo esclusivamente con modalità telematiche (artt. 87 e 196-quater disp. att. c.p.c.). 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