L’imputato che, a seguito della sentenza di condanna intervenuta nel giudizio di impugnazione, sia stato raggiunto da ordinanza coercitiva in relazione allo stesso fatto per il quale era già stata emessa pregressa ordinanza cautelare, poi caducata a seguito di sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere, deve impugnarla ai sensi dell’art. 309 c.p.p. Ecco le motivazioni delle Sezioni Unite.
Questione controversa
La questione controversa riguarda il mezzo di impugnazione dell'ordinanza coercitiva prevista dall'art. 300 comma 5, c.p.p.: si tratta di una nuova ordinanza custodiale nei cui confronti deve essere presentata richiesta di riesame, o del ripristino della precedente ordinanza (già posta nel nulla a seguito della sentenza di assoluzione poi riformata) nei cui confronti deve essere presentato appello?
Possibili soluzioni
Prima soluzione
Seconda soluzione
Secondo un primo orientamento il rimedio esperibile è l'appello, essendosi in presenza di un'ordinanza che rinnova la misura coercitiva già applicata.
Si è invero statuito che «in tal caso, la misura genetica perde efficacia - per effetto della sentenza assolutoria di primo grado - senza essere eliminata del tutto, sicché il sovvertimento del verdetto assolutorio ne comporta la reviviscenza», sicché «il relativo provvedimento di ripristino è soggetto ad appello e non a riesame» (Cass. pen., sez. V, 5 luglio 2011, n. 32852).
Le pronunce che hanno seguito questo orientamento ritengono persistente il legame fra l'ordinanza cautelare poi caducata e quella sopravvenuta, che «non può essere considerata come nuovo provvedimento coercitivo, dato il nesso necessario e indissolubile che la lega a quella che ha disposto la precedente misura» (1).
Secondo l'opposto orientamento il rimedio esperibile è la richiesta di riesame, essendosi in presenza di un'ordinanza che dispone ex novo la misura cautelare, pur se in relazione a fatti per i quali era già stata applicata una misura coercitiva.
Si è, dunque, statuito che «In tema di impugnazione di misure coercitive, avverso l'ordinanza che costituisce reiterazione di precedenti provvedimenti per qualsiasi ragione caducati è proponibile il riesame e non l'appello, non ricavandosi alcuna distinzione al riguardo dall'art. 309 c.p.p., che si riferisce indistintamente a tutte le ordinanze applicative di misure coercitive. (Fattispecie nella quale la misura della custodia cautelare era stata ripristinata con la sentenza di condanna in primo grado, dopo che la precedente misura era stata annullata a seguito di ricorso per cassazione)» (Cass. pen., sez. VI, 8 marzo 1999, n. 842).
L'orientamento, oltre alla risalente sentenza appena citata, è stato implicitamente sostenuto da quelle sentenze che, pur senza affermare espressamente il principio, hanno trattato procedimenti relativi ad ordinanze applicate ai sensi dell'art. 300 comma 5, c.p.p., impugnate con richiesta di riesame e non con atto di appello (2).
(1) Cass. pen., sez. I, 12 febbraio 2002, n. 23061.
(2) Cass. pen., sez. I, 26 novembre 2019, dep. 2020, n. 6176; Cass. pen., sez. I, n. 35468 del 17 marzo 2016; Cass. pen., sez. I, 5 marzo 2003, dep. 2004, n. 7642; Cass. pen., sez. VI, 4 luglio 2000, n. 3092.
Rimessione alle Sezioni Unite
Cass. pen., sez. I, 10 aprile 2024, n. 21614
I giudici rimettenti erano chiamati a scrutinare il ricorso per cassazione del soggetto che, assolto in primo grado dall'imputazione di omicidio in relazione alla quale era stato raggiunto da ordinanza coercitiva nella fase delle indagini preliminari, era stato condannato dalla Corte d'appello, che aveva conseguentemente emesso nei suoi confronti, accogliendo la richiesta del pubblico ministero, ordinanza di custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 300 comma 5, c.p.p.
Il tribunale del riesame aveva dichiarato inammissibile l'impugnazione proposta nelle forme dell'appello, sostenendo, per un verso, che il prevenuto avrebbe dovuto presentare richiesta di riesame, e, per altro verso, che l'impugnazione presentata era comunque priva dei requisiti pretesi dall'art. 581 comma 1, lett. d), c.p.p.
La Prima Sezione penale, dopo aver illustrato le rilevanti conseguenze che derivano dall'individuazione del gravame esperibile avverso il provvedimento in esame, ha dato atto del contrasto esistente nella giurisprudenza di legittimità, rilevando che il primo e più risalente orientamento pare essere corroborato da quelle pronunce che, in un caso diverso ma non dissimile da quello di specie, hanno statuito che «il provvedimento che ripristina la custodia cautelare in carcere a norma dell'art. 307, comma 2, lett. b) c.p.p., facendo rivivere quello originario cessato per decorrenza dei termini di fase, è impugnabile dall'interessato non già mediante il riesame bensì con l'appello ex art. 310 c.p.p.» (Cass. pen., sez. VI, 23 febbraio 2017, n. 27459), trattandosi di provvedimento che «fa rivivere quello originario» (Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2007, dep. 2008, n. 5740), mentre il secondo orientamento pare più coerente con la rubrica e con il tenore letterale dell'art. 300 c.p.p. (laddove si parla di estinzione della misura a seguito della pronuncia assolutoria: sicché apparirebbe improprio parlare di “ripristino” di una misura che ha definitivamente perso la sua efficacia), con i caratteri del nuovo provvedimento (che il giudice emette a seguito di una rinnovata disamina delle esigenze cautelari del pericolo di fuga e/o della recidivanza), con quell'orientamento giurisprudenziale che, in analoga fattispecie in cui pure è stabilita la perdita di efficacia di una misura cautelare coercitiva, individua nella richiesta di riesame l'atto di impugnazione deputato a contrastare quella che, ove riemessa, viene considerata una nuova misura (cfr. Cass. pen., sez. I, 9 luglio 2003, n. 29687, in tema di ordinanza emessa dopo la declaratoria di perdita di efficacia della pregressa ordinanza a seguito del mancato espletamento dell'interrogatorio di cui all'art. 294 c.p.p.), ed infine con la considerazione che l'imputato condannato in grado di appello che venga attinto da susseguente provvedimento coercitivo senza mai essere stato raggiunto da un precedente titolo cautelare deve senz'altro impugnarlo con richiesta di riesame (non sussistendo sostanziali elementi di difformità che giustifichino una diversità di disciplina tra la situazione appena descritta e quella sottoposta al vaglio delle Sezioni unite).
Il ricorso è stato, pertanto, rimesso alle Sezioni Unite, alle quali è stato rivolto il seguente quesito: «Se l'imputato, nei confronti del quale era stata emessa ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all'esito del giudizio di primo grado, debba impugnare l'ordinanza con la quale sia stata disposta, ai sensi dell'art. 300, comma 5, c.p.p., la custodia cautelare in carcere con la richiesta di riesame ovvero con l'appello cautelare».
Informazione provvisoria
Le Sezioni Unite, all'esito della camera di consiglio dell'11 luglio 2024, hanno statuito che «Il rimedio esperibile avverso l'ordinanza suddetta è la richiesta di riesame».
Le motivazioni delle Sezioni Unite
Cass. pen., sez. un., 11 luglio 2024, n. 44060
La Corte ha preliminarmente illustrato i diversi caratteri dei due diversi mezzi di impugnazione: l'appello deve, a pena di inammissibilità, «indicare in modo specifico i punti del provvedimento di cui l'impugnante richiede il nuovo esame e deve precisarne le ragioni, pena - in mancanza - il rilievo della sua genericità», essendo, dunque, necessario, in forza dell'art. 581, comma 1-bis, c.p.p. enunciare e argomentare i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata; la richiesta di riesame, invece, «non esige la necessaria articolazione in motivi dei profili di censura», stante la sua natura interamente devolutiva, che consente al tribunale di annullare o riformare il provvedimento impugnato anche per motivi diversi da quelli oggetto delle doglianze del ricorrente, e di confermarlo anche per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione dell'ordinanza; ulteriori differenze si rinvengono nelle modalità di svolgimento del procedimento, nei relativi termini, nonché nella possibilità, prevista solo in sede di riesame, di introdurre motivi nuovi in sede camerale.
Dopo aver ripercorso le ragioni a fondamento dei due orientamenti in contrasto, e dopo aver illustrato i motivi per i quali devono ritenersi non del tutto soddisfacenti gli argomenti sviluppati nelle poche sentenze che si sono occupate della questione, la Corte ha ritenuto di dover aderire all'orientamento in base al quale la nuova ordinanza coercitiva deve essere impugnata con richiesta di riesame, rilevando che «rispetto alla prima misura coercitiva applicata, la sentenza di assoluzione, che ne fa venire meno l'efficacia, innegabilmente costituisce una forte cesura», e che è «indubbio che la nuova misura susseguente a sentenza di condanna in appello viene emessa dopo un nuovo giudizio di cognizione ... suscettibile di essere arricchito da nuove prove, sicché difficilmente può dubitarsi della sua autonomia rispetto al primo provvedimento caducato in conseguenza dell'assoluzione»: ed invero, «le valutazioni effettuate in appello, seppur basate sullo “stesso fatto”, possono contenere nuovi apprezzamenti in merito al riconoscimento di circostanze in un primo momento escluse dalla ordinanza genetica o diversi apprezzamenti in tema di ricostruzione del fatto, intensità del dolo, personalità dell'imputato, idonei come tali a modificare sensibilmente il quadro cautelare. In questo caso, quindi, appare quanto meno problematico parlare di “reviviscenza” di un'ordinanza che ha perso efficacia e che viene sostituita da un provvedimento il quale, nei limiti descritti, certamente ha un contenuto di novità».
Quando adotta la misura cautelare ai sensi dell'art. 300, comma 5, c.p.p., il giudice di appello esercita funzioni e svolge valutazioni analoghe a quelle previste dall'art. 275 c.p.p., commi 1-bis (che impone al giudice che adotti la misura cautelare contestualmente alla pronuncia di una sentenza di condanna un particolare esame delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p., lettere b e c, da apprezzare alla luce dell'esito del procedimento, della sanzione applicata, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti, al fine di stabilire se, a seguito della decisione di condanna, si renda necessaria l'adozione di una misura cautelare personale) e 2-ter (che regola l'applicazione di misure cautelari personali nei casi di condanna in appello per uno dei reati indicati dall'art. 380, comma 1, c.p.p., commessi da un soggetto recidivo): in queste due ordinanze (che secondo l'univoca giurisprudenza di legittimità devono essere impugnate con richiesta di riesame), così come in quella emessa nel caso di specie, il giudice rivaluta le esigenze cautelari «attraverso un accertamento compiuto alla luce dei fatti emersi nel processo», che «contiene, evidentemente, una componente di "novità", in quanto viene effettuato su basi diverse rispetto a quelle oggetto di verifica operata in sede di emissione della ordinanza genetica, tenuto conto che è trascorso del tempo e, intanto, è intervenuta la sentenza di condanna di secondo grado; a riprova di ciò, si ricorda che in questa fase il giudice potrà applicare una misura più o meno grave rispetto a quella precedentemente eseguita che ha perso efficacia, a dimostrazione della autonomia e novità del suo giudizio».
Dunque, «l'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 300, comma 5, c.p.p., non [può] considerarsi quale semplice "reviviscenza" dell'ordinanza genetica, poi caducata, a fronte di un quadro cautelare certamente inciso dal trascorrere del tempo e dall'intervento della sentenza di condanna in appello, che ha ribaltato la decisione di proscioglimento adottata in primo grado: il provvedimento de quo, viceversa, presenta indubbi aspetti di "novità" ed "autonomia" in confronto a quello precedente, sì da giustificare, per la sua impugnazione, l'attivazione del procedimento di riesame. Alla luce di quanto prima esposto, concorrono a sostenere tale approdo: a) il carattere di forte cesura impresso alla primigenia vicenda cautelare dalla sentenza di assoluzione emessa in primo grado, in coerenza con la già ricordata ratio giustificatrice della introduzione della norma in commento; b) la componente di "novità" intrinseca nel giudizio di appello e nella condanna che ribalti la pronuncia assolutoria, essendo rimesso al giudice di secondo grado, anche in assenza di rinnovazione istruttoria dibattimentale, il compito di "rivalutare" le esigenze cautelari mediante un accertamento compiuto alla stregua dei fatti emersi nel processo, anche sopravvenuti, e necessariamente effettuato su basi diverse rispetto a quelle oggetto di verifica operata in sede di emissione della ordinanza genetica, poi venuta meno; c) l'omologia dei criteri valutativi e delle regole che il giudice emittente l'ordinanza di cui all'art. 300, comma 5, c.p.p. è tenuto ad applicare rispetto ai criteri e alle regole imposti al giudice emittente la misura cautelare nei casi previsti dall'art. 275, commi 1-bis e 2-ter, c.p.p., con riferimento ai quali la giurisprudenza di legittimità ha affermato la praticabilità del ricorso con istanza di riesame ex art. 309 c.p.p.; d) l'esigenza di evitare irragionevoli discriminazioni, nell'opzione dello strumento di tutela, tra medesime situazioni di fatto».
Sulla base di queste considerazioni, le Sezioni Unite hanno risolto la questione controversa statuendo il principio di diritto secondo cui «Nel caso in cui l'imputato, nei confronti del quale sia stata emessa sentenza applicativa della custodia cautelare in carcere, divenuta inefficace per il proscioglimento pronunciato all'esito del giudizio di primo grado, venga successivamente sottoposto, ai sensi dell'art. 300, comma 5, c.p.p., a nuova applicazione della custodia in carcere, il rimedio che egli può esperire per impugnare la relativa ordinanza è quello dell'istanza di riesame exart. 309 c.p.p.».
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