Finanziamenti erogati ad impresa in stato di decozione: contrarietà alla morale sociale economica e soluti retentio
17 Maggio 2024
Massima I finanziamenti concessi, anche da soggetti diversi dagli istituti di credito, a società in stato di decozione non solo sono nulli ai sensi dell'art. 1418 c.c., ma possono considerarsi, ai sensi dell'art. 2035 c.c., anche contrari al buon costume e, quindi, irripetibili, costituendo la norma da ultimo citata un limite legale all'applicabilità dell'art. 2033 c.c.. Infatti, debbono intendersi come contrarie al buon costume non solo le prestazioni contrarie alla morale sociale riferita alla sfera sessuale e della decenza, ma anche quelle contrarie alla morale che riguarda l'ambito economico e di tutela del mercato. Si deve, pertanto, ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l'erogazione di somme di denaro in favore di un'impresa già in stato di decozione tale da consentire di ritardare l'emersione definitiva dello stato di insolvenza, incrementando l'esposizione debitoria dell'impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine "predatoria" nei confronti di soggetti economici in dissesto; né la natura infruttifera, e quindi non speculativa, dei finanziamenti vale a renderli immuni da valutazione di illecita e contrarietà a buon costume. La condictio ob iniustam causam può e deve essere rilevata d'ufficio dal giudice, sulla base delle risultanze acquisite. Il caso L'ex amministratore delegato e vicepresidente del consiglio di amministrazione di una società dichiarata fallita ricorreva in Cassazione avverso il provvedimento del Tribunale che solo parzialmente accoglieva l'opposizione da egli proposta avverso il decreto di esecutività dello stato passivo del fallimento della società. Il Tribunale, con il decreto oggetto di ricorso di cassazione, ammetteva al passivo il credito vantato dall'ex amministratore a titolo di compensi, ma escludeva il credito vantato per la restituzione del finanziamento soci di circa 2,6 milioni trattandosi di prestazione irripetibile ai sensi dell'art. 2035 c.c. in quanto contraria alla morale e al buon costume che impongono di non finanziare un'impresa già in stato di decozione ritardando la dichiarazione di fallimento e aggravando il dissesto. Secondo il ricorrente, prima ancora che infondata, l'eccezione di cui all'art. 2035 c.c. era inammissibile poiché tardivamente introdotta nel procedimento (il Tribunale la aveva ritenuta rilevabile d'ufficio e quindi sottratta alla barriera preclusiva di cui all'art. 99 l.fall.). In ogni caso, sempre secondo l'ex amministratore, la natura infruttifera del finanziamento sarebbe stata sufficiente ad escluderne l'illiceità e l'intento predatorio del socio, anche in considerazione del fatto che alcuna sanzione penale era stata comminata, che i finanziamenti avevano lo scopo di ottemperare al pagamento degli stipendi e di altre obbligazioni sociali e che in parte detti finanziamenti erano stati erogati prima dell'emersione di segnali d'insolvenza della fallita; il ricorrente, quindi, reclamava, in riforma del decreto che aveva deciso l'opposizione allo stato passivo, l'integrale restituzione del finanziamento soci erogato in favore della fallita. La questione giuridica La sentenza in commento affronta il tema della (ir)ripetibilità di somme erogate in favore di una società che si trova in stato di decozione per essere gli stessi contrari alla morale intesa in senso economico. Osservazioni La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso conferma i principi enunciati dal Tribunale in sede di opposizione allo stato passivo e già affermati dalla stessa Corte di Cassazione in altre occasioni (in specie vedasi Cass., 5.8.2020, n. 16706). Prima di affrontare gli aspetti processuali e generali dell'istituto di cui all'art. 2035 c.c., pare utile soffermarsi sull'applicazione di detta norma nell'ambito creditorio-societario. Invero, il “buon costume” è clausola generale che evoca, in via immediata, la morale sociale a tutela delle prerogative fisiche e morali dell'essere umano e che è stata applicata anzitutto, come ricorda la Suprema Corte, nell'ambito della sfera sessuale e della “decenza”. L'operazione ermeneutica (e applicativa) del filone giurisprudenziale in cui si colloca la sentenza in commento parte da un'astrazione della norma, non più legata ad un preciso ambito e ad un preciso sentire etico-morale (tra i commentatori del codice del 1942 c'era chi fece riferimento alla morale cristiana), ma di potenziale applicazione in vari ambiti, capace quindi di divenire baluardo di interessi generali primari che nel contesto di riferimento sono meritevoli di una tutela particolarmente pregnante, che finisce per divenire sanzione dell'immoralità. E in particolare la Suprema Corte ha inteso sanzionare comportamenti caratterizzati dalla contrarietà ai principi dell'ordine pubblico economico, in un contesto, quello della insolvenza, in cui è preminente la tutela di interessi superindividuali, dei creditori e del mercato (è interessante sul punto Cass. 21.4.2010, n. 9441, che proprio in virtù della morale “economica” ha negato la ripetibilità di soldi corrisposti a titolo di tangente). Il punto di partenza è, infatti, assumere che nell'ambito economico-d'impresa mantenere in bonis una società finanziandola e così aggravandone l'esposizione debitoria al solo fine di ritardarne la decozione definitiva, quando questa già si prospetti come in (irreversibile) crisi contrasti con la “morale sociale”, costituisca, quindi, una condotta riprovevole secondo il comune sentire contraria alle regole di correttezza del mercato. Effettuata questa traslazione della norma in un ambito diverso da quello che le è (o pare essere) proprio, la Suprema Corte - anche in ragione delle doglianze del ricorrente – affronta un punto che, a parere di chi scrive, assume peculiare rilevanza. L'ordinamento sanziona con la nullità gli atti contrari all'ordine pubblico o a norme imperative e pone, quindi, come limite esterno di validità dei negozi la violazione dell'insieme delle norme fondamentali dell'ordinamento giuridico. La illiceità che si traduce in nullità ex art. 1418 c.c. conduce, in termini rimediali-restitutori, al ripristino della situazione anteriore al negozio illecito, trova infatti applicazione l'art. 2033 c.c.. La Suprema Corte avverte l'esigenza di ribadire che l'atto in contrasto con norme imperative o ordine pubblico può essere al contempo valutato come (anche) contrario al buon costume agli effetti dell'art. 2035 c.c. (“si palesa inoltre come aggiuntiva ratio nella qualificazione di illiceità dei negozi, sotto il profilo causale, ai sensi degli artt. 1343 e 1418 c.c.” Cass.. 5.8.2020, n. 16706) ed è in ciò che si palesa in modo chiaro l'aspetto sanzionatorio: affermare che la norma da ultimo citata costituisce “limite legale” di applicazione del precedente art. 2033 c.c., significa presuppore una valutazione di meritevolezza di un effetto deteriore di quello della nullità, che si traduce in una diminutio patrimoniale del finanziatore. L'accipiens, del resto, riceve un vantaggio solo “mediato” dalla irripetibilità “sanzionante” della somma. E infatti, la Corte ha premura di evidenziare, rigettando la tesi del ricorrente, che non rileva il fatto che il finanziamento fosse infruttifero e, quindi, non speculativo; ciò non lo rende immune da illiceità e non impedisce la irripetibilità anche solo del capitale prestato. Dal punto di vista dell'applicazione al caso concreto, vi sono due aspetti rilevanti nella decisione e, più in generale, nella tesi in commento. Il primo è profilo causale: il finanziamento deve avere come obiettivo quello di ritardare la dichiarazione di fallimento, oggi liquidazione giudiziale con una conseguenza immediata di aggravamento del dissesto della società; il secondo aspetto è quello soggettivo, la consapevolezza rispetto alla situazione di insolvenza e al suo intensificarsi. Sono elementi che connotano precipuamente la immoralità e giustificano la sanzione di irripetibilità. Le doglianze del ricorrente, sul punto, sono state giudicate inammissibili in quanto tendenti al riesame del merito dei fatti di causa, ma la Suprema Corte ha affermato la necessità di funzionalità del mutuo rispetto “ad una strategia di occultamento del dissesto”, elemento che sembra potersi desumete dalla assenza di concreta finalità imprenditoriale e dalla non riconducibilità a un ragionevole programma di salvataggio; sul piano soggettivo, l'irrilevanza dell'esistenza di una previa sanzione penale e l'irrilevanza dell'assenza di un fine speculativo sono indici che inducono a concludere per la sufficienza di una consapevolezza del dissesto. Con queste premesse e ricordato, in chiave processuale, che la soluti retentio di cui all'art. 2035 c.c. è questione sottratta alla disponibilità delle parti e costituisce eccezione in senso lato rilevabile d'ufficio, la Corte ha respinto il ricorso riaffermando il principio di applicabilità all'ambito economico del canone di cui all'art. 2035 c.c. e ritenendo motivato sul punto il provvedimento del Tribunale. Conclusioni La pronuncia in commento, a parere di chi scrive, suscita la necessità di approfondire il tema della valutazione della contrarietà al buon costume del finanziamento erogato. L'effetto finale di aggravamento del dissesto non è certo, tendenzialmente voluto come finalità dell'operazione, ma è conseguenza che solo ex post è constatabile, alla base vi è (vi può essere) l'intenzione di risanare la crisi con iniezione di nuova finanza. La stessa riforma del Codice della Crisi è incentrata sugli strumenti di risanamento e superamento della crisi attraverso il credito bancario o di soggetti diversi dalle banche, cui è stato esteso il regime della prededuzione. Ad oggi, quindi, forse gli strumenti di regolazione della crisi legislativamente previsti consentono una via certamente più sicura e tutelante per il risanamento in continuità dell'impresa. |